Gentile, Giovanni
Una fedeltà profonda al culto di D., lungo l'ampio e coerente itinerario speculativo dell'attualismo, mostra il G. (Castelvetrano, Trapani, 1875 - Firenze 1944) in numerosi e suggestivi scritti raccolti da V.A. Bellezza (Studi su D., Firenze 1965): da quello su D. nella storia del pensiero italiano (1904) alla mirabile ‛ lectura Dantis ' Il canto di Sordello (1939).
L'attenzione rivolta a questi scritti soprattutto da italianisti preoccupati di liberarsi del modulo critico distinzionistico crociano (ad es., da L. Russo: La critica letteraria contemporanea, II, Dal G. agli ultimi romantici, Bari 1946², 91 ss.) invita a pensare alla validità di un approccio a D., proposto in nome della necessità di cogliere, attraverso un esercizio critico integrale condotto sull'opera dantesca, l'unità indissolubile, diremmo anche dialettica, propria di quell'opera, di filosofia e poesia. È importante sottolineare, in proposito, che, proprio per questo, gli scritti danteschi di G. sono, fin dall'inizio, carichi di una sostanza teorica che rifluisce, poi, sistematicamente ne La filosofia dell'arte (1931); e hanno, di conseguenza, il pregio d'indicare un metodo critico il cui uso avrebbe potuto impedire la lettura frammentistica o episodica e, soprattutto, anticipare il tempo di una critica estetica globale, la sola che può veramente valutare l'opera di D., in particolare la poesia del Paradiso, che maggiormente soffre dell'esilio dal limbo della poesia istituito dal Croce, onde ha cercato di toglierla la critica più recente, di cui la gentiliana, sempre speculativamente sostenuta (anche la filosofia può vivere, o sopravvivere, nella poesia sub specie artis), è fortemente anticipatrice. Si pensi, allora, al significato che possono avere le recensioni gentiliane dell'opera del Vossler. Al quale si rimprovera il torto di aver progettato, non poco in questo sollecitato o fuorviato dal Croce, una " storia genetica ed evolutiva " del " contenuto astratto " della Commedia. Quello che si rimprovera, in ultimo, nell'occasione di ogni accostamento a D., è l'oblio del desanctisiano " tal contenuto, tal forma ", recuperato a una dignità estetica, che non avrebbe potuto assolutamente raggiungere se non attraverso la fondazione dell'immagine dell'uomo (anche il critico d'arte e il lettore di D.) preso nella sua interezza: la quale è, poi, quella necessaria a cogliere la stessa poesia di D. nella sua interezza. Alludendo, appunto, al metodo desanctisiano così recuperato, il G., estendendo a D. un'operazione critica già applicata o che applicherà anche a Manzoni e a Leopardi, può concludere: " Il pensiero dunque di un poeta non si attinge per altra via da quella che ci è additata dal metodo romantico: il quale non solo ci mette in grado di ricostituire il pensiero stesso, ma di scavare attraverso di esso fino alla scoperta del filo d'oro di quella vita immortale che è la poesia, in cui il pensiero fu assunto e assorbito " (Studi danteschi, cit., p. 187). Mantiene, il G., fede a questo fondamentale assunto estetico nel suo personalissimo esercizio critico? Diremmo di sì, ad esempio, se un fatto capitale della poesia dantesca, l'allegoria, non esce mai, da quell'esercizio, castigata sul piano delle elucubrazioni di un Pascoli o di un Pietrobono. Questo dipende dal fatto che il G. guarda a quella che egli definisce l'" allegoria costitutiva, organica e vivente " (op. cit., p. 190), dalla quale esce fuori una filosofia che non ha senso fuori del suo rapporto dialettico con la poesia. E diremmo che, qui, il G., con riferimento particolare alla filosofia e alla poesia di D., anticipa il punto di vista di quel dantista di eccezione (perché anche lui poeta) che è T.S. Eliot, per il quale, sì, la forma originale di una filosofia non può essere poetica, ma può, sì, la poesia, essere penetrata da un'idea filosofica. Per il G., infatti, nella Commedia, c'è una filosofia, " ma una filosofia non definibile in astratto, bensì conoscibile soltanto come una vita di quest'uomo, del suo cuore, della passione del suo cuore " (op. cit., pp. 189-190). E va da sé che, da questo particolare angolo visuale, reso possibile da un'estetica cui è sottesa una filosofia che punta sull'unità fondamentale dello spirito umano, si evitano tutte le conseguenze, nefaste soprattutto nella lettura di D., del formalismo puro e del contenutismo piatto.