Giolitti, Giovanni
Politico e statista (Mondovì 1842-Cavour 1928). Laureato in giurisprudenza, lavorò dal 1862 nell’amministrazione statale, dal 1872 come reggente della direzione generale delle Finanze e poi come segretario generale della Corte dei conti. Consigliere di Stato dal 1882 su invito di A. Depretis, l’anno stesso poté presentarsi candidato alla Camera e fu eletto deputato a Cuneo. Attivo nel gruppo dei liberali progressisti, seguì con impegno particolare la politica finanziaria, dal 1885 in espressa polemica con il ministro del Tesoro A. Magliani, e nel 1887 sostenne il gabinetto Crispi. Dopo le dimissioni di Magliani, fu G. ad assumere il ministero del Tesoro (marzo 1889-dic. 1890), divenendo il leader del partito delle economie nella sinistra liberale. Ciò lo mise in una luce particolare per cui, caduto il governo Rudinì, la scelta del re per l’incarico di presidente del Consiglio, sollecitata da U. Rattazzi, cadde su G. (maggio 1892). Capisaldi del suo programma furono: in politica estera, accettazione della Triplice (➔ Triplice alleanza), ma interpretata come alleanza puramente difensiva; in politica finanziaria, restaurazione del bilancio; in politica interna volle interrompere la tradizione dello Stato costante alleato e strumento delle classi benestanti, lasciando organizzare le forze operaie e, in quel tempo, specie le rurali (Fasci dei lavoratori di Sicilia), considerando i loro moti come espressione e rimedio di un profondo squilibrio sociale. A segnare la fine del primo gabinetto G. (nov. 1893) intervennero la battaglia parlamentare di Crispi e lo scandalo della Banca romana, nel quale il presidente del Consiglio venne accusato da un comitato di parlamentari, incaricato di indagare sulle vicende dell’istituto di emissione, di irregolarità commesse allorché era ministro del Tesoro (gli atti d’accusa furono archiviati nel 1895, non prima che G., per evitare un probabile arresto, si trasferisse in Germania). Con l’inizio del secolo G. prese a occupare un posto di grandissimo rilievo nel quadro politico, tanto che sovente gli storici del secondo dopoguerra hanno parlato del periodo 1901-14 come dell’«età giolittiana»: fu infatti ministro degli Interni del gabinetto Zanardelli (1901-03; ma in effetti l’ispiratore della politica governativa), poi presidente del Consiglio per tre lunghi ministeri fino al 1914, interrotti dai gabinetti Tittoni, Fortis e Sonnino (1905-06), e dai gabinetti Sonnino e Luzzatti (1909-11). La politica giolittiana fu orientata verso un «ordinato progresso civile», che comportava un prudente allargamento delle basi del potere, al fine di permettere una certa forma di partecipazione al movimento dei lavoratori; in questa prospettiva egli accentuò – visto anche il fallimento delle politiche puramente repressive dei suoi predecessori – il carattere liberale della linea governativa, cercando di porre lo Stato in una posizione neutrale o intermedia nei conflitti di lavoro (negli anni giolittiani ebbe un certo sviluppo anche la legislazione del lavoro). In ambito economico, G. tese a sostenere, con un cauto protezionismo, lo sviluppo dell’industria – in ascesa rispetto a una struttura economica tradizionalmente agraria – pur difendendo il bilancio statale dalle pressioni dei privati. I punti dove maggiormente si diressero le polemiche degli oppositori di sinistra furono la politica meridionale (il protezionismo sul grano sosteneva di fatto il latifondo) e la spregiudicata prassi elettoralistica (in un celebre pamphlet del 1909 G. Salvemini lo bollò come «il ministro della mala vita»), mentre da altri settori (G. Fortunato, L. Einaudi) gli veniva rimproverato l’abbandono del liberismo sul terreno della politica economica (lavori pubblici, protezionismo, legislazione del lavoro ecc.), e da settori industriali l’acquiescenza nei confronti delle rivendicazioni sindacali. A suo favore G. ebbe la Corona, il socialismo riformista (che conseguì da quella politica un obiettivo impulso e una forte crescita), alcuni settori intellettuali (soprattutto B. Croce) e larghi strati della borghesia. Poté così costruire e mantenere un articolato sistema di potere i cui primi segni di squilibrio si manifestarono verso la fine del primo decennio, allorché si profilò una crisi generale della società e dello Stato liberali, attraverso una serie di spostamenti politici significativamente centrifughi: il movimento operaio, posta in minoranza la componente riformista, iniziò a pretendere un più sostanziale coinvolgimento nel potere, i cattolici rivendicavano una presenza non più marginale nello Stato, mentre alcuni settori politici e intellettuali ipotizzavano un’organizzazione sociale di tipo corporativo e si diffondeva il movimento nazionalista. G. si rivolse allora al mondo cattolico e strinse nel 1913 un accordo elettorale, il patto Gentiloni (➔ Gentiloni, Vincenzo Ottorino), che gli avrebbe consentito maggiori spazi di manovra politica; ma anche la Camera uscita dalle elezioni del 1913 (era stata varata una riforma che allargava il suffragio maschile portando gli aventi diritto al voto dal 7% al 23,2% della popolazione) gli rese difficile l’azione di governo e nel marzo 1914 G. preferì dimettersi. La guerra mondiale lo sorprese a Londra, dove apprese la decisione per la neutralità che approvò e sostenne in seguito, dubitando che lo Stato italiano avesse sufficiente solidità per partecipare a una guerra così immane. Giunto a Roma (9 maggio), provocò in favore della neutralità una dimostrazione extraparlamentare da parte di più di 300 deputati e 100 senatori, mettendo in crisi il gabinetto Salandra, che però fu riconfermato dal re. Restò ai margini della vita politica durante il periodo bellico, ma venne chiamato nel giugno 1920 a costituire il suo quinto ministero, in una situazione in cui il durissimo conflitto politico e sociale segnava la dissoluzione dello Stato liberale, rendendo pressoché inesistenti i margini della tradizionale mediazione giolittiana. Sciolta la Camera, il responso delle urne gli fu nuovamente avverso e nel giugno 1921 G. rassegnò le dimissioni ponendo termine alla carriera di statista. Come deputato liberale, dal 1924 fu all’opposizione del governo Mussolini.