Giolitti, Giovanni
Lo statista che modernizzò lo Stato italiano e ne allargò le basi sociali
Giovanni Giolitti è stato uno dei più grandi protagonisti della nostra storia unitaria, al punto che il primo decennio del Novecento italiano viene definito età giolittiana. Dopo un oscuro apprendistato in Parlamento, Giolitti divenne ministro delle Finanze e poi capo del governo in varie fasi. La più importante e duratura fu quella dal 1903 al 1914, che coincise con uno dei periodi di maggiore sviluppo economico e sociale del nostro paese. La sua azione politica, mirante a modernizzare l'Italia e ad allargare le basi del consenso allo Stato liberale, è tuttora oggetto di interpretazioni contrastanti
Giovanni Giolitti, nato a Mondovì nel 1842 e morto a Cavour nel 1928, è stato indubbiamente uno dei maggiori uomini di Stato italiani, anche se il giudizio sulla sua opera ha diviso profondamente i contemporanei e gli storici.
Per alcuni fu un astuto conservatore travestito da progressista; per altri un opportunista che accettò senza problemi la dissoluzione delle basi del regime liberale. Per alcuni fu il liquidatore del sistema bipartitico a favore di maggioranze centriste e trasformiste costruite su interessi clientelari e locali: grande corruttore, quindi, della vita politica e parlamentare e personalmente corrotto nella vicenda della Banca Romana. Per altri fu l'interprete politico del reale modo di essere della società italiana, che era meno salda nei principi etici rispetto agli anni del Risorgimento ed era stretta nella morsa del conflitto tra una destra e una sinistra eversive, che solo una politica centrista poteva neutralizzare. Per alcuni, fu ideatore e realizzatore di una società moderna e democratica attraverso l'introduzione del suffragio universale maschile (elezioni) e l'inserimento di socialisti e cattolici nella vita politica del paese; per altri fu il semplice notaio di un'avanzata delle masse lavoratrici, socialiste, cattoliche e poi anche nazionaliste, che avveniva per forza propria e con intenti ostili nei confronti del regime liberale.
Dopo aver percorso una folgorante carriera nell'amministrazione dello Stato, Giolitti iniziò nel 1882 la sua carriera politica. Eletto deputato, entrò a far parte, come liberale progressista, della maggioranza parlamentare di Agostino Depretis. In Parlamento niente gesti clamorosi, nessun discorso altisonante: solo un oscuro e duro lavoro nelle commissioni parlamentari, grazie al quale acquisì una perfetta conoscenza dei meccanismi e dei protagonisti della vita parlamentare.
Nel 1885 assieme ad altri quarantaquattro deputati, fra cui anche Sidney Sonnino, Giolitti prese le distanze dalla finanza allegra del ministro del Tesoro Agostino Magliani e dagli espedienti con cui questi occultava il deficit di bilancio.
Il bilancio dello Stato in pareggio, mediante il contenimento delle spese superflue, era considerato da Giolitti la condizione fondamentale per difendere il prestigio internazionale dell'Italia e poter realizzare una riforma fiscale a favore dei ceti meno abbienti. Nel 1889 divenne ministro del Tesoro nel governo Crispi e, fedele alle sue convinzioni, nel 1890, di fronte alla richiesta di un inopportuno aumento di spesa da parte del ministro dei Lavori pubblici, si dimise.
Dopo due anni il re Umberto I, per uscire da una situazione politica di stallo, gli conferì l'incarico di formare il governo: Giolitti presentò un programma imperniato sul risanamento del bilancio dello Stato e sulla riforma fiscale. Ma non furono realizzati né l'uno né l'altra, mentre gli effetti della crisi economica si facevano sempre più devastanti e il disagio delle masse contadine e operaie cresceva. A ciò si aggiunse, sul finire del 1893, lo scandalo della Banca Romana, che lo vedeva coinvolto perché come ministro aveva coperto gravi irregolarità commesse dall'istituto. Si giunse così alla caduta del suo governo.
Parve allora che la sua carriera politica fosse finita per sempre. Riuscì invece a rientrare in gioco, nel 1901 come ministro dell'Interno e dal 1903 come presidente del Consiglio.
La situazione nel 1901-03 era molto diversa rispetto a dieci anni prima. Il bilancio dello Stato era in pareggio da oltre cinque anni. Il sistema creditizio era stato ristrutturato e ammodernato. Il flusso delle rimesse in denaro degli emigrati si era fatto consistente. Dal 1896 era in atto, su scala nazionale e internazionale, una forte ripresa economica. Una politica di neutralità del governo nella tenuta dell'ordine pubblico e nei conflitti tra capitalisti e operai, ancora molto aspri, era adesso molto più praticabile di quanto non lo fosse nel 1893-94.
Furiosamente criticato dai conservatori, Giolitti ‒ mentre continuava a tenere con pugno di ferro il Mezzogiorno ‒ lasciò che nel Nord scioperi e manifestazioni operaie avessero libero corso, senza ordinare l'intervento della forza pubblica neppure quando si producevano lesioni del diritto di proprietà. Ne conseguì un forte incremento del costo del lavoro, ma ciò non impedì che l'Italia realizzasse, nei dieci anni in cui Giolitti rimase alla guida del governo, un processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale che resta, in assoluto, tra i più rapidi e profondi dell'intera storia nazionale. Nell'area identificata dal triangolo Milano-Torino-Genova sorse allora per la prima volta una società veramente industriale e l'economia italiana iniziò a recuperare il ritardo rispetto ai paesi d'Europa più ricchi e dinamici.
Autorevoli storici dell'economia hanno però osservato che Giolitti non ebbe un ruolo né di promozione né di controllo di quel processo, che si affermò per forza autonoma e che si giovò piuttosto delle scelte operate dai suoi predecessori. Giolitti intervenne per attenuare gli squilibri sociali e territoriali varando le prime misure di previdenza sociale e le prime leggi speciali per il Mezzogiorno, peraltro con risultati insufficienti a risolvere la questione meridionale.
Anche l'ingresso delle masse lavoratrici, socialiste e cattoliche nella vita politica del paese, che Giolitti indubbiamente cercò di realizzare, è stato visto più come il frutto di una maturazione spontanea di quelle forze che non come la conseguenza di un suo disegno strategico. E peraltro, nel 1914, quando il governo Giolitti cadde, quel disegno non era giunto a compimento. I socialisti riformisti non avevano ancora accettato di entrare nel governo, mentre quelli rivoluzionari avevano riconquistato la maggioranza all'interno del partito. Diversi deputati cattolici, in seguito al patto Gentiloni, erano entrati nel 1913 in Parlamento, ma nessun ripensamento ufficiale era avvenuto da parte della Chiesa (che dopo la presa di Roma aveva assunto una posizione di chiusura verso lo Stato italiano) e nessun partito politico di ispirazione cattolica era entrato nella vita politica del paese.
Nel 1911, nel cinquantenario dell'unità, il regime liberale giolittiano era all'acme. Successo economico e grande maggioranza politica liberal-progressista lo sorreggevano saldamente, mentre con la guerra di Libia si tentava di agganciare anche i nazionalisti. Tre anni dopo, l'irruenza dei nazionalisti era ben lungi dall'essere appagata: Giolitti ‒ contrario all'intervento dell'Italia nella Prima guerra mondiale, perché riteneva che il nostro paese fosse troppo fragile per reggerne il peso ‒ fu costretto nel maggio del 1915 ad assistere dai banchi dell'opposizione all'ingresso italiano nella guerra, ingresso dovuto al prevalere di tutte le spinte extraparlamentari che egli aveva cercato di frenare e metabolizzare.
Giolitti tornò un'ultima volta al governo nel 1920, appoggiato dai partiti costituzionali, dai nazionalisti, dai popolari e non osteggiato neppure dai socialisti moderati e da Mussolini. La posizione internazionale dell'Italia era molto delicata per via della questione di Fiume e della delusione per i mancati frutti della vittoria. L'economia era alle corde. Lo scontro sociale a livelli altissimi. Socialisti e cattolici disponevano di partiti di massa organizzati, mentre i liberali ne erano privi. Giolitti si illuse di poter ancora basare l'egemonia liberale sul controllo dell'apparato prefettizio, come era avvenuto prima della Grande guerra. Egli colpì gli interessi capitalistici con alcune leggi sui profitti di guerra e lasciò ancora una volta che lo scontro tra capitalisti e operai, culminato nell'occupazione delle fabbriche, si esaurisse senza l'intervento dello Stato.
Infine, ritenne di poter adottare la stessa strategia con il neonato partito fascista, credendo di poterlo assorbire nella normale fisiologia della vita parlamentare. Fu invece la fine del suo governo e dello stesso regime liberale. Come deputato liberale, dal 1924 fu all'opposizione del governo Mussolini.