GIUDICI, Giovanni
Nacque a Le Grazie, nel comune di Portovenere, sul golfo di La Spezia, il 26 giugno 1924 da Gino (1892-1965), allora impiegato avventizio che si trovava a passare da un ente privato all’altro, e da Alberta Giuseppina Portunato (1891-1927), maestra elementare, quarto e solo sopravvissuto di cinque figli morti alla nascita o poco dopo.
La famiglia paterna era originaria di Casale Marittimo (Livorno) e il nonno era farmacista alle Grazie, mentre quella materna aveva radici marinare e il nonno era archivista presso l’Arsenale militare di La Spezia. Alla madre risale la traccia di una prima educazione cattolica, in un legame subito interrotto dalla morte di lei, per parto, l’8 novembre 1927. Nel 1928 il padre sposò in seconde nozze Clotilde Carpena, da cui ebbe poi cinque figli, e nel 1929 si trasferì a Cadimare, sul versante opposto del golfo, e poi alla fine del 1930 a La Spezia. In questi passaggi forte fu il disagio del bambino, anche per il distacco dai nonni paterni, presso cui tornò nel 1932, frequentando la quarta elementare a Le Grazie. Il padre intanto trovò impiego presso l’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) e poi presso il ministero della Guerra: dovendo trasferirsi a Roma, inviò una supplica alla regina per una sistemazione scolastica di Giovanni, che fu accolto presso il pontificio collegio Pio X, dei padri Giuseppini, in via dei Volsci, nel quartiere San Lorenzo, dove rimase dalla primavera del 1933 a quella del 1935, fino alla frequenza della prima ginnasiale. In quell’anno tutta la famiglia Giudici si stabilì definitivamente a Roma, nel quartiere di Montesacro, in via Monte Fascia 11, in un appartamento dell’Istituto case popolari: chiamato allora Città Giardino, divenne il quartiere dell'adolescenza di Giudici, che lì concluse il ciclo ginnasiale, all’Orazio Flacco, e poi il liceo classico, in una sezione distaccata del liceo Giulio Cesare (dove ebbe tra i docenti Maria Fermi Sacchetti, sorella del fisico Enrico). Secondo la prassi del tempo, avendo ottenuto la media dell’otto alla fine del secondo liceo, nel 1941 poté direttamente sostenere l’esame di maturità. Per desiderio del padre, s’iscrisse alla facoltà di medicina, mentre cominciava a far leggere i suoi primi versi e istituiva qualche contatto con gruppi antifascisti; tuttavia, già alla fine dell’inverno del 1942 passò a lettere, frequentando le lezioni dei più importanti maestri, da Giulio Bertoni ad Alfredo Schiaffini a Natalino Sapegno ad Antonino Pagliaro a Pietro Paolo Trompeo a Giovanni Gentile. Si infittivano in questi mesi le letture poetiche e la scrittura di versi e di racconti in prosa; e nascevano amicizie essenziali, come quella con Ottiero Ottieri, compagno di università.
Nel precipitare degli eventi del 1943 si nascose come renitente alla leva, collegandosi poi all’attività clandestina del Partito d’azione (Pd'A). Il 6 gennaio 1944 entrò come scritturale nella Guardia di finanza di Roma Città Aperta. All’arrivo degli alleati a Roma gli capitò di ricevere in consegna da una pattuglia americana un prigioniero tedesco, che condusse poi in un collegio di preti: vicenda che molto più tardi darà spunto a una poesia con il nome del prigioniero, Wüttke (in Lume dei tuoi misteri, 1984), e a una prosa piena di schermata ironia, La presa di Roma (in Eresia della sera, 1999). In quei mesi conobbe, presentatogli da Ottieri, Ernesto Buonaiuti, che abitava a Montesacro, cui restò sempre legato da forte amicizia. Dopo un lavoro come garzone di cucina presso una caserma della RAF (Royal Air Force) in via Livorno, venne assunto come impiegato d’ordine avventizio del ministero dell’Interno, assegnato all’ufficio stampa della Questura di Roma (e più tardi trasferito al commissariato di Montesacro): uno dei suoi primi acquisti fu una copia del Canzoniere di Umberto Saba, nella nuova edizione allora uscita. È il tempo di un primo timido amore per una ragazza di Montesacro, il cui ricordo tornerà alla fine dell’ultima raccolta Eresia della sera. Il 1° agosto del 1945 si laureò con una tesi su Anatole France scrittore sociale (relatore Trompeo); attento alla cultura cattolica francese, pubblicò nella rivista di Buonaiuti, 1945, due articoli su Charles Péguy. Iscrittosi alla Federazione giovanile del PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria), venne eletto segretario del circolo di Montesacro e nel direttivo della Federazione: aderì poi alla corrente di Iniziativa socialista, con un’attività che lo portò anche a viaggi a Milano e a Torino. Affermava in un diario: «L’arte è il mio primo fronte di combattimento o forse il solo, che informa tutti gli altri», mentre appariva la sua prima poesia a stampa, Compagno, qualche volta, sul numero speciale per il 2 giugno del 1946 di Rivoluzione socialista, supplemento settimanale dell’Avanti!
All’inizio del 1947, lasciata la Questura, entrava nel giornalismo come cronista de L’Umanità di Roma, organo del PSLI (Partito Socialista dei Lavoratori Italiani), nato dalla scissione di palazzo Barberini; e quando il giornale venne chiuso (31 luglio 1948) passò alla redazione romana dell'Umanità di Milano: ma intanto, dal 1° gennaio 1948, otteneva la qualifica di giornalista professionista. Nel 1947 compì un viaggio nel Sud della Francia, con frequentazioni socialiste (anche con un soggiorno a un campeggio dei Faucons Rouges). Chiusa la redazione romana dell'Umanità, passò al quotidiano Espresso, ottenendo intanto l’abilitazione per l’insegnamento nella scuola media. Ebbe modo in questo periodo di assistere a una lettura di versi di Thomas S. Eliot, chiamato in Italia dalla rinnovata Accademia dei Lincei, e di intervistare Salvador Dalí per L’Umanità di Milano. Conobbe Mario Picchi (1927-1996), che fu tra i suoi amici più cari. Nel volgere del 1949 gli si presentarono diverse opportunità di lavoro, tra le quali decise di accettare un impiego negli uffici dello United States information service (USIS) a Roma, come principal editorial clerk, lavoro che tenne, con vari gradi, acquisendo piena padronanza dell’inglese, fino al 1956, proprio in una fase di duro scontro tra i partiti filoatlantici e la Sinistra. La sua cultura e la sua passione per la poesia trovarono vivace terreno nell’ambiente romano dei primi anni Cinquanta, con varie frequentazioni (da Elio Filippo Accrocca a Giorgio Caproni), mentre il suo impiego lo portava a rivolgere particolare attenzione alla letteratura americana (conobbe tra gli altri Harold Norse e Allen Mandelbaum). Collaborò alla Fiera letteraria e al settimanale Totocalcio.
Per l’USIS, con Picchi come redattore, diresse, a partire dal 1954, la nuova rivista Mondo occidentale: anche se le sue idee di sinistra gli crearono qualche difficoltà, offrì spazio sempre maggiore ai problemi italiani (curando tra l’altro un numero sulla questione meridionale) e alla letteratura.
Intanto, nel settembre 1950 aveva conosciuto, durante un viaggio, Marina Bernardi, che sposò il 7 ottobre 1951, sistemandosi in un appartamento a Montesacro, in via Monte Nevoso 17, da cui nella primavera 1954 si trasferì in via Tripolitania 195; il 21 dicembre 1952 nacque il primogenito Corrado cui seguirà, il 5 giugno 1956, Gino Alberto.
Nel 1953, per le Edizioni del Canzoniere, uscì il suo primo libretto di poesie, Fiorì d’improvviso, che presentò a Saba, ricevendone un incoraggiamento; poi, nel marzo 1955, presso l’Istituto statale d’arte di Urbino, uscì la più ampia raccolta La stazione di Pisa. Tra collaborazioni a varie riviste e al terzo programma della radio, traduzioni poetiche, incontri (anche con grandi scrittori americani di passaggio a Roma, come William Faulkner e John Steinbeck), nuove amicizie, tra cui quella con il critico Mario Costanzo (grazie a cui collaborò con la rivista Stagione): si rivela di grande interesse la corrispondenza inedita con quest'ultimo e con Giorgio Bàrberi Squarotti.
La vita romana veniva però a caricarsi sempre più di un senso di scontentezza (specie per la difficoltà dei rapporti con l’Ambasciata americana): lasciò allora l’USIS per essere assunto, grazie all’intervento di Riccardo Musatti, all’Olivetti di Ivrea, come addetto alla biblioteca dell’azienda, ma con l’impegno di condurre il settimanale Comunità di fabbrica. Qui si trovò a contatto con il fitto gruppo di intellettuali che collaboravano con Adriano Olivetti, tra cui soprattutto Geno Pampaloni, Ludovico Zorzi, Paolo Volponi. Per conto della Olivetti compì nel 1957 viaggi in Inghilterra e in Francia; mentre nel giugno di quell’anno usciva, presso Scheiwiller, un altro libretto di poesie, L’intelligenza col nemico. Nel novembre si trasferì a Torino, per lavorare al giornale La via del Piemonte, creato da Olivetti a sostegno del Movimento di Comunità da lui fondato, in vista delle elezioni politiche del 1958: lo dirigeva Pampaloni, con Nello Ajello redattore capo. Ma la sconfitta del Movimento alle elezioni portò alla chiusura del giornale e al trasferimento di Giudici a Milano, alla Direzione pubblicità e stampa della Olivetti diretta da Musatti. Andò ad abitare con la famiglia in via Carroccio 5, mentre in ufficio aveva come compagno di stanza Franco Fortini, che stimolò il suo interesse per la cultura politica e per le letture marxiste, in uno stretto collegamento con un orizzonte etico ed estetico. Fortini gli fece conoscere Giacomo Noventa, che frequentò fino alla sua morte (4 luglio 1960) e lo invitò a un impegno poetico integrale, rivolto alla ricerca del «sublime». Sono anni, questi, particolarmente fervidi, in un momento di grande vitalità della cultura milanese, con nuovi incontri, contatti, amicizie, tra cui determinante anche quella con Vittorio Sereni: vario l’impegno di traduzioni poetiche, mentre, proprio nel contatto tra il proprio cattolicesimo e l’effervescente ambiente laico frequentato, nel convergere tra spirito religioso e spinta politica in senso marxista, sorgeva il proposito di una poesia sul tema dell’Educazione cattolica, che approdò al libretto omonimo, pubblicato da Scheiwiller nel giugno 1963. Insieme a questa tematica lo attirava sempre più, anche in rapporto alla sua esperienza lavorativa e all’orizzonte della Milano allora in pieno boomeconomico, l’indagine sulla vita 'normale', sulla sostanza concreta del più comune e «privato» esistere piccolo borghese. Essenziale rilievo in questo ambito assumevano il saggio Lo scrittore di versi come tipico umano, nel n. 61-62 di aut-aut (gennaio-marzo 1961), e la pubblicazione sul numero del menabò su Letteratura e industria delle 17 poesie Se sia opportuno trasferirsi in campagna.
Nel personale orizzonte privato si definiva nel frattempo la ricerca di una casa di proprietà, acquistata all’inizio del 1960: lì, in via Caracciolo 92, si trasferì con la famiglia alla fine dell’estate. La sua costante attenzione alla poesia anglosassone conduceva a un più ampio impegno di traduzione: all’inizio del 1961, tramite Fortini, l’editore Einaudi gli propose una scelta delle poesie di Robert Frost, lavoro che vide la luce, con il titolo Conoscenza della notte e altre poesie, nel marzo del 1965. Mentre nel 1962 collaborava alla nuova rivista Questo e altro, nuovo essenziale contatto fu quello che, attraverso Fortini, istituì con Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, fondatori di quaderni piacentini, la rivista della nuova sinistra ch'ebbe un ruolo originalissimo, di spregiudicata indipendenza, nell’orizzonte politico intorno al Sessantotto: essenziale fu l’amicizia con loro e con i collaboratori della rivista, su cui esordì, nel numero di settembre-ottobre del 1963, con un articolo su Frantz Fanon; l’anno successivo vi pubblicò un altro saggio essenziale per la sua poetica, La gestione ironica. In questi frangenti, nell’insieme dei nuovi rapporti, si approfondiva in lui l’intreccio tra educazione cattolica, disposizione a un’esistenza 'normale' (tipico umano, appunto), insoddisfatta aspirazione ad altri territori e possibilità di vita, contraddittori sensi di colpa, impegno e passione politica rivolta verso un socialismo molto avanzato, sulla spinta di liberazione che in quegli anni sembrava aleggiare sul mondo: da tutto ciò scaturiva una vera e propria riconsiderazione della sua poesia precedente, una spinta a proiettarne le fasi essenziali in un'immagine globale di sé, come a estrarre dalla vita un valore che sfugge, si sottrae, si maschera. Così nella scrittura poetica si riconosceva come voce della vita stessa, di una vita continuamente deviata da se stessa, alla ricerca di qualcosa d’altro dentro di sé, ma senza nulla di atteggiato e di sacrale. Tutto ciò trovò forma e sistemazione in un libro poetico di più ampia circolazione, che raccolse e rifuse anche alcuni dei più brevi libri precedenti, con titolo di per sé rivelatore, La vita in versi e che uscì nello «Specchio» di Mondadori nel maggio del 1965.
Il 26 agosto 1965 il libro fu insignito del premio Carducci a Pietrasanta e in questo stesso anno Giudici entrò in contatto con l’italianista e traduttore ceco Vladimír Mikeš, inaugurando un interesse per il mondo slavo e, in particolare, per la lingua e letteratura ceca. Dopo la morte del padre (25 dicembre), un soggiorno a Mosca lo avvicinò alla poesia russa, che lo attrasse con il suo particolare ritmo, tanto più suggestivo per la distanza della lingua: ne sorse il proposito, da lui considerato quasi «follia», di tradurre in versi italiani l’Evgenij Onegin di Aleksandr S. Puškin, il suo più eccezionale exploit di traduttore. Intanto, al ritorno, tradusse tre poesie dello stesso Puškin e un saggio di Jurij Tynianov, Il problema del linguaggio poetico, di grande rilievo per l’approfondimento di una poetica attenta alla densità e all’evidenza fisica e fonica del linguaggio. Intanto aveva stretto amicizia con Giansiro Ferrata e iniziato a collaborare a Rinascita, mentre alla fine del 1966 terminava la traduzione di una scelta di poesie di John Crowe Ransom, uscita poi da Mondadori nel 1971, con il titolo Le donne e i cavalieri. Un ancor più diretto rapporto con il mondo slavo, che lasciò numerose tracce in tutta la successiva poesia di Giudici, prese avvio nel marzo del 1967, quando si recò a Praga, insieme a Sereni, Fortini e Andrea Zanzotto (quest’ultimo conosciuto nel 1962), per la pubblicazione dell’antologia di poeti italiani curata da Vladimír Mikeš, Paradiso interrotto: al caffè letterario Viola alle letture si intrecciavano le discussioni appassionate con gli intellettuali praghesi sulla lingua e sulle speranze suscitate dal nuovo corso politico, la cosiddetta primavera di Praga. Nacque allora l’affettuosa amicizia con Marie Zábranová, redattrice della rivista Světová literatura, sorta di musa mascherata e taciuta della fase centrale della sua poesia. Iniziò poi a collaborare con L’Espresso, su invito di Ajello, suscitando la moralistica riprovazione di Fortini e l’interruzione della sua collaborazione ai quaderni piacentini (pur rimanendo viva la sua amicizia con Bellocchio e con la Cherchi).
Lavorò all’inizio del 1968, insieme a Mikeš, alla traduzione delle poesie del poeta ceco Jiří Orten, uscita poi da Einaudi (La cosa chiamata poesia, 1969). Dopo un nuovo breve viaggio a Praga, seguì con trepidazione il precipitare dell’esperienza di Aleksander Dubček e del «comunismo dal volto umano»: dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, si recò in auto nella capitale boema a fine settembre, insieme a Vanni Scheiwiller presso cui uscì, alla fine dell’anno, Omaggio a Praga, poche poesie e prose di Giudici, accompagnate da un’antologia di poeti cechi. Di fronte agli eventi praghesi, al lento allontanarsi del PCI (Partito Comunista Italiano) dal settarismo stalinista, al montare dell’estremismo postsessantottesco e all’evoluzione contraddittoria della nuova sinistra, si approfondì il suo distacco dalle linee dominanti del marxismo (tra l’altro con un più netto dissidio dalle posizioni di Fortini), proprio mentre la sua poesia veniva ad acquistare maggiore vitalità ritmica, in un più intenso corpo a corpo con la fisicità della lingua, proprio grazie alle frequentazioni praghesi e al confronto con la poesia ceca e russa.
Nell’aprile del 1969 uscì la raccolta Autobiologia, che già risentiva di questa nuova temperie e offriva più intimi ritorni di memoria (anche con l’affacciarsi della figura della madre) e un nuovo disporsi in maschera della propria esperienza e dei suoi rapporti con il mondo (con una fuga dal proprio mondo esemplata nella sezione La Bovary c’est moi): tra l’altro vi si legge la bellissima Ballata della lingua, vero manifesto del suo rapporto a più facce con la lingua italiana, nato da intensi dialoghi con gli amici praghesi.
Dopo un viaggio in Finlandia per la Olivetti, ne compì altri a Praga e a Mosca e intrecciò nuovi rapporti con poeti e studiosi (tra cui Giampiero Neri, Alfonso Berardinelli, Gianfranco Folena, Carlo Ossola); fu la fase più intensa del lavoro alla traduzione dell’Onegin, mentre seguiva, con specifici articoli, l’evoluzione della politica del PCI. La sua poesia veniva ora a mettere in scena e nello stesso tempo occultare una materia amorosa, in ironico e partecipe dialogo con la tradizione della poesia d’amore, come mostra lo stesso titolo della nuova raccolta, apparsa nel febbraio 1972, O beatrice.
Lasciato intanto l’appartamento di via Caracciolo si trasferì, in affitto, in via Mario Pagano 48a, mentre compiva altri interessanti viaggi: ancora a Mosca nel settembre del 1973, con una delegazione del Sindacato scrittori; negli Stati Uniti nel marzo del 1974 e, come visiting professor alla University of Connecticut (Storr) tra il febbraio e il marzo del 1975. È questa una fase di particolare impegno nelle traduzioni poetiche, approdata nel giugno del 1975 all’uscita della traduzione dell’Evgenij Onegin e nel giugno del 1976 di un’antologia di Sylvia Plath, Lady Lazarus e altre poesie. Nell’aprile del 1976 uscì presso gli Editori Riuniti (casa editrice legata al PCI) la raccolta di saggi La letteratura verso Hiroshima, che presentava la sua visione problematica della condizione pubblica della letteratura, nella difficoltà del suo voler interrogare un mondo in cui sempre più si riduce il suo spazio. Del suo avvicinamento al PCI è testimonianza tra l’altro la sua partecipazione al Convegno indetto dalla sezione cultura del partito, Intervento nella cultura per un progetto di rinnovamento della società italiana (Roma, 14-15 gennaio 1977). Dopo un periodo di collaborazione al Corriere della sera (dal 1974 al 1977), nel novembre del 1977 cominciò la sua collaborazione a l’Unità, che, salvo qualche pausa, perdurò fino al 1997; dopo alcuni anni di interruzione, riprese nel 1979 anche la collaborazione con L’Espresso. Nuovi viaggi lo portarono nei Paesi Bassi (primavera e autunno 1978), in Angola (Congresso degli scrittori asiatici e africani, Luanda, fine giugno 1979), a Ginevra (febbraio 1980), in Germania (maggio e novembre 1980).
Alla data del 31 dicembre 1979 ebbe termine il suo lavoro alla Olivetti, quasi suggellando la fitta serie dei suoi impegni nel decennio trascorso, in cui la sua poesia si era venuta imponendo con una varietà di prospettive, ben al di là dell’orizzonte della «vita in versi»: con le raccolte uscite da Mondadori dopo O beatrice, cioè Il male dei creditori (febbraio 1977), dove più insistente si affacciava l’evocazione della figura paterna, e Il ristorante dei morti (marzo 1981), segnata anche da uno sguardo indietro all’orizzonte pubblico attraversato, alla storia e all’ambiente intellettuale cui Giudici aveva avuto modo di partecipare, pur mantenendo verso di esso una sorta di distanza, quasi recitando un senso di minorità e di estraneità nell’atto stesso di frequentarlo e di sentirne l’attrazione, avvertendo le falle che il decennio trascorso aveva aperto e che si sarebbero sentite in modo più lacerante negli anni successivi.
La sua scrittura poetica procedeva con intensità e con più marcata attenzione (anche dal punto di vista teorico) alla concreta sostanza fisica della poesia, al rilievo determinante del ritmo, delle associazioni foniche, della spinta interna prodotta dalla lingua, nel suo «avvento» balenante tra il non detto e il non dicibile: voce e maschera di un’alterità, non identificabile con l’'altro' assoluto del simbolismo, ma piuttosto con ciò che della vita sfugge, con ciò che si perde, che resta negato e non raggiunto. Su tale linea acquistava un nuovo rilievo il rapporto con Giovanni Pascoli (approfondito anche sulla suggestione di una visita fatta a Castelvecchio di Barga insieme al filologo Maurizio Perugi il 6 ottobre 1979), oltre all’impegno di traduzione poetica, di cui una notevole scelta veniva affidata al volume Addio, proibito piangere, pubblicato da Einaudi nel settembre del 1982: tutto ciò si risentiva con nuova e più ambigua evidenza nella poesia raccolta nel volume apparso, ancora da Mondadori, nel gennaio del 1984, Lume dei tuoi misteri. In questo stesso periodo veniva a infittirsi la sua frequentazione della letteratura religiosa, che lasciò forti tracce nella successiva poesia: rilievo essenziale toccava alle Confessioni di s. Agostino e agli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, la cui lettura, stimolata originariamente da Sade, Fourier, Loyola (1971) di Roland Barthes (recensito nel 1977), approdò alla sua traduzione, uscita da Mondadori nel settembre del 1984. Nel contempo si approfondiva il suo rapporto con la poesia d’amore medievale: da un colloquio con Gianfranco Folena, che lo aveva invitato a un seminario del Circolo filologico e linguistico padovano (7 marzo 1983), sorgeva la scrittura di un canzoniere d’amore 'in maschera', deviato in più direzioni, verso il 'sublime' medievale (tra trovatori, Minnesänger, stilnovisti) e verso la normalità di un insoddisfatto desiderio contemporaneo, da una parte il più dispiegato e letterario abbandono di canto, dall’altra il più dimesso falsetto quotidiano. Terminata la scrittura all’inizio del 1986, Salutz uscì presso Einaudi nel settembre dello stesso anno.
Giudici, superata, intanto, senza gravi danni un’ischemia cardiaca, che lo aveva costretto a una degenza in ospedale all’inizio del 1985, nell'aprile di quell’anno pubblicò la raccolta di saggi La dama non cercata e nell’autunno tenne un corso presso l’Università per stranieri di Perugia sulla poesia italiana del Novecento. Il 26 aprile 1986 nacque la nipote Giulia. Tra i vari viaggi con conferenze e letture in molte città d’Italia e in vari Paesi europei (Germania, Francia, Austria, Cecoslovacchia, Romania), assunse particolare rilievo quello della primavera del 1987 in Unione Sovietica per conto de l’Unità-viaggi, per la quale si recò in settembre anche a Praga e Budapest; in autunno fece ritorno in Unione Sovietica per ricevere dal Presidium della direzione del Fondo letterario il premio Puškin per la versione dell’Onegin: ebbe modo di osservare da vicino (anche con una escursione in Georgia) la situazione di quegli anni cruciali, con gli sviluppi della perestrojka di Michail Gorbačëv. Particolarmente intensa fu in questo periodo l'attenzione alle vicende politiche e la vicinanza all’evoluzione del PCI: nel novembre del 1988, su Rinascita, pubblicò una Lettera ad Aleksander Dubček, in occasione della visita in Italia del leader della 'primavera di Praga' del 1968, ricordando che allora egli era stato «il simbolo (ma di più: l’universale concreto, la Besonderheit!) della nostra speranza».
E siamo al 1989, in un infittirsi di trasformazioni e crolli storici, cui si accompagnò in Giudici un senso di crollo personale, di disagio, di ricerca di nuovi orizzonti, che lo portò a sentire l’estraneità della Milano in cui a lungo aveva vissuto e che avvertiva ormai radicalmente trasformata: alla fine dell’inverno passò un periodo di isolamento presso la Villa San Giuseppe dei padri gesuiti a Bassano del Grappa. A Milano lasciò la casa di via Caracciolo, andando ad abitare in un appartamento di via Tadino, inizialmente usato come studio, ma poi tornando a un più diretto rapporto con la Liguria, con più lunghi soggiorni nella casa delle Grazie, usata dapprima solo per le vacanze (tra il 1989 e il 1992 collaborò assiduamente con il quotidiano genovese Il Secolo XIX).
Uscirono nel 1989, presso Mondadori, le prose di Frau Doktor e, presso Einaudi, le poesie di Prove del teatro (1953-1988). Dopo un viaggio in ottobre negli Stati Uniti, ai primi di novembre si trovava per un giro di letture di poesia in Germania, quando ebbe notizia della caduta del muro di Berlino (11 novembre).
Nel marzo 1990 uscì la nuova raccolta Fortezza, segnata da un senso di asprezza e di oppressione, come a saggiare la possibilità di resistenza della parola in mezzo all’incontrollabile proliferare dello cose e dei linguaggi. Alle elezioni amministrative della primavera venne eletto per il PCI consigliere al comune di La Spezia, partecipando poi assiduamente ai lavori del consiglio. Su proposta del regista Federigo Tiezzi per il teatro Metastasio di Prato lavorò alla riscrittura teatrale del Paradiso dantesco, uscita a stampa nel febbraio del 1991, con una prima rappresentazione il 27 marzo al teatro Petruzzelli di Bari. Nel corso dell’anno uscì poi da Garzanti la prima raccolta completa delle sue Poesie (1953-1990), in due volumi: e sembra proprio che a partire da questa sistemazione di tutta la sua precedente esperienza sia venuta a sgorgare una nuova poesia, animata da un intenso 'senso della fine', e nel contempo rivolta verso un’origine personale, ma in viva solidarietà con il respiro creaturale di «modeste anime vive», in un orizzonte 'paradisiaco' animato dal più recente dialogo con la Commedia dantesca, in cui la sostanza fonica e ritmica, l’avvento stesso della parola si carica di una sempre più accesa tensione esistenziale. Questo si legava a nuove amicizie e rapporti, oltre a una nuova situazione abitativa, con il trasferimento dalle Grazie alla sponda opposta del golfo di La Spezia, alla Serra di Lerici, dove acquistò un appartamento in zona Sotto il Volto, in cui si insediò nell’aprile del 1992. A La Spezia assunse tra il 1992 e il 1993 anche l’incarico di assessore alla cultura della giunta provinciale, prendendo alcune originali iniziative culturali. Nel maggio 1992 uscì presso le Edizioni e/o il volumetto Andare in Cina a piedi, originale serie di divagazioni sulla scrittura e la lettura della poesia; e nell’ottobre 1993 da Garzanti Quanto spera di campare Giovanni, libro in cui si manifesta nel modo più originale una spinta a 'ricominciare' esposta nel contempo verso la 'fine', tematizzata anche dalla sistemazione di una nuova casa (Casa estrema), ora che la vita si stava avvicinando alla fine («Io invento questo inizio al mio finire»). Nel 1994 vennero celebrati i suoi settant’anni e, nell’ottobre, uscì il volume antologico curato da Carlo Di Alesio, Un poeta del golfo, con il patrocinio della Cassa di risparmio di La Spezia, offertogli a Lerici con la partecipazione di Grazia Cherchi, ormai malata: al dolore per la sua morte (agosto 1995) si legava quello per la vicina scomparsa di altri amici, da Ernesto Balducci (1992), a Franco Fortini (1994), a Mario Picchi (1996).
Nel settembre 1996 uscì da Garzanti la nuova raccolta Empie stelle. Il 22 febbraio 1997 il Comune di Lerici gli conferì la cittadinanza onoraria. Vitalissima ancora fu la sua attività in questi ultimi anni, con letture e convegni in varie parti d’Italia; nel giugno 1997 fu in Svizzera e nell’ottobre compì l’ultimo viaggio negli Stati Uniti, per partecipare al congresso dell’Associazione internazionale di studi di lingua e letteratura italiana, mentre usciva da Mondadori una nuova raccolta di traduzioni poetiche, A una casa non sua. Non mancarono nuovi impegni giornalistici, come la collaborazione al quotidiano livornese Il Tirreno e occasionali interventi sul Corriere della sera.
Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti in questi anni, particolarmente prestigioso fu il premio Antonio Feltrinelli dell’Accademia nazionale dei Lincei, conferito a Roma il 14 novembre 1997. Il 12 gennaio 1999 uscì da Garzanti la raccolta Eresia della sera, dove l’esposizione della propria parola verso la fine si lega a un ritorno affettuoso e ironico dell’immagine di Roma e della propria giovinezza romana. Nel giugno di quell’anno si recò a Budapest, e il 4 dicembre ricevette la cittadinanza onoraria della città di Sarzana. Fu a Parigi all’inizio del 2000, mentre in ottobre uscì il «Meridiano» che raccoglie tutta la sua produzione poetica, curato da Rodolfo Zucco e con prefazione di Carlo Ossola: il titolo I versi della vita, riprendendo e modificando quello della raccolta cui era affidata la prima fase della sua poesia, La vita in versi, sottolinea esemplarmente il legame di tutta la sua poesia con le occasioni dell’esistenza, lo scaturire dei suoi versi da un insediarsi della lingua nel tessuto stesso della quotidianità, nei rapporti e negli scambi, nelle percezioni e nelle nostalgie, nei desideri e nelle maschere, nella grande storia pubblica e nelle piccole funzioni del vivere privato. Il «Meridiano» ha rappresentato davvero una 'chiusura', come un risolutivo disporsi ad abitare la fine, seguendo uno dei più intensi dati tematici delle ultime raccolte: oltre le raccolte già pubblicate, esso contiene altri testi degli ultimi anni, sotto il titolo Save Our Souls e altri inediti. Ma, nel suo sentirsi come 'abitato' dalla lingua, Giudici continuò a scrivere poesie, inserite, con alcune risalenti ad anni precedenti ma non ancora raccolte, nel volume curato da Evelina De Signoribus per Grafiche Fioroni Da una soglia infinita. Prove e poesia 1983-2002 (2004), mentre nel 2003 era uscita da Garzanti un’ampia scelta delle sue traduzioni poetiche (escluso l’Onegin), Vaga lingua strana, a cura di Rodolfo Zucco.
Tra vari impegni dei primi anni del nuovo secolo, dopo che, lasciata la casa della Serra, Giudici con la moglie era tornato a vivere alle Grazie, cominciavano a manifestarsi i segni di una malattia che, dopo il festeggiamento per i suoi ottant’anni da parte del Comune di La Spezia, con il conferimento della cittadinanza onoraria, videro ridursi e cancellarsi la sua attività e la sua presenza pubblica, fino alla morte, nell’ospedale di La Spezia, il 23 maggio 2011.
I vari libri di poesia di Giudici sono raccolti nel «Meridiano», I versi della vita, a cura di R. Zucco, con un saggio introduttivo di C. Ossola, e una cronologia a cura di C. Di Alesio, Milano 2000 (se la cronologia è strumento essenziale per la vicenda biografica, altrettanto essenziale è la bibliografia in calce al volume, cui si rimanda per un’informazione completa); cfr. anche l’«Oscar» Tutte le poesie, introduzione di M. Cucchi, Milano 2014. Oltre le varie raccolte di prose critiche citate, numerosi sono gli scritti e gli interventi giornalistici sparsi, che trattano i più vari argomenti e costituiscono un eccezionale spaccato delle vicende intellettuali italiane del secondo Novecento, per cui sarebbe necessaria una raccolta completa. Recentemente sono stati editi i seguenti testi, curati da C. Di Alesio, dal fitto materiale custodito presso il Centro Apice dell’Università statale di Milano: Agenda 1960 e altri inediti, in istmi, 2009, n. 23-24; Prove di vita in versi. Il primo Giudici, ibid., 2012, n. 29-30.
Il «Meridiano» citato offre un ampio regesto di tutti i saggi apparsi in riviste, giornali e delle pagine dedicate a Giudici in opere complessive (determinanti tra gli altri i contributi di F. Bandini, di A. Berardinelli, di F. Fortini, di G. Raboni, di A. Zanzotto). Fra i contributi più ampi, si vedano i volumi miscellanei: G. G.: ovvero la costruzione dell’opera, in Hortus. Rivista di poesia e arte, 1995, n. 18 (2° semestre) Scritture contemporanee: G. G., in Nuova corrente, XLIV (1997), 120 (luglio-dicembre); Metti in versi la vita. La figura e l’opera di G. G., a cura di A. Cadioli, Roma 2014 (contiene anche l’Inventario dell’archivio di G. G., a cura di E. Gambaro - G. Riitano, pp. 167-192); e le monografie di A. Bertoni, Una distratta venerazione. La poesia metrica di G., Castel Maggiore 2001; S. Morando, Vita con le parole. La poesia di G. G., Pasian di Prato (Udine) 2001; R. Zucco, Teatro del perdono. Per G., L’amore che mia madre, Feltre 2008; G. Ferroni, Gli ultimi poeti. G. G. e Andrea Zanzotto, Milano 2013. Per la sua opera di traduttore si veda: J.S.D. Blakesley, Modern Italian poets. Translators of the impossible, Toronto-Buffalo-London 2014, pp.126-164.