PIPINO, Giovanni
PIPINO, Giovanni. – Secondo di questo nome (almeno tra i personaggi finora noti) nella famiglia, figlio di Niccolò (m. 1341), figlio a sua volta del ben noto Giovanni (m. 1316), e di Giovannella di Altamura, nacque in data imprecisabile nel primo quarto del XIV secolo.
Fu conte di Minervino e di Altamura, e le fonti lo denominano prevalentemente Palatino (Palattinus o Paladino) di Altamura.
Nel periodo compreso tra il regno di Carlo I e la morte di Roberto d’Angiò la famiglia attraversò alterne vicende politiche, acquistando vasti possedimenti e potere, ma perdendoli nell’arco di tre generazioni. Di origine incerta, forse ricollegabili per parentela ad altri Pipino presenti come funzionari di modesto livello sin dagli anni Sessanta del Duecento in varie regioni del regno, i Pipino si affermarono con Giovanni I, avo del nostro, vero fondatore della potenza familiare. Giovanni I, giudice, maestro razionale della Curia regia, insignito della militia (1289), incaricato di missioni diplomatiche, godette di grande prestigio presso i sovrani soprattutto dopo aver portato a termine l’impresa dell’annientamento della colonia saracena di Lucera. Si unì in matrimonio con Flandina Della Marra. Tutore di Giovannella, figlia ed erede del signore di Altamura (a Giovannella andarono anche i beni della sorella Caterina, morta senza figli), riuscì a darla in sposa al figlio Niccolò, il cui figlio (il Palatino appunto) unì all’eredità paterna quella della madre. Nella prima fase del loro iter politico i Pipino furono alleati della famiglia Della Marra, che fu poi loro acerrima antagonista. Fattori dell’ascesa sociopolitica ed economica della famiglia furono indubbiamente le carriere burocratiche, il servizio regio, una strategia matrimoniale apportatrice non solo di possedimenti feudali, ma anche di potenti alleanze, l’allestimento di forze militari mercenarie impiegate per la realizzazione di un progetto di egemonia territoriale in Puglia.
Pipino si trovò coinvolto sin dalla giovinezza nei contrasti che attraversarono l’aristocrazia negli ultimi anni del regno di Roberto d’Angiò. Una delle sue prime prove di forza fu l’assedio, conclusosi peraltro con un fallimento, posto nel 1338 alla civitas di San Severo venduta dalla regina Sancia: la città si rifiutò di rinunziare alla propria demanialità accettando un dominio signorile. Fallita l’impresa, utilizzò le truppe assoldate inserendosi nella lotta divampata a Barletta tra il miles Niccolò dei Gatti (del quale si fece sostenitore), i Della Marra, appoggiati dai Sanseverino, legati agli Angioini di Taranto, e le rispettive fazioni cittadine. Di fronte alla gravità della situazione il re (16 novembre 1338), riservandosi di formulare successivamente una sentenza, inviò il magister hostiarius Bernardo Seripando a imporre una tregua, che fu accettata dalle due parti in lotta e che perdurava nel febbraio 1339, quando il provvedimento fu reiterato. Non è chiaro lo svolgersi degli eventi in questa congiuntura. Secondo la cronaca di Domenico da Gravina, i nemici di Pipino avrebbero convinto il re a ordinargli di presentarsi al suo cospetto per giustificarsi e risarcire i Della Marra dei gravi danni subiti. Pipino avrebbe risposto con arroganza all’inviato e si sarebbe poi ritirato a Minervino, fortificandovisi. Secondo Romolo Caggese, che si avvalse di documentazione cancelleresca, Pipino, pur accettando ufficialmente l’ordine regio di deporre le armi, continuò però nell’azione armata, durante la quale fece anche ricorso a potenti macchine di guerra per distruggere le residenze dei Della Marra in Barletta, riempiendo di devastazione città e territorio e provocando il dilagare di rivolte nella regione.
Giovanni e i fratelli si fortificarono in Minervino, assediati da Raimondo del Balzo, conte di Terlizzi, e da Ruggero Sanseverino, conte di Mileto, Regni Siciliae marescallus; reiteratamente, ma invano, convocati dal re per comparire in giudizio entro quindici giorni pena la multa rispettivamente di 4000, 3000 e 1000 once d’oro, infine cedettero e, «iuxta maternum consilium», si diressero a corte, abbandonati lungo la via dagli alleati Gatti, che si misero in salvo in territorio romano. Deludendo, però, le aspettative dei Pipino, il re «eos feroci vultu intuens» li fece rinchiudere nelle carceri di Castelcapuano. La detenzione fu lunga, ed essi poterono uscire soltanto dopo la sua morte (1343), per le premure del cardinale Giovanni Colonna, grazie all’opera di persuasione svolta presso la corte da Francesco Petrarca (che visitò i prigionieri descrivendone con profonda pietà le condizioni) e per le pressioni esercitate da papa Clemente VI su Giovanna I e soprattutto sul consorte Andrea d’Ungheria.
Una volta liberi, Giovanni e i fratelli non solo tentarono con ogni mezzo il recupero dei beni dei quali i loro avversari si erano impossessati, ma si abbandonarono anche a superbe manifestazioni di fasto; per esempio, in occasione di giostre alle Corregge sfoggiarono per emulazione vessilli più alti e numerosi di quelli regi.
Domenico da Gravina rappresenta i fratelli Pipino piangenti e disperati dopo l’assassinio di Andrea d’Ungheria (1345), evento che li privò di ogni protezione contro le minacce degli antagonisti, e riferisce anche di un non altrimenti documentato viaggio di Giovanni in Ungheria per informare re Luigi dei fatti. È certo comunque che, mentre Pipino andava reclutando nelle campagne romane truppe da condurre a sostegno del re che dall’Ungheria si dirigeva nel regno per vendicare la morte di un fratello, fu coinvolto nelle vicende romane: Cola di Rienzo lo menziona come autore di vessazioni sulle popolazioni, e per tale motivo fu bandito. La sua reazione fu un’aperta dichiarazione di solidarietà con i Colonna e di lotta contro Cola, che si asserragliò in Castel S. Angelo, avendo nel frattempo Pipino sollevato il popolo.
Rientrato nel regno, appoggiò il ritorno da Avignone di Giovanna e Luigi di Taranto e ne sostenne la causa e, poiché le terre avite rimanevano ancora nelle mani di Raimondo del Balzo e di Ruggero Sanseverino, mentre si tratteneva a Bisceglie, ottenne dai sovrani – secondo Domenico da Gravina –, in premio dell’aiuto fornito nella guerra, il dominio su varie città: la stessa Bisceglie, Molfetta, Giovinazzo, Monopoli, nonché il titolo di princeps Bari. Per la verità, come già osservato da Léonard (1932), il ruolo al quale fa riferimento il cronista, come d’altronde quello di «conte palatino», non ha riscontro tra le dignità codificate del regno; tuttavia rende efficacemente il disegno di preminenza politica vagheggiato e, a tratti, realizzato da Pipino.
Come era già accaduto nel caso di San Severo, si scontrò con il rifiuto delle comunità cittadine di rinunziare alla loro condizione demaniale; esse dichiararono di preferire di morire sotto il dominio degli ungheresi piuttosto che arricchirsi sotto il dominio di Pipino. Nel 1348, ritornato in patria il re d’Ungheria sotto la minaccia della peste, Pipino non cedette alle pressioni dei suoi rappresentanti che gli chiedevano collaborazione e ruppe le relazioni con loro.
Anche nell’anno successivo (1349), Pipino intraprese numerose operazioni militari – che ebbero come teatro Lucera, Giovinazzo, Molfetta, Bitonto, Ruvo, Trani, Barletta – finalizzate al recupero dei possedimenti di famiglia che i suoi irriducibili nemici continuavano a detenere, ma con esito negativo. A Loseto fu fatto prigioniero e salvato dal sopraggiungere del fratello Ludovico; Bari non volle aprirgli le porte, e fu costretto a rifugiarsi a Bisceglie, profondamente provato. Successivamente si ritirò nella fortezza di Trani per sottrarsi alla vendetta del re d’Ungheria che, ritornato nel regno, era stato informato del comportamento di Pipino schieratosi con Giovanna e il marito Luigi di Taranto contro le pretese ungheresi. Non intravedendo speranza di salvezza fece atto di sottomissione al sovrano, come ricordato dal Villani («Vedendosi il Conte senza speranza di soccorso e disperato di salute, col capestro in collo e in camicia uscì della città, e gittossi ginocchione in terra a pié del re domandandoli misericordia», 1846, l. I, cap. LXXXVIII; t. I, p. 105).
Con l’incoronazione di Giovanna e di Luigi di Taranto (23 maggio 1352) e la pace con l’Ungheria sembrava si aprisse un periodo di tranquillità nel regno, ma nel 1354 l’irrequieto Pipino aderì allo schieramento favorevole a Luigi di Durazzo in aperto conflitto con Luigi di Taranto, allorché questi portò avanti un’azione di prevaricazione dei diritti della moglie in difesa della quale si mosse anche il papa. Pipino e Luigi di Durazzo «presono ardire di più aperta ribellione, e accolsono gente d’arme, e correano per lo paese. Ma sentendosi di piccola possanza, entrarono in trattato col conte di Lando, che dovesse conducere la compagnia nel Regno», scrive il Villani (1846, l. IV, cap. XXXI; t. I, pp. 332 s.).
Condizionato nella sua azione anche dalla necessità di far fronte agli stipendi delle truppe da lui assoldate, gli ultimi anni di vita del Palatino furono dominati da un continuo guerreggiare contro il re d’Ungheria. Nel 1356 infine – stretto d’assedio a Matera, dove si era rifugiato – vedendosi senza speranza di salvezza ripeté il medesimo scenografico rituale eseguito anni prima a Trani arrendendosi al re d’Ungheria; «ma la cosa non succedette a quel modo» (Villani, 1846, l. VII, cap. CII; t. II, p. 86). Trasferito ad Altamura, fu impiccato su uno dei merli delle mura (1357). La Vita di Cola di Rienzo descrive con dileggio la miserevole fine del Palatino, accogliendo probabilmente rappresentazioni circolanti nell’immaginario collettivo.
L’attività politica e militare del Palatino fu dunque turbolenta e risulta apparentemente incoerente per i frequenti spostamenti da uno schieramento all’altro. È peraltro possibile individuare alcuni fili conduttori nelle sue scelte di campo: la fedeltà al riconoscimento del diritto d’intervento del papa nel Regno di Sicilia in quanto suo signore feudale, ma, soprattutto, il progetto di costruzione di un dominio signorile regionalmente strutturato. Focalizzando gli obiettivi per la cui conquista egli lottò militarmente (Barletta, Trani, Bisceglie, Molfetta, Giovinazzo, Monopoli), emergono, oltre al disegno di ampliare i suoi possedimenti con l’acquisto di una serie di centri urbani di grande importanza economica, l’esigenza di garantire basi portuali e di mercato annettendole al nucleo territoriale interno (la Contea di Minervino e quella di Altamura) che era già in suo possesso.
L’iniziativa va contestualizzata nella drammatica crisi – la crisi in effetti di un sistema – che investì il regno dopo la morte di re Roberto. Alla debolezza dell’autorità regia logorata dalle contrapposizioni suscitate dalla questione della successione (da un lato i rami cugini della Casa regnante, contrari alla volontà d’ingerenza pontificia e appoggiati dai Sanseverino e dai del Balzo, nemici di Pipino, dall’altra i sostenitori del matrimonio ungherese di Giovanna e delle decisioni pontificie), si mescolarono gli antagonismi delle fazioni nobiliari che sfruttarono la congiuntura per interessi particolaristici, alimentando conflitti locali che talora assunsero le forme del brigantaggio politico. In tale quadro si coagularono dunque intorno alla figura di Pipino le tensioni di più soggetti politici, e alle alterne fortune di questi egli ancorò le sue ambizioni di espansionismo territoriale, una minaccia per i domini pugliesi dei suoi antagonisti che l’osteggiarono fieramente.
Fonti e Bibl.: M. Villani, Cronica a miglior lezione ridotta con l’aiuto di testi a penna, Firenze 1846, t. I, pp. 104 s. (l. I, cap. LXXXVIII), 332 s. (l. IV, cap. XXXI); II, pp. 86 (l. VII, cap. CII), 87 (l. VII, cap. CIII); F. Petrarca, De rebus familiaribus, trad. a cura di G. Fracassetti, Firenze 1859-63, l. V, ep. 3 (29 novembre 1343), pp. 253-259; Chronicon Siculum incerti autoris ab anno 340 ad annum 1396, cura et studio J. de Blasiis, Napoli 1887; Dominici de Gravina, Chronicon, a cura di A. Sorbelli, in RIS2, XII, Città di Castello 1903, pp. 5-7, 9, 15, 17, 20, 28, 44, 58 s., 69-72, 97, 99, 101, 107 s., 112-114, 118, 120, 129-131, 148, 154, 157; La Vita di Cola di Rienzo, a cura di A.M. Ghisalberti, Firenze-Roma-Ginevra 1928, pp. 83-86.
F. Della Marra, Della famiglia Pipina, in Discorsi delle famiglie estinte, forastiere e non comprese ne’ Seggi di Napoli, imparentate colla Casa Della Marra… dati in luce da don Camillo Tutini napoletano, Napoli 1641, pp. 283-291; S. Ammirato, Delle famiglie nobili napoletane, II, Firenze 1651, pp. 195 s.; R. Caggese, G.P. conte di Altamura, in Studi di storia napoletana in onore di Michelangelo Schipa, Napoli 1926, pp. 141-165; E-G. Léonard, Histoire de Jeanne Ire, reine de Naples, comptesse de Provence, 1343-1382, Monaco-Paris 1932, I, pp. 31, 35, 364, 464, 560, 617, II, pp. 12, 118, 155, 179-181, 187-189, 205, 232, 238; V. Tirelli, La Universitas hominum Altamure dalla sua costituzione alla morte di Roberto d’Angiò, in Archivio storico pugliese, IX (1956), pp. 51-144; Id., Un feudatario nella crisi della Monarchia angioina alla metà del XIV secolo: G. P., Palatino di Altamura, conte di Minervino, ibid., XI (1958), pp. 108-156; G. Coniglio, Feudatari in Puglia in un diploma di Roberto principe di Taranto, in Studi di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, Galatina 1972, pp. 633-659.