Giovanni XXII
Jacques Duèse, figlio di Arnaud Duèse, nato a Cahors intorno al 1244, eletto papa il 7 agosto 1316 e incoronato il 5 settembre, morì ad Avignone il 4 dicembre 1334; è sepolto nella cattedrale di Notre-Dame-des-Doms. Jacques Duèse, nella lingua del Midi Jacme Duesa, nacque da una famiglia molto abbiente della borghesia cittadina.
Minuto e delicato nel fisico, aveva tuttavia una mente vivace e uno spirito arguto, e soprattutto era dotato di una notevole perspicacia politica. Unanimi sono le lodi tributate all'integrità di costumi, alla semplicità dello stile di vita, alla sincerità della devozione di questo papa. Ebbe una formazione principalmente giuridica, acquisita successivamente a Cahors, Montpellier, Orléans, dove conseguì il titolo di dottore "in utroque jure"; pare abbia studiato anche teologia a Parigi, ma senza giungere alla licenza. Fu docente insigne di diritto civile, senz'altro a Tolosa, ma ottenne anche benefici nella sua regione d'origine e in un ambito più vasto: arciprete di Cahors, canonico di St-Front di Périgueux, arciprete di Sarlat, decano di Le Puy. Nel 1310 viene eletto vescovo di Fréjus. Familiare del re di Napoli Carlo II d'Angiò, ancor prima del 1298, questi lo nominò nel 1308 cancelliere del Regno di Sicilia. A questa fase risale il primo complotto ordito contro di lui. Nel frattempo aveva dovuto conoscere e assistere con i suoi consigli il figlio di Carlo II, Luigi d'Angiò, arcivescovo di Tolosa, che si affrettò a canonizzare (nel 1317) poco dopo l'elezione al soglio pontificio. Jacques Duèse rimase probabilmente ancora per qualche tempo al servizio di Roberto d'Angiò, succeduto al padre il 5 maggio 1309, ma dal 18 maggio 1310 Clemente V lo trasferì alla sede di Avignone, dove si era stabilita la Corte pontificia. Dunque passò dal servizio di un re a quello del papa, che gli affidò missioni delicate confacenti alle sue profonde competenze giuridiche, nel processo di Bonifacio VIII o, in seguito, al concilio di Vienne. Nel dicembre 1312, all'età di sessantotto anni, fu creato cardinale titolare di S. Vitale. Nell'aprile dell'anno successivo ebbe assegnato il ricco vescovato di Porto.
La sua elezione fu estremamente complessa e l'avvio del suo regno molto turbolento. Prima di morire a Roquemaure (nel Gard) il 20 aprile 1314, Clemente V aveva previsto questa difficoltà nella costituzione Ne Romani del 1312. Prospettando il caso in cui i cardinali, incapaci di trovare un accordo, si fossero allontanati dal conclave, individualmente o insieme, suggeriva che in virtù della costituzione precedente, Ubi Periculum di Gregorio X, del 1274, ai pubblici poteri della città in cui si svolgeva l'elezione - o in ultima istanza ai principi, secondo la chiosa di Giovanni di Andrea - sarebbe spettato il compito di costringerli a riprendere i loro lavori. E inoltre questi avrebbero dovuto tenersi entro i confini della diocesi in cui il papa era defunto, in ogni caso nel luogo in cui si sarebbe aperta, al momento del decesso, l'"udienza delle lettere e delle cause apostoliche".
Di conseguenza, ventitré cardinali, in assenza di Luca Fieschi trattenuto in Italia, si riunirono nel palazzo episcopale di Carpentras, all'epoca sede della Curia, intorno al 1° maggio 1314. Come previsto, fra i prelati si produsse una spaccatura e si configurarono quindi tre schieramenti: il più potente, quello guascone, raccoglieva dieci cardinali, tutti creati dal defunto papa, ed era appoggiato da due suoi nipoti, Bertrand de Got visconte di Lomagne e Raimond Guilhem de Budos. A questo fronte piuttosto compatto si contrapponeva un gruppo italiano, che contava sette membri, tuttavia divisi da reciproci sospetti. Infine, un terzo partito francese, ancor più disomogeneo, comprendeva tre cardinali originari della Linguadoca, due della Normandia e il nostro futuro papa, del Quercy. Gli italiani avanzarono una prima candidatura, quella del giurista della Linguadoca Guillaume de Mandagout, ma i guasconi la respinsero insieme agli altri due cardinali della Linguadoca.
Mentre il conclave si trovava in questa impasse, nella città di Carpentras scoppiarono gravi disordini, che in un primo tempo videro fronteggiarsi servitori dei cardinali italiani e di quelli guasconi, poi bande di soldati al soldo dei nipoti del defunto papa. Il 24 luglio 1314 i cardinali italiani presi di mira riuscirono ad aver salva la vita solo fuggendo dal palazzo episcopale sotto assedio. Fu così che il Sacro Collegio si disperse fra Avignone, Orange e Valence, come uno stormo di "pernici terrorizzate", secondo il continuatore di Guglielmo di Nangis. Il lungo tergiversare e le persistenti rivalità lasciarono vacante la Sede pontificia per oltre due anni. E la morte di Filippo il Bello, sopravvenuta il 24 novembre 1314, vanificò i reiterati tentativi del sovrano di richiamare all'ordine i cardinali. Il re era comunque riuscito a riunire le conferenze di giuristi competenti e il figlio Luigi X assicurò la continuità di questa politica, con il risultato di allontanare in un primo tempo la minaccia rappresentata dai nipoti di Clemente V. Il fratello del re, conte di Poitiers, poté assolvere l'incarico di radunare i cardinali a Lione nella primavera del 1316. Tuttavia, mentre le operazioni si trascinavano nuovamente, la morte prematura di Luigi X contribuì ad accelerare il processo. Il conte di Poitiers, ritenendo che tali circostanze richiedessero senza indugio la sua presenza a Parigi, a tutela dei propri interessi, ed essendo ormai sciolto dalla promessa di non costringere i cardinali al conclave, li rinchiuse nel convento dei Giacobini a Lione, dal quale non sarebbero usciti se non dopo aver eletto il nuovo pontefice. Affidò al conte di Forez l'incarico di vigilare sul conclave, indicandogli anche le proprie preferenze. Ma le prime candidature emerse in questa situazione non trovarono un sufficiente appoggio. A questo punto il nome di Jacques Duèse, che figurava anche fra i papabili segnalati dal conte di Poitiers, fu proposto da tre cardinali italiani e sulla sua persona si giunse ad un accordo con i guasconi. Allora, la maggioranza assicurata da questo consenso si trasformò in unanimità il 7 agosto 1316 e il nuovo pontefice, eletto all'età di settantadue anni, prese il nome di Giovanni XXII e si insediò rapidamente ad Avignone.
L'avvio del suo pontificato fu segnato da una serie di complotti, fra cui il più famoso è quello ordito dal vescovo di Cahors Hugues Géraud. A conclusione di una minuziosa indagine, il vescovo sciagurato venne accusato di aver tentato di gettare un maleficio e di avvelenare sia il pontefice che due suoi cardinali, Bertrando del Poggetto e Gaucelme de Jean. Entrambi furono risparmiati grazie alla precoce scoperta del complotto, ma la morte dell'amatissimo nipote del papa, Jacques de Via, il 13 giugno 1314, fu ritenuta effetto dei misfatti confessati da Hugues Géraud, che fu sottoposto a supplizio e bruciato nel settembre 1317. In tale contesto, è comprensibile lo zelo dimostrato dal pontefice nel perseguitare streghe e alchimisti. Quest'ansia di purificazione lo spinse a rafforzare l'Inquisizione e a combattere la simonia. Una volta fallito il tentativo di indurre gli ebrei ad abbracciare la fede cattolica, il papa li fece scacciare da molte città del Contado Venassino. Ma quest'avvio difficile non deve offuscare l'efficacia dimostrata nel governo della Chiesa, assunto dopo due anni di vacanza della Sede apostolica successivamente al pontificato di Clemente V e alle dissipazioni dei suoi due nipoti.
Questi esordi travagliati possono anche giustificare le tendenze nepotistiche di G., laddove circondarsi di persone fidate, tenendo conto dei pericoli, poteva essere considerata una misura precauzionale. Ma grazie ad un'abile gestione dei benefici ecclesiastici e alla messa a punto di un sistema fiscale molto valido, G. inaugurò una politica oculata che fece affluire ingenti ricchezze. Infatti a tutte le collazioni e riserve di benefici corrispondeva una tassazione variegata e fruttuosa: servizi, annate, vacanze, decime, sussidi, diritti di spoliazione. Il 15 settembre 1316 la bolla Ex debito, prolungando la legislazione vigente, specificava che tutti i benefici maggiori divenuti vacanti per decesso "apud Sedem Apostolicam", per deposizione o privazione, per rinuncia nelle mani del papa, per trasferimento ad altro beneficio su iniziativa del papa, per rigetto di postulazione o di elezione, per accettazione di altri benefici conferiti dal papa sotto forma di provvigione o di grazia aspettativa, erano ormai riservati alla collazione pontificia. Di conseguenza il papa poté centralizzare un crescente numero di nomine a diversi benefici ecclesiastici, tanto più che la bolla Exsecrabilis, del 17 novembre 1317, vietava in linea di principio l'accumulo di più di un beneficio "cum cura animarum" e di un beneficio "sine cura". I benefici in esubero dovettero quindi essere oggetto di rinuncia da parte dei loro beneficiari e furono così soggetti a nuove collazioni pontificie. Centralizzando le nomine, il papato estendeva il proprio potere e induceva a moltiplicare le suppliche per ottenere i suoi favori. Lo stesso papa disponeva delle sedi episcopali, anzi tendeva quasi ad eliminare le elezioni tramite i Capitoli delle cattedrali.
Ma questa volontà di accentramento investiva solo la Sede apostolica. Per poter regnare, era necessario anche saper dividere. Il pontefice si adoperò infatti per ridimensionare le diocesi troppo importanti nel suo immediato raggio d'azione e anche oltre: fu questo il caso della diocesi di Tolosa. Fin dall'inizio del XIII secolo Folco di Marsiglia aveva richiamato l'attenzione sulla sua eccessiva estensione e Bonifacio VIII il 23 luglio 1295 aveva già creato la diocesi di Pamiers. Ma G. sezionò ulteriormente il territorio di Tolosa nei vescovati di Montauban, Rieux, Lombez, St-Papoul, Mirepoix e Lavaur. Insieme a Pamiers costituirono una nuova provincia ecclesiastica di cui Tolosa era la metropoli. Allo stesso modo furono distaccati Castres da Albi, Sarlat da Périgueux, Vabres da Rodez, Alet e St-Pons de Tommières da Narbona, Condom da Agen, Luçon e Maillezais da Poitiers, Tulle da Limoges, St-Flour da Clermont. Questa politica fu proseguita in Aragona, con il distacco di Saragozza dalla provincia di Tarragona nel luglio 1318, e in Italia con l'erezione dell'abbazia di Montecassino a vescovato, il 2 maggio 1322 (ben presto revocata da Urbano V nel 1367).
Quanto alla politica estera di G., essa si estese fino al Baltico. Il papa non si limitò ad incoraggiare una crociata sempre incerta nell'avvio e negli esiti, ma fomentò la lotta dei sovrani della penisola iberica contro i Mori, si preoccupò di rispondere all'appello dei re armeni minacciati dai Turchi, organizzò una serie di coalizioni e non ebbe pace finché non fece rientrare il re scismatico di Serbia Orose in seno alla Chiesa romana (12 giugno 1323). Studi recenti documentano la corrispondenza ricevuta dal granduca pagano Gediminas di Lituania nel 1322-1323, il quale, nella sua opposizione all'imperatore, meditava di diventare vassallo del papa. Questi lo appoggiò contro l'Ordine teutonico, ma tardò troppo ad inviargli i suoi emissari, che avrebbero potuto ottenere una conversione alla quale Gediminas aveva rinunciato nel 1324.
Tuttavia, l'afflato missionario non abbandonò mai Giovanni XXII. Incoraggiando in particolare le missioni domenicane fra i Mongoli a nord del mar Nero e di Persia, eresse a metropoli la città di Sultanieh (1° aprile 1318), poi Kerç in Crimea (1° agosto 1333), a vescovato Tiflis in Georgia per sostituire Smirne occupata nel frattempo dai Turchi. Senza dimenticare le missioni in Estremo Oriente, in Cina e India. Ma la propagazione della fede all'esterno rischiava di essere gravemente compromessa dalla testimonianza contrastante offerta dai dissensi interni tra i principi cristiani. Preoccupato dell'esempio dato dalla cristianità, il papa si adoperò per ristabilire la pace interna, moltiplicando gli interventi in tal senso, per evitare guerre in procinto di scoppiare in Francia, o tra questo paese e l'Inghilterra, fra i Ducati di Borgogna e d'Angiò, ma anche più lontano fra il Regno di Cipro e quello d'Armenia o la Repubblica di Genova, o più a nord fra il duca di Brabante, il conte di Fiandra e il re di Boemia.
Il papa di formazione giuridica s'intendeva di gestione finanziaria e politica, ma anche la sua attività legislativa fu assai importante. Promulgò le Clementinae, decretali del suo predecessore Clemente V, emesse quasi interamente in occasione del concilio di Vienne. G., da parte sua, emanò un gran numero di testi, raccolti in seguito sotto il nome di Extravagantes communes e Extravagantes Iohannis XXII, due collezioni riunite al Corpus iuris canonici. Ma il suo pontificato è contrassegnato soprattutto da tre grandi controversie: quella sulla povertà, che lo costrinse al confronto con gli Spirituali Francescani, quella sul papato e l'Impero, che lo oppose a Ludovico il Bavaro e, negli ultimi anni, sulla visione beatifica che coinvolse l'intera cristianità del tempo. Le tre controversie saranno trattate secondo l'ordine storico in cui si succedono e si intrecciano, senza scindere il loro aspetto dottrinale dalla dimensione evenemenziale.
In relazione alla povertà di Cristo, sono stati spesso attribuiti a G. un'eccessiva durezza e uno spietato accanimento. È stato già messo in risalto il temperamento tenace del papa, ma è opportuno segnalarne anche un'altra virtù: l'umiltà, che si traduceva in austerità di vita e senso della disciplina. Di conseguenza la pretesa, da parte degli Spirituali Francescani, se non del monopolio almeno del privilegio di una perfezione della vita evangelica grazie a "donna povertà", agli occhi del pontefice non poteva apparire che un eccesso ridicolo, per un Ordine che egli apprezzava, e un pericolo concreto per il resto della Chiesa. G. ereditava infatti una difficile situazione, risultato di due anni di vacanza della Sede apostolica e della politica di compromesso condotta dai suoi predecessori. Le bolle Exiit qui seminat di Niccolò III e Exivi de Paradiso, uscita dal concilio di Vienne, avevano stabilito che la proprietà di beni materiali di cui godevano i Frati Minori era trasferita alla Sede apostolica, mentre i Francescani ne avrebbero conservato unicamente l'uso. La cura della gestione veniva quindi a ricadere sul papa e sui rappresentanti da lui designati, mentre i seguaci di s. Francesco potevano, con buona coscienza, godere sia dei beni necessari alla loro sussistenza - vedi oltre - sia dell'illusione di vivere, all'interno della Chiesa, il privilegio di una vita pienamente apostolica in quanto assolutamente povera.
L'Ordine era attraversato da una divisione profonda tra i fautori della "Comunità", che si accontentavano di una povertà regolata, e gli Spirituali, assetati di ascesi e convinti di essere l'ultimo residuo della Chiesa in tempi apocalittici. Questi avevano ottenuto da Clemente V facoltà di praticare vita ascetica separatamente o all'interno di certi conventi dell'Ordine. Alcuni di loro conducevano un'esistenza da eremiti, privi di tutto, dentro grotte dell'Umbria o della Calabria, coperti di vesti corte e rattoppate. Altri erano fuggiti dai conventi toscani per trovare rifugio in Sicilia. Ma gli Spirituali, approfittando della duplice vacanza della Sede apostolica e della carica di generale dell'Ordine, avevano scacciato ben presto i Conventuali dalle case in cui erano in maggioranza, ad esempio a Narbona e Béziers, che agli occhi del pontefice rappresentavano due minacciose roccaforti alle porte del suo dominio.
Il 29 maggio 1316 - appena due mesi prima dell'ascesa al soglio di G. - era stato eletto a capo dell'Ordine un conventuale, Michele da Cesena, risoluto ad assicurare la rivincita di una maggioranza rinvigorita sugli Spirituali. Egli inoltrò quindi senza indugio al nuovo pontefice cinque suppliche che avevano come obiettivo il loro annientamento. Il papa non tardò a prendere i primi provvedimenti: tra marzo e aprile del 1317 chiese a re Federico e ai prelati di Sicilia di consegnare i ribelli ai superiori del loro Ordine che avrebbero applicato la disciplina nel modo adeguato. Ordinò che le due roccaforti della Linguadoca fossero evacuate, perché si tornasse all'obbedienza nei confronti dei superiori nei luoghi da loro prescritti. Una delegazione di sessantaquattro Spirituali si accampò davanti alle porte del Palazzo dei Papi di Avignone in attesa di essere ricevuta in udienza. Il 13 maggio 1317 venne accolta, ma la difesa degli irriducibili, affidata a Bernardus Delitiosi, risultò a tal punto maldestra e stravagante che il loro portavoce venne arrestato insieme ad altri cinque esaltati. Revocando benignamente la scomunica che era stata inflitta ad Angelo Clareno, il papa sciolse la sua Congregazione e gli fece prendere l'abito dei Celestini, mentre Umbertino da Casale divenne benedettino di Gembloux (dove peraltro non si recò, preferendo restare in Curia presso la famiglia cardinalizia di Napoleone Orsini).
Dopo aver neutralizzato i cospiratori, il papa poteva cercare di rassicurare l'Ordine e ristabilirne l'unità promulgando il 7 ottobre 1317 la bolla Quorundam exigit. Il pontefice riconosceva la povertà di Cristo, nel solco di Niccolò III, come pure le misure contro la proprietà concepite da Innocenzo IV e Clemente V, ma su alcuni punti concreti, in questa stessa bolla, G. affidava ai superiori il compito di decidere sulla lunghezza dell'abito e sulle scorte di cibo da conservare. Minacciava di scomunica chiunque avesse rifiutato di sottomettersi a queste regole, ricordando che l'obbedienza era una virtù superiore alla povertà. Nell'arco di alcuni mesi la maggior parte dei ribelli si era assoggettata, ad eccezione di quattro che non intendevano cedere su questioni tanto poco spirituali come l'abito e il nutrimento: essi furono giudicati a Marsiglia il 7 maggio 1318 e condannati al rogo.
La pena inflitta servì a procurare dei martiri a tutti coloro che continueranno a richiamarsi agli Spirituali e a formulare ogni sorta di discorso apocalittico e di riscossa, ravvisando in G. la figura dell'Anticristo a capo di una Chiesa troppo opulenta per poter essere l'autentica erede di Cristo. Ma il pontefice non sospese la sua offensiva contro queste correnti, anzi promulgò le bolle Sancta Romana atque universalis Ecclesia, del 30 dicembre 1317, e Gloriosa Ecclesia, del 23 gennaio 1318. Prendeva così di mira una congerie di Fraticelli, Bizzochi, Beghini di ogni obbedienza, generalmente insubordinati ai loro superiori gerarchici, nel caso esistessero, o legati a congregazioni non riconosciute dalla Sede apostolica, e infine molto liberi nel rapporto con i sacramenti. La bolla ricordava che questi erano validi a condizione che i prelati che li amministravano, a prescindere dai loro costumi e dalle idee professate, rispettassero l'obbedienza alla sola Chiesa spirituale, quella che dipendeva dal successore di Pietro.
La fase seguente della battaglia di G. prese di mira gli scritti di Pietro di Giovanni Olivi, principale fonte d'ispirazione dei discorsi apocalittici con cui gli Spirituali attaccavano il papa e la Chiesa istituzionale. Questo francescano era stato perseguitato lungo l'intero corso della sua vita, dentro e fuori dell'Ordine, a causa delle sue tesi radicali che non riguardavano unicamente la povertà di Cristo. Il suo corpo, a Narbona, era oggetto di una fervente venerazione. L'esame della sua Postilla sull'Apocalisse fu iniziato nel 1319 e approdò ad una serie di condanne, anche se quella ufficiale fu pronunciata dal papa stesso solo l'8 febbraio 1326. Il testo conteneva una dottrina perversa ed eretica, contraria alla sovranità del pontefice e all'unità della Chiesa (paragonata a Babilonia, alla "celebre prostituta" dell'Apocalisse). Mentre l'Inquisizione perseguitava i sostenitori di Spirituali e Beghini non solo nel sud della Francia ma estendendosi alla Spagna, all'Italia, alla Germania, i rappresentanti della comunità riuniti in Capitolo generale condannarono la dottrina di Olivi come eretica, nella Pentecoste del 1319, e non appena Narbona fu riconquistata fecero radere al suolo la sua tomba.
Ma mentre infuriava la battaglia, il dibattito di fondo sulla povertà di Cristo non si era ancora concluso. Fu rilanciato in occasione del processo di un beghino, celebrato a Narbona nel 1321 dal domenicano Giovanni di Beaune, il quale giudicava eretica questa frase: "Gesù Cristo non ha posseduto mai niente, né di proprio né in comune". Ma il lettore del convento dei Frati Minori della città, Berengario Talon, intervenne richiamandosi alla decretale Exiit qui seminat di Niccolò III per affermare che questa dottrina, lungi dal costituire un'eresia, era stata definita dalla Chiesa. Le sue dichiarazioni fecero sì che fosse ascoltato e trattenuto alla Corte di Avignone, dove il papa sottopose ai suoi cardinali e teologi la questione riformulata in questi termini: "È eresia negare con ostinazione che Gesù Cristo e i suoi Apostoli abbiano mai avuto qualcosa di proprio o in comune?". La discussione, nella Curia e anche al di fuori di essa, fu articolata e di ampio respiro. Gran parte dei Francescani sostenne la tesi dell'assoluta povertà di Cristo, accolta, fra gli altri, dal cardinale Vitale di Four, dall'arcivescovo di Salerno e da un numero ancora maggiore di vescovi. La bolla Exiit qui seminat indusse anche un eminente giurista come il cardinale Berengario Frédol ad appoggiare questa tesi, poiché Niccolò III aveva proibito qualsiasi commento al testo. Per affrancare ulteriormente il dibattito, G. revocò il divieto nella bolla Quia nonunquam del 26 marzo 1322. Umbertino da Casale propose una soluzione la cui sottigliezza conciliatrice appare sorprendente provenendo da un antico estremista. In quanto prelati universali della Chiesa, Cristo e gli apostoli possedettero dei beni per distribuirli ai poveri e ai ministri di Dio, ma come individui fondatori della povertà evangelica non furono assolutamente proprietari di alcunché, limitandosi al loro diritto naturale sui beni necessari alla sussistenza. Negare l'una o l'altra proposizione equivaleva a cadere nell'eresia.
Il papa dichiarò concluso il dibattito. In realtà, alla fase verbale, concentrata essenzialmente nei Concistori tenuti nella primavera del 1322, subentrò quella scritta della controversia. Ma i capi dell'Ordine francescano, che scorgevano in questo stesso dibattito una minaccia per il loro privilegio (quello di un'assoluta povertà non solo individuale ma anche collettiva), convocarono un Capitolo generale a Perugia, che nel giugno 1322 produsse una dichiarazione sottoscritta da una quarantina di maestri di teologia di Parigi e Oxford, in cui si affermava che né Cristo né gli apostoli avevano mai avuto proprietà personali o collettive. Adducendo numerose e ben articolate argomentazioni, si appoggiavano sull'autorità dei testi già citati di Niccolò III e Clemente V, approvati da G., ma anche su quelli di s. Francesco, di s. Antonio da Padova e di s. Luigi di Tolosa, beatificato recentemente dal pontefice.
Il papa si astenne dal rispondere su questo stesso terreno, anzi il vecchio giurista si guardò bene dal deliberare a caldo sulla questione dottrinale. Ma dovette ricordare che la decisione spettava alla Sede apostolica, e ciò avvenne tramite una risposta giuridica conforme alla sprovvedutezza politica della dichiarazione emessa dal Capitolo di Perugia. Nella bolla Ad Conditorem canonum, dell'8 dicembre 1322, il papa rinunciava per sempre ai suoi diritti sui beni devoluti ai Frati Minori o a qualsiasi altro Ordine mendicante. Aveva raccolto a questo proposito numerose lagnanze, di conseguenza poneva fine ai compromessi inefficaci consentiti dai suoi predecessori che inizialmente aveva approvato per tacitare gli scrupoli dei partigiani più estremisti della povertà assoluta. Inoltre il papa faceva rilevare che, ben lungi dall'emendarsi, i Frati Minori si erano mostrati ancora più avidi di guadagno e allo stesso tempo più fieri della loro prerogativa evangelica. Segnalava che nel caso di beni fungibili, la differenza fra proprietà ed uso era pura finzione.
La risposta dell'Ordine, presentata da Bonagrazia da Bergamo, interpretando il sistema adottato in precedenza - ai cui fondamenti giuridici si faceva riferimento - come un regime di diritto divino, fu a tal punto violenta che il papa dovette temporaneamente recedere dalle sue posizioni, accettando di mantenere la proprietà della Chiesa romana sui beni più importanti quali chiese o abitazioni. Ma quest'apparente ripiegamento lasciò al pontefice il tempo necessario per preparare la sua risposta dottrinale, che fu affidata il 12 novembre 1323 alla bolla Cum inter nonnullos. Di questa preparazione, il ms. Vat. lat. 3740 fornisce una testimonianza ormai descritta con precisione. Come si è detto, la consultazione scritta dei teologi più insigni era continuata dopo i Concistori del marzo 1322. Nella primavera dell'anno seguente il papa ordinò che le risposte principali fossero copiate in uno stesso manoscritto per suo uso personale.
Annotato di suo pugno, il manoscritto, nelle prime due parti espone le opinioni dei cardinali, vescovi e teologi francescani più importanti, favorevoli alla povertà assoluta di Cristo e degli apostoli, seguite da una serie di obiezioni anonime e dalle risposte dei cardinali Vitale di Four e Bertrand de la Tour, e dell'arcivescovo di Salerno. La terza parte raccoglie le opinioni contrarie della maggior parte dei cardinali non appartenenti all'Ordine dei Frati Minori. La quarta raggruppa quelle ostili alla povertà assoluta di un gran numero di vescovi: tra i più famosi, i due domenicani Durando di S. Porciano, vescovo di Le Puy, e Egidio di Ferrara, patriarca di Alessandria. Fra i maestri che condividevano la stessa opinione, i cui contributi sono riuniti nella quinta parte, si annoverano i domenicani Hervé de Nédellec e Giovanni di Napoli, mentre tra gli anonimi figura un parere attribuito a Umbertino da Casale. Infine, la sesta parte comprende la redazione preparatoria della costituzione Cum inter nonnullos. Questo documento, sul quale insistiamo, al pari di altri sulla visione beatifica, testimonia del travaglio di elaborazione dottrinale di questo periodo e della stretta collaborazione di vescovi e teologi con il pontefice in tale contesto. Mancano il contributo di Enrico di Carreto, vescovo francescano di Lucca, e di re Roberto d'Angiò, giunti troppo tardi per poter essere copiati insieme agli altri. Anche quello del carmelitano Guido Terreni fu ultimato solo alla vigilia di Natale. In altri manoscritti si trovano i testi di Michele da Cesena e Bonagrazia da Bergamo o, nel campo domenicano avverso, di Pietro della Palude e di Roberto da Bologna. Questi intuì giustamente le preferenze del pontefice, che nel luglio 1323 canonizzò Tommaso d'Aquino.
La bolla Cum inter nonnullos poneva fine al dibattito dottrinale dichiarando eretica la proposizione che negava che Cristo e gli apostoli avessero posseduto alcunché di proprio o in comune. Cristo e gli apostoli non godevano solo di un diritto d'uso sui beni in loro possesso, ma anche di alienazione. Tra i Francescani si delinearono due atteggiamenti: i cardinali della Curia, dei quali sono stati menzionati i contributi al dibattito, non ebbero difficoltà a sottomettersi, ma gli oppositori più strenui della decisione del pontefice non tardarono ad unirsi al suo peggior nemico, l'imperatore Ludovico il Bavaro. Fu questo il caso di tre eminenti personaggi: Michele da Cesena, Guglielmo da Occam e Bonagrazia da Bergamo. Il primo, convocato ad Avignone per dare spiegazioni a proposito della reazione del suo Ordine alle bolle pontificie, era già sospetto di collusione con l'imperatore. Il secondo era perseguitato per le sue opinioni filosofiche e teologiche da scotisti oxoniani. I tre, consapevoli di non potersi sottrarre ad una condanna, trovarono il modo di fuggire da Avignone nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1328, per raggiungere in Italia l'imperatore e l'antipapa da lui creato (si tornerà in seguito sull'argomento).
Quanto alla direzione dell'Ordine dei Frati Minori, al pontefice non restò che deporre Michele da Cesena (6 giugno 1328) e trovare un generale dei Francescani che gli subentrasse, maggiormente bendisposto nei suoi confronti. Guiral Ot, originario di Camboulit, fu eletto alla guida dell'Ordine dei Frati Minori nel corso di una seduta preparata accuratamente dal cardinale de la Tour. Circa un anno dopo la sua fuga notturna da Avignone, Michele fu colpito da anatema (20 aprile 1329). Da quel momento si adoperò con ogni mezzo, insieme ad altri Francescani scismatici riuniti intorno all'imperatore, per dimostrare che era stato un papa eretico a pronunciare la sentenza di scomunica nei suoi confronti. G. ebbe cura di rispondergli attraverso una nuova bolla, Quia vir reprobus, del 16 novembre 1329, in cui approfondiva la sua riflessione sulla povertà e spiegava il significato dei suoi tre precedenti testi, Ad Conditorem, Cum inter nonnullos, Quia quorumdam, prefiggendosi lo scopo di evitare che quest'uomo reietto, intento a cercarvi con accanimento delle eresie, finisse per fuorviare il popolo cristiano. Il papa argomentava in sostanza che Adamo aveva ricevuto da Dio il dominio sull'intera creazione, anche prima di quella di Eva, e quindi aveva esercitato la proprietà privata prima della comunanza con la sua sposa. È dunque un fondamento della proprietà privata nel diritto naturale, al di là di ogni concupiscenza. Il pontefice intendeva smascherare fin nelle sue estreme conseguenze esegetiche, teologiche e giuridiche la pretesa, accampata dai Francescani dell'epoca, del monopolio della purezza evangelica, artificiosamente coltivato grazie al trasferimento della proprietà alla Santa Sede. Ma nella fuga dei tre frati minori da Avignone in direzione della corte imperiale, si configura il secondo grande contrasto che segna il pontificato di G.: l'opposizione fra il suo potere spirituale e quello temporale dell'imperatore.
Alla morte di Enrico VII, nel 1313, la divisione fra gli Elettori era approdata ad una duplice elezione. Alla sua ascesa al soglio G. aveva trovato una situazione confusa, in quanto due eletti si contendevano il trono imperiale: Ludovico il Bavaro, incoronato ad Aquisgrana, e Federico d'Austria, consacrato a Bonn. Il papa ne approfittò per dichiarare l'Impero vacante. In tal caso la sovranità temporale tornava con pieno diritto al sovrano spirituale, che sottolineò la superiorità del suo potere su quello dell'imperatore. La politica italiana del papa sembrò favorire in un primo tempo Federico. Ansioso di pacificare questo territorio dell'Impero in cui era situata la capitale storica della cristianità, G. ne affidò il vicariato al re di Napoli Roberto d'Angiò. Ma allorché l'appoggio di Filippo di Valois si rivelò insufficiente a piegare le città in mano ai ghibellini, come Milano, il papa fece appello a Federico. Il 28 settembre 1322 quest'ultimo venne fatto prigioniero da Ludovico il Bavaro a Mühldorf. Nondimeno il papa non volle riconoscere in Ludovico il solo pretendente ormai rimasto in lizza per la Corona imperiale, anzi gli ingiunse di sospendere entro tre mesi l'esercizio della sovranità imperiale. E non essendo stato rispettato il termine, il papa finì per scomunicare l'imperatore dichiarandolo decaduto dai diritti attribuitigli dalla sua elezione.
La replica consistette nell'appello di Sachsenhausen, del 22 maggio 1323, che, nello spirito dei Fraticelli accolti dall'imperatore alla sua corte, denunciava il pontefice come eretico e convocava un concilio per designarne il successore. In questa fase venne prodotta una copiosa letteratura ghibellina, la cui espressione più nota è il Defensor Pacis. Le teorie politiche di Giovanni di Jandun e di Marsilio da Padova, influenzati dall'averroismo politico delle città dell'Italia settentrionale, esaltavano l'indipendenza dello Stato nei confronti della Chiesa. I partigiani dell'imperatore ne deducevano il dominio dello Stato sui beni del clero, la soppressione dei tribunali ecclesiastici, il ridimensionamento dei poteri papali e il governo della Chiesa esercitato da un concilio convocato dall'imperatore. Dal Defensor Pacis, in cui Pierre Roger in seguito avrebbe individuato duecentoquaranta errori, G. si limitò ad estrarre cinque proposizioni che condannò il 23 ottobre 1327. Sembra che a questo periodo risalga anche la condanna della Monarchia di Dante da parte di Bertrando del Poggetto.
L'imperatore non si accontentò più di condurre una politica ostile agli interessi del papato in Italia, dove aveva assicurato il suo appoggio a Matteo Visconti e Cangrande della Scala, ma scese lui stesso nella penisola e nel passaggio a Milano si fece incoronare re d'Italia. Poi un'assemblea popolare lo elesse imperatore a Roma e ben presto fu consacrato in questa stessa città da vescovi avversi a Giovanni XXII.
Dal 14 al 18 aprile 1328 un'assemblea di laici convocata dall'imperatore depose il papa e lo sostituì con il frate minore Pietro Rinalducci di Corvaro, che assunse il nome di Niccolò V. Ma questa messa in scena ebbe vita breve. Non essendo in condizione di trattenersi in Italia, l'imperatore risalì verso nord abbandonando a Pisa l'antipapa, il quale, come la maggior parte dei tiranni delle città ghibelline, non tardò a sottomettersi beneficiando di un atto di clemenza poco consueto per il temperamento di Giovanni XXII.
Come il Defensor Pacis aveva fornito un fondamento teorico ai maneggi dell'imperatore in Italia, i suoi rovesci di fortuna videro fiorire ad Avignone una messe di trattati politici d'ispirazione teocratica: la Summa de ecclesiastica potestate di Agostino Trionfo, il De Planctu Ecclesiae di Alvaro Pelayo, il De Potestate Ecclesiae di Alessandro di Sant'Elpidio, generale degli Agostiniani. Queste opere dedicate al papa rammentano il primato del potere spirituale su quello temporale, entrambi concentrati nelle sole mani del pontefice, e la loro estensione universale. In questo dialogo tra sordi, non è possibile distinguere una controversia di carattere compiuto, ma il confronto tra Ludovico il Bavaro e G. diede innegabilmente adito ad una significativa produzione politologica.
Una terza controversia, che agitò gli ultimi anni del pontificato di G., venne ad aggiungersi a quelle relative alla povertà di Cristo e al rapporto fra potere temporale e spirituale: la questione della visione beatifica. Nel sermone pronunciato per la festività di Ognissanti del 1331, dal pulpito della cattedrale di Notre-Dame-des-Doms, il papa affermò che le anime dei santi in cielo non vedevano e non avrebbero visto Dio faccia a faccia prima del giudizio universale. G. interpretava in tal senso l'esegesi contenuta nei sermoni di Ognissanti di s. Bernardo a proposito del versetto dell'Apocalisse 6, 9. I martiri collocati sotto l'altare di Cristo dovevano accontentarsi di contemplare la sua umanità fino al giorno del giudizio, quando la sua divinità si sarebbe manifestata a tutti. Quest'opinione, sviluppata nuovamente dal pontefice in numerosi sermoni tra la fine del 1331 e l'inizio dell'anno successivo, era in contrasto con quasi un secolo di intensa riflessione dottrinale dei teologi sulla visione beatifica. La condanna del 1241 aveva fissato, in effetti, a contrario il contenuto della visione beatifica: i beati vedono l'essenza di Dio in se stessa, senza intermediari. Era questa la traduzione metafisica proposta dai teologi al termine di una prima riflessione, per il faccia a faccia promesso dalle Scritture (1 Corinzi 13, 12; Giovanni 3, 2). Una volta stabilito che i beati vedevano proprio l'essenza divina in se stessa, rimanevano da definire le modalità, e la questione occupò uno spazio crescente nelle dispute e nei trattati teologici della seconda parte del XIII secolo. La tesi di G. si opponeva a questi sviluppi sulla visione dell'essenza di Dio, ma da un'angolazione differente: l'interrogativo centrale non era "come", bensì "quando" i beati avrebbero visto Dio. E l'impostazione del papa rifletteva lo spirito del giurista. Se in effetti le anime dei santi vedono già Dio, cosa aggiungerà il giorno del giudizio? Una stessa causa può forse essere giudicata due volte da un Dio giusto? Una volta di più, l'opinione del pontefice mostra al tempo stesso elementi di continuità e di rottura con la riflessione di un cospicuo numero di teologi. Consapevoli delle difficoltà, costoro supponevano un aumento della visione di Dio, per gli uni in intensità e per gli altri solo in estensione, al momento della resurrezione finale e del giudizio universale. Invece il papa non faceva aumentare la visione nel giorno del giudizio, bensì la differiva fino a quel momento.
Quali ragioni potevano muoverlo, ammesso che ne avesse? Quest'idea, germinata nella sua mente di giurista quasi novantenne, aveva anche un altro fondamento teologico oltre all'effetto suscitato dalla strana storia di spiriti riferita dalla "scala coeli" di Jean Gobi? Una simile ipotesi può essere giudicata soddisfacente solo a patto di imputare l'opinione di G. all'età molto avanzata. Secondo altre congetture, proposte da A. Maier, si tratterebbe di una risposta ad empi "sophismata" pronunciati ad Oxford l'anno precedente. K. Walsh vede piuttosto nell'iniziativa di G. un tentativo di rilanciare il dibattito con la Chiesa d'Oriente su una questione scottante che avrebbe dato ben presto origine alla crisi palamita. Le missioni di R. Fitz Ralph presso gli Armeni comproverebbero questo impegno di conciliazione. Ma è più verosimile che questa teoria della visione differita scaturisca da una cristologia e un'ecclesiologia teocratiche: secondo G., il Figlio, incarnandosi, avrebbe acquisito nella sua umanità un potere di giurisdizione sugli uomini che avrebbe conservato fino al giorno del giudizio, e solo allora l'avrebbe rimesso al Padre. Di conseguenza, finché il genere umano non sarà giunto alla fine dei tempi, Cristo regnerà su di esso nella sua umanità, così come il suo vicario terrestre. Inoltre, questo capo è tutt'uno con il suo corpo mistico composto dalle Chiese militante e trionfante. Pertanto, finché la Chiesa trionfante non sarà completamente riunita, non potrà accedere alla sua gloria e dunque alla sua visione definitiva. E dunque i martiri situati sotto l'altare devono restare sotto la protezione dell'umanità di Cristo, accontentandosi di contemplarla finché non saranno riuniti a coloro che ancora devono affrontare la grande prova.
È qui che la teologia della sovranità esercitata dall'umanità di Cristo nel suo vicario, fino alla fine dei tempi, si salda all'escatologia di s. Bernardo e interpreta la sua lettura dell'Apocalisse 6, 9. Ben lungi dall'esserne stato spogliato a causa della volontà di vivere una povertà assoluta, il Cristo incarnato esercita il suo "dominium" non solo sui beni materiali, ma anche su quelli spirituali fino al giorno del giudizio. Le anime dei santi dovranno perciò attendere quel momento per accedere alla perfetta visione della sua divinità: fino ad allora godranno soltanto della protezione della sua umanità. La tesi di G. sulla visione beatifica assume un significato politico nel quadro della lotta ghibellina tesa a limitare l'estensione del potere spirituale. Dante, nella Monarchia, non distingue "duo ultima", due beatitudini, l'una spirituale e l'altra temporale, perseguite rispettivamente da ciascuno dei due poteri? Ricordando che le anime non conquisteranno la beatitudine prima di essere riunite ai loro corpi nella resurrezione, il pontefice non afferma che soltanto il suo potere è realmente supremo? L'opinione espressa dal papa non mancò di suscitare una serie di obiezioni e diede origine ad una nutrita controversia teologica, che prese avvio all'interno della Curia, dove il papa aveva invitato cardinali e teologi a pronunciarsi sull'argomento. Una serie di questioni fu disputata in Curia, dove personaggi come il cardinale Annibale da Ceccano o il maestro del Sacro palazzo, il domenicano Armand de Belvézer, svolsero un ruolo di primo piano, rispettivamente a favore e contro la tesi pontificia della visione differita. Il punto di vista dell'opposizione domenicana alla visione differita, espresso dal lettore della Curia ma anche da Giovanni da Napoli, coincide in massima parte con quello della teologia morale ispirata da Tommaso d'Aquino: Dio non sarebbe giusto se differisse la ricompensa delle anime meritevoli. Del resto, la gloria cui allude Cristo in Giovanni 17, 24, chiedendo che le anime (con gli apostoli) possano vederla sul suo volto, è quella che egli possedeva prima della creazione del mondo, dunque la gloria della sua divinità eterna. È per contemplare questa divinità, e non la sola umanità di Cristo, che Paolo desiderava morire (Filippesi 1, 23). Fra gli oppositori moderati della tesi papale si può annoverare anche il cardinale Giacomo Fournier, mentre i teologi scotisti oxoniani presenti nella Curia, come John Lutterell, Guglielmo di Alnwick e Gualtiero di Chatton si schierarono dalla parte del pontefice, adducendo valide ragioni teologiche. La teologia francescana della visione beatifica manteneva in effetti nella visione la presenza di una "species", malgrado la sua immediatezza. Alcuni, come ad esempio Chatton, riconobbero nell'umanità di Cristo la "species" ultima di cui gli stessi angeli avrebbero goduto in attesa della visione definitiva della sua divinità a partire dal giudizio universale.
Ma la discussione teologica era stata appena avviata nella quiete della Curia, allorché l'opposizione sistematica nei confronti del pontefice, guidata dai Francescani scismatici rifugiatisi alla corte imperiale di Baviera, si impadronì delle tesi espresse nei sermoni papali sulla visione beatifica, con l'intento di ricavarne una nuova serie di "eresie", in aggiunta a quelle già riscontrate nei testi concernenti la povertà di Cristo e degli apostoli. L'elenco più esauriente si trova negli appelli di Bonagrazia da Bergamo per la convocazione di un concilio che deponesse il "papa eretico". Questa letteratura polemica e ripetitiva, che aveva preso le mosse assai prima del 1331, si prolungò oltre la morte di G. prendendo di mira la sua memoria e il suo successore. Anche Francesco d'Ascoli dovette dare il suo contributo, al pari di Guglielmo di Occam, i cui scritti politici coinvolgono i due pontefici.
Questi toni polemici finirono ben presto per turbare la serenità dei dibattiti penetrando fin nel cuore della città avignonese, allorché il domenicano Thomas Waleys, il 17 gennaio 1332, pronunciò dal pulpito del suo Ordine un sermone in cui attaccò la tesi pontificia con aspra ironia, accusando al tempo stesso i suoi fautori di volerla difendere nella speranza di vedersi assegnare dal papa qualche beneficio ecclesiastico. Il domenicano fu rapidamente incarcerato e perseguito da un'Inquisizione in mano ai Frati Minori. Quest'offensiva indusse i partigiani più risoluti del pontefice ad abbandonare le loro riserve. Fu il cluniacense François Christiani, cappellano del cardinale Annibale da Ceccano, a rispondere dal pulpito all'attacco sferrato da Thomas Waleys due settimane prima. È opportuno segnalare che il papa, dopo quest'invettiva, aveva affidato al suo cameriere il compito di scegliere i predicatori che avrebbero parlato nel corso dell'anno dai vari pulpiti cittadini. Dopo Christiani, fu la volta di Chatton, che prese le difese del papa dal pulpito avvalendosi di uno stile oxoniano molto sottile, e ripreso in seguito da altri, per appoggiare l'opinione pontificia. Ma il cardinale da Ceccano incarnava una linea di difesa più dura. Rifiutava sistematicamente di ricorrere ad argomenti di ordine teologico, attenendosi unicamente all'autorità delle Scritture. Dovette contribuire alla raccolta delle autorità scritturali e patristiche favorevoli all'opinione del papa, sulla quale quest'ultimo sperava di fondare una definizione dogmatica aderente alle sue convinzioni. Lo stesso cardinale è autore di un trattato incompiuto, una parte del quale dovette servire da preparazione al processo di Thomas Waleys. Il trattato del cardinale diede origine comunque ad una risposta anonima, molto estesa e vigorosa, pubblicata da M. Dykmans, che potrebbe essere opera del priore del convento domenicano di Avignone. Dopo un periodo di latenza, il processo contro Waleys, il 15 settembre 1333, coinvolse anche il suo confratello Durando di S. Porciano. L'antico vescovo di Meaux aveva infatti inviato al papa un trattato sulla visione beatifica permeato di uno spirito rigorosamente tomistico che non gli era consueto.
Con il processo contro Waleys e Durando di S. Porciano la controversia, che aveva già suscitato una certa risonanza alla corte imperiale, raggiunse infine Parigi, suscitando l'apprensione del sovrano. È opportuno segnalare che alla fine dell'anno precedente, in occasione di una disputa di "quodlibet" alla Sorbona, un maestro domenicano aveva sostenuto che la questione sollevata dal pontefice non rientrava nella sfera delle opinioni. Due baccellieri, Arnaud de Clermont (dell'Ordine dei Frati Minori) e un carmelitano, inviati alla Sorbona dal pontefice per leggere le Sentenze, cercarono di rispondere a questo maestro dell'Ordine dei Predicatori. Ma la disputa rimase confinata all'Università. Invece, in settembre, con l'arrivo a Parigi del generale dei Francescani Guiral Ot insieme ad Arnaud de St-Michel, inviati da G. in missione in Scozia, proprio dopo la sentenza avignonese contro Thomas Waleys e Durando di S. Porciano, la disputa assunse una forte valenza politica. In effetti, sembra che il generale francescano abbia approfittato della sua sosta parigina per difendere dal pulpito la tesi del pontefice. Il re avrebbe reagito biasimando i predicatori che non insegnavano la visione immediata, tant'è che il papa avvertì la necessità di ricordargli, in una lettera datata 18 novembre 1333, che si trattava di una questione dottrinale aperta sulla quale lui stesso aveva esortato i teologi a pronunciarsi.
Invitato a sostenere durante l'Avvento una disputa di "quodlibet", Guiral Ot si vide ben presto convocare a Vincennes, di fronte a ventinove teologi, che condannarono due proposizioni estratte dalla disputa. Ma attraverso la sua persona il re intendeva colpire l'opinione espressa dal pontefice, tentando di far assumere all'Università di Parigi il ruolo di terzo potere, quello dello "studium", suscettibile di fare da contrappeso nell'antagonismo che opponeva "imperium" e "summum pontificium". L'opinione espressa da Guiral Ot era comunque ingegnosa; respingendo ogni argomentazione relativa all'aumento di intensità della visione di Dio, ne distingueva tre forme successive: quella dei saggi in questo mondo, quella delle anime separate e quella più perfetta dei risorti. Le anime separate non godono ancora di questa visione perfetta, ma sarebbe presunzione negare loro la visione intermedia. Il maestro francescano poteva sperare, con quest'accorgimento, di sottrarsi abilmente ad una situazione che per lui si stava facendo critica. Ma fu un espediente vano e dovette ritrattare pubblicamente. Comunque il tentativo del re di far condannare dai dottori della Sorbona la tesi del papa, attraverso quella di Guiral Ot, fallì ugualmente. Il 28 dicembre G. comunicò che la decisione dottrinale non spettava a Parigi e convocò un Concistorio ad Avignone, con la speranza che venisse formulata una definizione relativa alla visione beatifica in sintonia con la sua opinione. Ma non riuscì nell'intento.
A questo punto la situazione era in una fase di stallo: il pontefice non poteva ottenere la decisione dottrinale auspicata, l'imperatore non era in condizione di riunire il concilio che doveva deporre G., e neppure l'Università aveva la facoltà di concludere un dibattito di natura principalmente dottrinale. I maestri erano tuttavia in gran parte contrari alla visione differita, come testimonia la relazione che consegnarono al sovrano sull'argomento. Un insigne maestro francescano come Niccolò di Lira non esitò a prendere posizione contro i sostenitori della tesi pontificia, tra i quali si annoverava il generale del suo Ordine, anzi impegnò addirittura tutta la sua sapienza di teologo e di esegeta per difendere il domenicano Durando di S. Porciano, condannato ad Avignone.
Malgrado questa battuta d'arresto sul piano istituzionale, la disputa sulla visione beatifica si era estesa frattanto all'intera cristianità. Il re di Francia non fu il solo sovrano ad intervenire: Roberto d'Angiò inviò a G. un trattato scritto di suo pugno in cui prendeva posizione contro la tesi pontificia, a conclusione di un'argomentazione molto serrata e riccamente documentata. Nonostante la differenza d'età e di rango, il patriarca di Alessandria Giovanni d'Aragona condannò ugualmente l'opinione del papa, dall'alto della sua dignità di grande di Spagna. Ma la crisi non raggiunse soltanto le corti di Monaco, Napoli o Parigi, le Università di queste città e di Oxford, bensì si propagò in tutti gli ambienti, suscitando violente reazioni da parte dei sostenitori degli Spirituali nel sud-ovest della Francia e, seppur più moderate, anche da un docente di diritto canonico dell'Università di Tolosa come Géraud du Pes-quier, sul cui sostegno il papa faceva a torto grande affidamento, oppure da un prete dell'Ordine teutonico, tale Ulrich, che produsse un'importante difesa del suo Ordine indirizzata a Benedetto XII e recentemente pubblicata. Il suo trattato teologico rivolto a G. conteneva una critica umile e pia della tesi pontificia, nutrita di devozione e di esegesi simbolica piuttosto che di argomentazioni scolastiche.
Mentre la stagnazione istituzionale pareva insormontabile, la soluzione della crisi che infiammava tutta la cristianità toccò ad un uomo di grande valore, sia per la sua sapienza teologica che per le sue doti diplomatiche: il cardinale Giacomo Fournier. Egli ottenne dal papa, sul letto di morte, una ritrattazione nella debita forma: in presenza di due cardinali, G. ammise il 3 dicembre 1334 "che le anime separate dai corpi e pienamente giustificate [...] vedono Dio e l'essenza divina faccia a faccia chiaramente, nella misura in cui lo comportano lo stato e la condizione di un'anima separata". La riserva finale lasciava supporre che questa visione fosse meno perfetta di quella conseguita nel giorno del giudizio. Giacomo Fournier, divenuto Benedetto XII, pose fine alla questione riconoscendo la visione immediata nella costituzione Benedictus Deus, il 29 gennaio 1336, pur lasciando aperto il problema teologico dell'eventuale aumento della visione beatifica al momento della resurrezione finale e del giudizio universale. Ma intanto il papa originario di Cahors, ben lungi dall'essere mai stato eretico, ritrattava un'opinione privata di teologo, fondata senz'altro su una tradizione patristica molto antica ma che annullava i progressi conseguiti da oltre un secolo di riflessione teologica sulla visione beatifica. La sua anima abbandonò questo mondo il 4 dicembre 1334, mentre il suo corpo venne sepolto nella cattedrale di Notre-Dame-des-Doms. Il monumento funerario del pontefice può essere ancora ammirato nella chiesa, tuttavia scavi recenti sembrano confermare che le sue spoglie mortali siano state gettate nel Rodano durante la rivoluzione francese.
fonti e bibliografia
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(traduzione di Maria Paola Arena)