Girolamo Cardano
Nell’opera di Cardano sono rappresentate tutte le discipline di cui si compone la cultura rinascimentale, secondo un ambizioso disegno enciclopedico, che include la filosofia naturale e mira a ricondurre il compito ‘infinito’ del sapere entro l’orizzonte della sapientia. Un orizzonte nel quale la ‘filosofia morale’ ha un ruolo di grande rilievo. Cardano sa quanto la ‘prudenza’, che da essa trae alimento, sia indispensabile per condursi nel mondo, e quale peso abbiano lex e consuetudo sulle sorti umane. I numerosi scritti dedicati a questi temi attestano il proposito di contribuire alla felicità possibile dell’humanum genus, nella convinzione che l’utilitas sia ciò che giustifica l’impresa intellettuale.
Fazio Cardano, giureconsulto milanese, aveva da tempo passato i cinquant’anni, quando dalla sua relazione con Chiara Micheri, vedova trentaseienne, nacque Girolamo: era il 24 settembre 1501. Il parto ebbe luogo a Pavia per evitare lo scandalo di una nascita al di fuori dal matrimonio. Fazio e Chiara, entrambi di carattere «maxime iracundi», si sarebbero sposati solo nel 1524. La nascita e l’infanzia di Girolamo, per parte sua «mitissimus», non furono né facili né felici. La prima educazione fu curata dal padre, il quale, oltre all’attività di avvocato, fu professore di matematica alle scuole Piattine di Milano, istituite nel 1501; editore della Perspectiva communis di John Peckham, ebbe rapporti diretti con Leonardo da Vinci, che nella città di Ludovico il Moro aveva soggiornato dal 1482 al 1500. La formazione universitaria di Girolamo avvenne presso gli Studi di Pavia (1520) e di Padova (1524), mentre la Lombardia era attraversata dagli eserciti in conflitto di Francesco I e di Carlo V: dottore in artibus, si laureò in medicina nel 1526 presso l’ateneo patavino e cominciò a esercitare la professione a Saccolongo, vicino Padova, dove nel 1531 sposò Lucia Bandareni. Rientrato a Milano nel 1532, si vide negato (sino al 1539) l’accesso al Collegio dei medici per via della nascita illegittima; nel 1534 ottenne però l’insegnamento di matematica nelle scuole Piattine grazie alla protezione del senatore Filippo Archinto.
Già nel corso degli anni Venti Cardano aveva scritto su argomenti matematici, sull’immortalità dell’anima, sulla logica aristotelica e la medicina, sulla chiromanzia e sui giochi: il gioco d’azzardo fu infatti una passione divorante; ben presto lo assunse come oggetto di studio, anche sotto il profilo matematico, come è attestato dal De ludo aleae. La produzione di quegli anni proseguì con almanacchi, geniture, pronostici: di questa natura le prime pubblicazioni, stampate a Venezia e Milano dalla metà degli anni Trenta. Scriveva intanto sulla magia di Cornelio Agrippa (Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim) e la geografia di Claudio Tolomeo, sull’astronomia e l’astrologia, su Vitruvio, sull’interpretazione dei sogni (i Somnia synesia saranno pubblicati a Basilea nel 1562, insieme all’Encomium Neronis) e ancora, intensamente, sulla matematica: nel 1539 apparirà la Practica arithmetice, mentre Cardano stava lavorando a quell’opus perfectum che non completerà, ma all’interno del quale figura l’Ars magna algebrica (Norimberga 1545), che sarà al centro della celebre polemica con Niccolò Tartaglia circa la soluzione delle equazioni cubiche. Tra il 1542 e il 1545 uscirono il De consolatione (Venezia), il De sapientia (Norimberga), il De immortalitate animorum (Lione), in cui viene confutata la tesi mortalistica di Pietro Pomponazzi, e una prima parte dei Contradicentia medica (Venezia).
Dopo aver respinto gli inviti provenienti dalla corte papale, dalla Francia e dalla Danimarca, Cardano assunse l’insegnamento di medicina presso lo Studio pavese (1546-52) e nel 1550 apparve a Norimberga la prima edizione del De subtilitate, una delle sue due grandi e diffusissime enciclopedie naturalistiche, insieme al De rerum varietate (Basilea 1557). Chiamato a Edimburgo (1552) per curare l’arcivescovo John Hamilton, primate di Scozia, conobbe durante il viaggio matematici e medici come Oronce Finé, Jean-François Fernel, Sylvius (Jacques Dubois); a Basilea entrò in contatto con Guglielmo Grataroli. Dopo il ritorno a Milano, altri inviti gli furono rivolti invano dalle corti scozzese e francese; nel 1554 venne dato alle stampe (a Basilea) il De astrorum iudiciis, vasto commento della Tetrabiblos di Tolomeo, in cui figura lo scandaloso oroscopo di Cristo.
Il secondo periodo di insegnamento pavese (1559-62) venne interrotto in seguito alle vicende connesse con la condanna a morte per uxoricidio del figlio Giovanni Battista, eseguita a Milano nell’aprile del 1560. Sostenuto dai cardinali Andrea Alciati e Carlo Borromeo, Cardano passò all’Università di Bologna, dopo aver pubblicato il De utilitate ex adversis capienda (Basilea 1561), lavorò al Proxeneta seu de prudentia civili e al Theonoston, che appariranno solo nel secolo successivo, e diede alle stampe vari commentari a Ippocrate. Del 1570 (a Basilea) è la pubblicazione dell’Opus novum de proportionibus. Nello stesso anno Cardano venne messo sotto accusa dall’Inquisizione: imprigionato a Bologna (6 ottobre-22 dicembre), si trasferì nel 1571 a Roma, incoraggiato dal cardinale Giovanni Morone, per meglio seguire il processo. Verrà condannato all’abiura e gli verrà interdetto l’insegnamento, ma nel 1574 otterrà una pensione dal papa Gregorio XIII e l’anno successivo sarà ammesso al Collegio dei medici di Roma. Qui avvenne la sua morte, il 21 settembre 1576.
Dopo aver scritto su tutte le discipline e aver praticato una gran varietà di generi letterari (trattati e dialoghi, commentari ed enciclopedie, orazioni, encomi e apologie, sino alla poesia, non eccelsa, della Naenia in morte filii), Cardano aveva chiuso la sua attività con una delle più significative e fortunate autobiografie del Rinascimento, il De propria vita, scritto nel 1575-76 ma che ebbe la prima edizione nel 1643 a Parigi, per interessamento di quel Gabriel Naudé, bibliotecario di Giulio Raimondo Mazzarino e libertino erudito, che molto si era adoperato per la raccolta dei numerosissimi manoscritti cardaniani e che aveva propiziato l’edizione, lacunosa e alquanto scorretta ma preziosa, degli Opera omnia: dieci volumi in folio, curati dal medico Charles Spon e stampati a Lione nel 1663 da Jean Antoine Huguetan e Marc Antoine Ravaud.
«L’uno è bene; i molti sono male», scrive Cardano nel De uno (1562). Tutte le cose tendono a compiersi nell’unità: considerata nell’innumerevole molteplicità dei singoli elementi dei quali consta nel tempo, la specie umana è mortale, laddove è «eterna» nella propria unità; la forza unificante dell’amore è quella che ne assicura la permanenza, mentre la discordia la distrugge (De uno, a cura di J.M. García Valverde, 2009, p. 2; e cfr. E. Kessler, Alles ist Eines wie der Mensch und das Pferd. Zu Cardanos Naturbegriff, in Girolamo Cardano. Philosoph, Naturforscher, Arzt, 1994, pp. 91-114).
In un breve testo coevo di argomento logico-retorico leggiamo che questo rapporto tra uno e molteplice si riflette dal piano degli enti reali a quello della loro conoscenza. «Poiché di tutte le cose che sono e che immaginiamo, vediamo esservi un solo principio, come Dio e l’unità», è conveniente che lo stesso accada nella sfera variegata del sapere (G. Cardano, Dialectica, in Id., Opera omnia, cura C. Sponii, 1° vol., 1663, p. 293a): la «dialettica», che dovrebbe articolarsi averroisticamente in una logica generale e in logiche particolari, è appunto intesa da Cardano come l’«arte» che racchiude i canoni di ogni dimostrazione e i criteri dei metodi per l’invenzione e l’esposizione (cfr. I. Schütze, La “Dialectica” di Cardano e la rivalutazione enciclopedica della logica, in Girolamo Cardano. Le opere, le fonti, la vita, 1999, pp. 147-57; La Nave 2004, pp. 109-49).
Le «scienze», convergenti nella sapienza, sono le conoscenze che si fondano su «dimostrazioni» attinte a principi o alla multiplex collatio delle cose sensibili: tra esse, alcune sono puramente contemplative, altre, che danno luogo a opere (opus), formano la sfera della «scienza pratica», mentre le «arti» sono i saperi che forniscono, senza dimostrazione, i modi corretti di produrre opere cui competa una permanenza nel tempo. La geometria o la musica, per es., sono scienze pratiche (ma altrove, in più occasioni, Cardano ascrive le matematiche all’arte); la medicina o l’agricoltura si dividono tra la scienza e l’arte; l’architettura è un’arte, più intrinseca alla sapienza di quanto lo siano la pittura e la scultura. Quanto alla filosofia, e segnatamente alla filosofia morale, si situa anch’essa tra la scienza pratica e l’arte e, poiché alimenta la «prudenza», concerne in massimo grado il fine della felicità, in eguale misura contribuisce alla sapienza e fornisce l’orientamento a ogni altro sapere (Paralipomenon libri, XVIII, I, in Id., Opera omnia, cit., 10° vol., p. 577a/b). E le scienze possono giovare alle arti, se è vero che un grande pittore come Leonardo portò quasi alla perfezione «l’imitazione dell’intero corpo umano», ma risentì del fatto di non aver potuto attingere all’opera anatomica di un medico insigne, di un «artefice e di un indagatore della natura così grande quanto lo fu Vesalio» (De subtilitate, XVII, in Id., Opera omnia, cit., 3° vol., p. 609b).
Quasi vent’anni prima della pubblicazione del De uno, Cardano aveva rivendicato l’originalità del proprio De sapientia, sostenendo che lì per la prima volta quel tema era trattato in modo complessivo, e non nelle singole diramazioni, sulle quali altri in passato si erano soffermati: Ippocrate e Galeno sulla medicina, Aristotele e Platone sulla filosofia, Cicerone e Quintiliano sulla retorica, per la geometria Euclide e Archimede, Tolomeo per l’astrologia, Vitruvio per l’architettura, Ateneo per la meccanica (De sapientia, a cura di M. Bracali, 2008, p. 3). Se la divinità di Dio consiste principalmente nella sapienza, senza la quale la potenza immensa non riuscirebbe a governare e custodire l’universo, tra gli uomini «non v’è nulla che la sapienza non possa», «tutto è in suo potere» (pp. 7 e 13). L’accento cade con forza su questo tema, e la trattazione si sviluppa come una ricognizione delle diverse forme – divina, naturale, umana, demoniaca – nelle quali questa prerogativa eminente si articola.
In un intreccio tra ispirazione superiore e fecondità mondana, la più alta sapienza viene presentata da Cardano come il frutto di un dono gratuito di Dio, «acquisito senza arte o invenzione alcuna» (nulla arte vel inventione paratum): indipendente dalla volontà e dall’exercitatio umane, questo dono contribuisce al fine di «vivere bene e a lungo», includendo la «speranza» nella vita eterna e armonizzandosi con gli insegnamenti vetero e neotestamentari che dettano il timore e l’obbedienza verso Dio, l’amore per il prossimo e l’assunzione di un’attitudine in cui si uniscano la semplicità delle colombe e la prudenza del serpente (De sapientia, cit., pp. 31, 21, 26). Frutti buoni o maligni delle capacità umane sono invece i gradi inferiori della sapienza: quella naturale, che attraverso le scienze e le arti si riferisce all’esse delle cose, è il più diretto complemento mondano della sapienza superiore; la sapienza umana – arte del videri, dell’apparire – è rivolta all’ambito instabile e insidioso della societas e ne condivide l’ambiguità. Mentre la sapienza demoniaca è per lo più il campo dell’inganno e della ciarlataneria che Cardano stigmatizza, pur concedendo, con il conforto di Galeno, che non in tutti i casi sia da escludere l’efficacia di cerimonie, pratiche, rituali attinenti all’occulto (De sapientia, cit., p. 234). Del resto il meraviglioso abita anche nei poteri nascosti della natura e nelle arti più comuni, a cominciare dalla medicina, dall’agricoltura, dalla navigazione e dalla strategia militare, sino all’astrologia e all’interpretazione dei sogni, i cui cultori più esperti ed eruditi sanno dar prova di congetture divinatorie e di risultati mirabili: i sogni, in particolare, dipendono certo da «cause naturali», ma talvolta sono l’occasione per interferenze demoniche (Somniorum synesiorum libri quatuor, éd. J.-Y. Boriaud, 2008, pp. 38-39).
L’idea cardaniana di sapienza, reale o illusoria, buona o perversa, è di un’ampiezza non inferiore a quella presa in considerazione da molti filosofi della natura, maghi, alchimisti contemporanei, tra i quali quel Cornelio Agrippa che all’inizio degli anni Trenta aveva pubblicato il De incertitudine et vanitate scientiarum et artium, immediatamente colpito dalla censura ecclesiastica per eresia: ad Agrippa Cardano si richiamerà più volte in toni assai critici, e affermerà di aver inizialmente redatto il proprio De rerum varietate «ad imitazione» – ma era un’imitazione polemica – dell’altra grande opera del mago di Nettesheim, il De occulta philosophia (G. Cardano, De libris propriis, ed. I. Maclean, 2004, p. 56 e nota).
La posizione di Cardano può essere caratterizzata attraverso i termini chiave di varietas e subtilitas, che figurano nei titoli delle sue due enciclopedie più famose e che riguardano sia la natura, sia i tratti che devono connotarne la conoscenza. Ciò che tra gli uomini si assume come sapienza consiste di una varietà di conoscenze e capacità sublimi, sottili, grossolane, fallaci, che si esprimono in ruoli, mestieri, professioni non meno differenziati: il discrimine tra vero e falso, bene e male in questo campo è sempre labile – il ciarlatano può presentarsi nella forma del guaritore e in quella del medico disonesto, figura, quest’ultima, su cui Cardano ritorna in molti scritti. Se la varietà delle disposizioni morali e intellettuali degli individui ha un grande rilievo al riguardo, non meno influente è la varietas delle cose e dei poteri che esse racchiudono. Il mondo cardaniano, ancora tolemaico, è un sistema finito nello spazio, ma verosimilmente senza termini nel tempo, secondo l’opinione di Aristotele. In un tale contesto, la varietà degli enti si presenta con le sembianze di un’infinitezza che scaturisce dalla potenza mirabile secondo cui gli elementi materiali si compongono e si scompongono nella sfera sublunare (Ingegno 1980, cap. 6; Schütze 2000, capp. 2 e 3; Baldi 2010); i generi e le specie delle cose sono scanditi da confini netti o sottilissimi, e permeabili, sottoposti all’azione di forze e a influssi reciproci, il cui esercizio non esige (è il caso della simpatia) la contiguità spaziale. Così il possibile si allarga, nella realtà, oltre i limiti di ciò che la ragione sa distinguere. L’indagine richiede ordo e separatio (G. Cardano, Proxeneta, I, in Id., Opera omnia, cit., 1° vol., p. 356b), e non a caso l’istanza di classificazione ricorre assillante negli scritti cardaniani.
Questo sforzo, che rappresenta un aspetto della sottigliezza intellettuale con la quale il filosofo naturale deve fronteggiare la sottigliezza della natura, si accompagna però alla consapevolezza dell’inesauribilità dell’oggetto e della finitezza della conoscenza; oltre alla certezza ferma della verità, la fisica ammette, a differenza della matematica, le fluttuazioni della verosimiglianza e della probabilità; e la certezza è talvolta sorretta dalla fede intima del sapiens, perché la verità può celarsi, cosicché sui grandi temi della filosofia non si incontrano spesso se non «opinioni» in conflitto, tra le quali il pensiero può tuttavia cercare con sagacia argomenti che orientino la selezione e sostengano ipotesi nuove anche mediante il ricorso all’esperienza (Siraisi 1997, cap. 3; Maclean 2002, cap. 5, in partic. § 3). L’osservazione delle cose e degli eventi permette infatti di rilevare il manifestarsi di una causalità naturale, che nell’accezione cardaniana ammette miracula e portenta, intesi non come eccezioni all’ordine, ma come espressioni della varietà in esso inclusa: tra l’ordinario e lo straordinario non c’è discontinuità, e compito del filosofo è cogliere la ratio sottesa anche ai fatti che meno sembrano esserne provvisti. Inutile dire che, nei termini in cui è formulato, questo compito reca in sé rischi e ambiguità di grande portata: fatto è che a proposito della divinazione e di presunte sue manifestazioni ispirate dall’alto, Cardano dichiara:
Noi cerchiamo se vi sia una divinazione naturale (aliqua naturalis ratio divinandi): giacché nessuno dubita del potere di Dio. Mentre so per esperienza che quando ero assillato da avversari invidiosi, ho visto in sogno molte cose, che poco differiscono in verità e chiarezza dagli oracoli. Altre ‹ho colto› grazie a un qualche istinto, per cui mi liberavo da pericoli imminenti (De rerum varietate, LXIII, in Id., Opera omnia, cit., 3° vol., p. 269a).
Così, Cardano, come tanti altri filosofi naturali dell’epoca, può attingere ad accadimenti abituali o a procedure condotte con l’uso di strumenti appropriati, ma anche ai fatti più singolari occorsi a lui stesso, ovvero attinti a testimonianze e a fonti erudite, come è il caso di una città demolita dal vento, di cui scrisse Poggio Bracciolini, o della pioggia di pietre, rane, piccoli pesci o topi, devastanti quanto sciami di locuste: fenomeni curiosi, riconducibili tutti alla forza del vento e dei quali parlano il tedesco Georg Agricola o lo svedese Magnus Olaus:
Se guardi alle cause – commenta Cardano – non v’è nulla di strano: queste cose non accadono se non nei grandi moti dei venti […]; sembra anzi che la forza dei venti sia stata un tempo maggiore, giacché per sua causa accadevano non solo i fenomeni cui assistiamo, ma anche diluvi e inondazioni (De subtilitate, cit., XVI, p. 605a/b).
E nella celebre autobiografia, dopo aver esposto gli eventi supra naturam che costellarono la sua vita, il filosofo si rivolge al lettore:
Quando leggerai queste cose […] confronterai la vastità e l’ampiezza del mondo e del cielo con le tenebre esigue nelle quali, ansiosi, ci aggiriamo miseramente: allora capirai che non ho narrato niente di incredibile (De propria vita, XLIII, in Id., Opera omnia, cit., 1° vol., p. 39b).
Tutto quello che sappiamo oppure crediamo di sapere, nella caligine nella quale viviamo, deve essere accuratamente raccolto e vagliato, perché lì sta il margine ristretto del potere da cui dipende la nostra speranza. È peraltro verosimile che l’interesse di Cardano per la pluralità dei saperi e la sua esibizione di competenze vastissime rispondessero a molteplici fattori: dalla contaminazione e dalle tensioni tra forme e livelli di cultura differenti, alla competizione professionale e accademica.
Ma l’abbandono degli schemi scolastici, l’atteggiamento libero e critico nei confronti delle autorità, l’appello alla ricchezza dell’esperienza e alla pluralità delle conoscenze attinenti alla contemplazione e alla pratica, insieme all’acuta consapevolezza del rapporto che lega l’una all’altra queste due disposizioni, riflettono un modo di intendere il compito dell’intellettuale e convergono nell’impegno con cui il sapiente si riveste di gloria attraverso la ricchezza e la fecondità della propria opera.
Scritti come il De propria vita o come le quattro versioni del De libris propriis attestano la forte consapevolezza di questa destinazione. Nel capitolo dell’autobiografia dedicato alle scoperte notevoli cui era pervenuto nelle diverse discipline, Cardano si sofferma sulla filosofia morale e rivendica il merito di aver insegnato l’«eguaglianza di condizione» che compete agli uomini e ai viventi in generale: un’uguaglianza naturale, in base alla quale, aggiunge, sembra ragionevole ritenere che dopo la morte le azioni meritevoli saranno compensate (De propria vita, cit., XLIII, p. 40a), perché l’instabilità della salute, le differenze indotte dall’età, l’incidenza della trama minuta delle contingenze, la mutevolezza della fortuna, l’inanitas dei beni che possiamo acquisire gravano sulle sorti dei viventi in modo tale che il disegno della giustizia non potrebbe compiersi se non oltre i limiti della condizione mondana, mentre all’interno di questi limiti l’assillo delle avversità è tale da dissolvere ogni sicurezza e alimenta l’opinione secondo la quale «nelle cose umane non v’è nulla di buono» (Proxeneta, cit., XV, p. 366a).
«Moltissimi sono convinti che questa vita non ha alcun senso»: incapaci di riconoscere la ragione sottesa all’apparente accidentalità delle cose, gli uomini si abbandonano alla forza degli eventi, sovrastati dal contrasto delle opinioni concernenti la natura del mondo e il loro stesso destino. Contro questa disgregazione, la filosofia intravede la presenza di una mens nella trama della realtà: «Indaga con cura e vedrai che l’intima struttura delle cose risponde sempre a un disegno» (inquire diligenter et penetralia videbis omnia mente constare) (M. Baldi, G. Canziani, Dalla ‘secunda editio’ del “De utilitate”, in Girolamo Cardano. Le opere, le fonti, la vita, 1999, pp. 500-501).
E in particolare la filosofia morale si assume il compito di determinare il tipo di vita più confacente alla nostra condizione, ma non può farlo in modo efficace, se non sulla base della distinzione tra gli ordini (regna) diversi secondo i quali è dato a ciascuno di condurre la propria esistenza. A ogni regno, si legge nell’autobiografia, corrispondono forme distinte di conoscenza e attese differenti, più e meno solide, di felicità. Nel regno umano, per es., «molto frequentemente è preferibile ignorare che cosa è bene e cosa è male» (De propria vita, cit., XLIII, p. 40a). Ogni rimedio alle innumerevoli deficienze che affliggono il corpo e l’animo degli uomini non è che il preludio di una nuova mancanza e delusione, e questa vicenda si svolge in una condizione di ignoranza, che deve essere riconosciuta, giacché la presunzione di sapere produce il moltiplicarsi di dolorosi disinganni (De propria vita, cit., XLIX, p. 47a/b). La vanità e l’ignoranza sono le due cause più generali dell’infelicità umana e la confusione delle competenze è un’espressione di entrambe: è assurdo che i teologi disputino con i filosofi sul piano delle ragioni naturali, quanto sono assurde le pretese dei fondatori di eresie o di coloro i quali trattarono di magia naturale «sulla base dei numeri» (a numerorum ratione sumpta), come l’infelice Agrippa ritenne di fare, giacché i numeri – scrive Cardano richiamandosi ad Aristotele – «non possono essere principi delle azioni e delle mutazioni» (De subtilitate, cit., XV, p. 588b). Su questo piano, non la quantità, ma la qualità è decisiva, «perché i piccoli inizi di grandi cose sono da anteporre ai grandi inizi di cose per natura inferiori» (De propria vita, cit., XLIX, p. 47b).
La filosofia morale opera secondo un senso del limite su cui Cardano, in vecchiaia, insiste attraverso un’apologia minimalista dei propri scritti. Lascia spazio all’obiezione di non aver dato una definizione di felicità e di non averne neppure affermato l’esistenza: davanti a un simile vuoto (inanitas, vacuitas), molti si sono chiesti se quei libri avessero davvero un’utilità e un fine. L’utilità e il fine, risponde Cardano, ci sono e non ci sono: egli ha mostrato che la felicità è «quasi nulla» a fronte dell’infelicità e che tuttavia «in questo vuoto qualcosa c’è, sia pure ‹qualcosa di› esiguo e di breve durata, ma tutto si riduce infine a nulla»; chi apprenda questo insegnamento, impara «a raccogliere in tempo quel poco e a evitare l’infelicità», sospingendola verso il nulla (De propria vita, cit., L, p. 51a). La felicità, nel suo darsi, ha la consistenza effimera del momento in cui è in atto, poi mantiene una presenza negli effetti che ne conseguono, quindi permane umbratile e senza sostanza nella memoria, sino all’estinzione del ricordo, il quale, quand’anche riemerga, non suscita più alcun «affetto»: allora è chiaro che «questa vita basta trascorrerla senza grandi disgrazie, ed è già molto» (De propria vita, cit., L, p. 51b).
Tale è l’orizzonte entro cui si sviluppa prevalentemente la filosofia morale cardaniana, che non a caso assume i caratteri della consolatio, si sofferma sulle vie mediante le quali volgere il male in bene, come nel De utilitate e nel Theonoston, o si configura come un’arte per la sopravvivenza e l’affermazione di sé in un contesto fattuale e intersoggettivo intessuto di insidie. Nei suoi contenuti più propriamente morali, questa riflessione è criticamente aperta ai suggerimenti delle diverse scuole: vi si riconoscono motivi aristotelici e platonici, stoici ed epicurei, accolti secondo un eclettismo critico che ammette sia il ripiegamento su una virtù radicata nell’interiorità e nella centralità della coscienza, sia la considerazione della naturale inclinazione verso i piaceri materiali. Sullo sfondo, si delinea la prospettiva di un destino ultramondano: contro Pomponazzi, Cardano indugia infatti sulle ragioni che accreditano l’ipotesi dell’immortalità come «palingenesi» ricorrente (Canziani 2010; J.M. García Valverde, Introduzione a G. Cardano, De immortalitate animorum, 2006, pp. 11-18; I. Maclean, Cardano on the immortality of the soul, in Cardano e la tradizione dei saperi, 2003, pp. 191-207). Cardano sostiene – ed è arduo seguirlo – che questa ipotesi rappresenti un’originale interpretazione della dottrina cristiana; ritiene inoltre che essa corregga e riassuma diverse tesi filosofiche, dando espressione al riconoscimento della presenza di un quid divino nella natura dell’uomo e a una fede intima che, se non si impone a tutti con eguale cogenza, appare però, a un tempo, connessa con i gradi più elevati della sapienza e vantaggiosa per la migliore conduzione della vita mondana. Già nel De sapientia Cardano aveva affermato:
Se anche non vi fosse affatto una vita dopo la morte, la ferma speranza in una cosa tanto gioconda e diuturna sarebbe superiore a qualunque altra felicità umana (De sapientia, cit., p. 26).
Mentre nelle pagine dell’autobiografia avrebbe in seguito scritto:
E ora dirò qualcosa di più: sono felice al massimo grado, perché so che la nostra natura è partecipe della divinità. Se a uno che fosse in pericolo di morte si annunciasse che sopravvivrà per quindici anni come ‹avvenne› al re Ezechia, non ne sarebbe lieto? […] Ma ammetti che fosse per sempre: che cosa potrebbe chiedere o sperare di più? Chi al contrario vive fuori da questa speranza, si priva di due beni veri: della speranza e del frutto che l’accompagna. Se dunque a Dio piacque che nella mortalità noi fossimo partecipi dell’immortalità, è cosa indegna trascurare quanto ci è stato donato gratuitamente e stimare diversamente la nostra condizione (De propria vita, cit., XLVI, p. 44a).
E tuttavia questa condizione, nelle sue dinamiche mondane, esige una considerazione realistica e disincantata: è il tema del Proxeneta (A. Grafton, Introduzione a G. Cardano, Il prosseneta ovvero della prudenza politica, 2001, pp. XXI-XLV; cfr. inoltre L. Guerrini, Tamquam in tabula depicta: umanesimo e tendenze paganeggianti in “Proxeneta”, e M. Jalón, El “Proxeneta” como sinopsis de Cardano: perspectiva científica, in Cardano e la tradizione dei saperi, 2003, pp. 335-62 e pp. 363-83). Sottolineando la priorità che spetta alla conoscenza della natura umana, Cardano avvia qui l’indagine con una premessa significativa: se non ci si potesse riferire alla provvidenza e alla benignitas di Dio, risulterebbe incomprensibile il motivo per il quale sia buona cosa essere nati, visto che il genere umano è un peso per tutti gli altri animali, e per se medesimo è causa delle più grandi calamità (Proxeneta, cit., VI, p. 368a). La stessa societas, l’insieme delle relazioni di cui è intessuta la convivenza umana, è «come un corpo pesante di per sé» (XL, p. 387a), una soma aggiuntiva che grava su ognuno e che può essere alleviata grazie ad amicizie e sostegni: da qui il rilievo attribuito alla figura del «prosseneta», ossia della persona che, nei differenti contesti sociali e rispetto alle esigenze più varie, sia in grado di assecondare la realizzazione dei nostri desideri.
L’arte prossenetica esposta nei centotrentadue capitoli dell’opera si costituisce attraverso un’analisi il cui criterio primario non consiste nella valutazione morale, ma piuttosto nell’efficacia dell’azione e delle scelte praticabili in un ambiente segnato dal prevalere dell’inganno e della sopraffazione reciproca, secondo una considerazione degli uomini e del mondo che se, da un lato, ha grandi precedenti nella letteratura umanistica, da Leon Battista Alberti a Niccolò Machiavelli, dall’altro, pur nella radicale differenza dell’impianto teorico, rinvia per assonanza a certe pagine hobbesiane. «La vita umana, nella sua interezza, non è che una battaglia» (tota vita humana pugna una est), «non si può avere nulla se non strappandolo a un altro, o alla speranza e alla volontà di un altro» (LI, p. 394a); esattamente come in battaglia o nelle contese civili, così «nelle singole azioni» e nell’«intero corso della vita» è necessario «soppesare le proprie forze, dell’animo, del corpo, delle ricchezze, degli amici, della condizione e della vita» (LI, p. 393b) e confrontarle con quelle degli avversari, per non impegnarsi in imprese cui non si è adeguati, essendo per altro inteso che il miglior modo per consolidare una posizione acquisita consiste nell’ampliare il proprio campo di influenza nella contentio con i propri simili:
Quando tu abbia quasi acquisito il primato in qualcosa, ti impegnerai in un’altra attività: se ad esempio sarai professore e medico, e tutti ti saranno inferiori nell’insegnare, entrerai in competizione nell’esercizio della medicina, infatti, quale che sia l’oggetto del contendere, non può non portare incremento alla tua posizione (XXVI, p. 370b).
Secondo la «prudenza civile», si deve assumere – ma l’accentuazione retorico-pedagogica è forte in certe pagine cardaniane – che gli uomini siano tutti «pessimi» ex aequo, pur se ognuno a suo modo: le differenze effettive attengono all’età, all’educazione, alla stirpe (gentium natura), infine alla famiglia e al sesso. I vizi peggiori e più diffusi sono la crudeltà, l’avarizia e l’ambizione, e se è vero che le persone colte agiscono e parlano in modo più misurato, questo accade «non perché siano migliori, ma perché hanno più paura, sono rattenute da leggi più restrittive e hanno maggiori riguardi (verecundia)» (VI, p. 361a/b). Cosicché il fare del bene e la lealtà (beneficium ac fides) poggiano non già su principi morali, ma in misura preponderante su passioni o disposizioni dell’animo: l’amore (verso parenti, partner sessuali, compagni di gozzoviglie), la gloria, la cupidigia, l’utilità, l’ingenuità, la paura o, per ultima, la sapienza (VI, p. 361b). L’arte del vivere si attiene alla considerazione della media degli uomini e della miseria attestata sia dall’osservazione dei costumi sia dallo studio della storia. La virtù rappresenta una difesa per il singolo che sia investito dalla prepotenza altrui, ma nulla lascia sperare che essa possa estinguere la sopraffazione.
Nelle espressioni più elevate della sapienza cardaniana la virtù è la mediazione grazie alla quale ci è dato assumere una progressiva distanza dalle cose e dagli interessi materiali, sino alla scelta, significata nel Theonoston, di recedere dalla condizione di civis per attingere a quella dell’eremita. Alle virtù spetta del resto un ruolo centrale nell’educazione dell’individuo destinato alla società e le più «necessarie» tra esse, secondo il Proxeneta, sono la pazienza, il consilium o prudenza paziente, e l’efficacia, strettamente connessa a quella forza e audacia, grazie alle quali si riesce a profittare delle occasioni che ci si offrono. Quindi Cardano prosegue:
Bisogna vivere secondo virtù, oppure far mostra di vivere in quel modo, e se nemmeno di questo si è capaci, si cerchi almeno di non essere sorpresi nella pratica di quei vizi, che intralciano le relazioni con gli altri (VI, p. 366a).
La prudenza civile ha insomma limiti estremamente comprensivi e sfumati, perché non può prescindere dalla dimensione retorica e dai modi della rappresentazione di sé vigenti nel teatro del mondo; non senza coerenza, quella prudenza comprende anche forme di inganno quali la simulazione, la dissimulazione e la persuasione, che è a sua volta un «genus fallendi» (LII-LIV, pp. 394a-401a). E in un simile contesto, la locuzione scientia animi è usata a indicare la capacità «grande e quasi divina» che consiste nel saper discernere le disposizioni interiori del prossimo attraverso l’interpretazione delle parole, dei gesti, del volto e dei comportamenti, dei segni delle emozioni, delle scelte stilistiche nella scrittura di una lettera: una sorta di divinazione attraverso tecniche fisiognomiche ed ermeneutiche intese a smascherare l’altro o a mascherarsi – l’occulto, infatti, pervade l’esistenza di ogni giorno, dalla sfera pubblica a quell’economia domestica, che pure richiede di saper gestire le relazioni con parenti, amici, prosseneti, servi. Ovunque campeggia la finzione interessata:
Pensa che tutto ciò che è umano si deve a cose false, intendo i regni e ogni tipo di potere. Questo è il libro del Prosseneta e non riguarda il retto modo del vivere o il suo lato divino, né il sommo bene. Se sarai timoroso, altri non lo saranno o tu giacerai prostrato delle loro scelleratezza […]. Svegliati dunque [...] (XCII, p. 435b).
Infatti, pochissimi tra i mortali mostrano tracce di umanità e i più si conducono come bestie feroci, quasi dovessero combattere per la vita con tutte le loro forze e la loro intelligenza (LXVIII, p. 407b).
Una sorta di stato di natura hobbesiano serpeggia nella societas. Viene da supporre che al mantenimento di una simile convivenza presieda una legge provvidenziale o naturale: sembra infatti che la violenza possa giungere sino a certi vertici per poi ripiegarsi su se stessa, come le onde del mare, permettendo un’instabile ricomposizione (LXVIII, p. 407b). Sebbene escluda dall’educazione alla virtù gli scritti disonesti (improba) di Machiavelli (XVI, p. 366b), Cardano ne assume l’insegnamento (Di Rienzo 1988, pp. 25-60; A. Ingegno, Cardano tra “De sapientia” e “De immortalitate”. Ipotesi per una periodizzazione, in Girolamo Cardano. Le opere, le fonti, la vita, 1999, pp. 61-79) e in certo modo ne estende la portata alla societas: la fluidità delle regole non è un’esclusiva del principe o della ragion di Stato, né della vita di corte, esaminata da Baldassarre Castiglione. Certo, nella considerazione della realtà effettuale il margine dell’ammissibile in funzione di fini rispondenti ai compiti di chi eserciti il potere politico raggiunge limiti inquietanti: in un’opera tra le sue più originali, l’Encomium Neronis, Cardano si sofferma sull’assassinio di Agrippina minore e scrive:
O in nessun caso in passato è mai stato lecito uccidere la propria madre, e allora ammetto che ‹Agrippina› fu uccisa ingiustamente; oppure è accaduto che sia stato ‹lecito› (e lo fu per Oreste addirittura dietro suggerimento di Apollo), e allora mostreremo che per Nerone fu lecito al massimo grado (Cardanos Encomium Neronis, hrsg. N. Eberl, 1994, p. 116).
Ha presente il proprio mondo, Cardano, quando afferma che «nostris temporibus» i fattori coesivi dell’humana congregatio si sono quasi tutti dissolti e quando, non senza infierire sulla corporazione cui appartiene, aggiunge che «la malizia è invero arrivata al colmo e solo il denaro e l’ambizione vengono onorati, o come radice o come frutto», secondo un’attitudine diffusa al massimo grado fra i chirurghi, che curano solo chi ha di che pagarli, insieme ai medici e ai farmacisti, ma condivisa dagli avvocati, dai giureconsulti, dai soldati e dai cattivi sacerdoti; poi dai mercanti e dagli artigiani, e infine tra i nobili, i principi e i politici (Proxeneta, cit., LXVIII, e LXIX, p. 408b). Sarebbe tuttavia fuorviante ridurre la deprecazione dei mala tempora a una circoscritta contingenza storica, né entro questi limiti si lascia racchiudere quanto Cardano afferma riguardo a quella causa dell’infelicità umana che consiste nel vivere in uno Stato spinto al naufragio dalla perversione delle proprie leggi (De propria vita, cit., XLXI, p. 47a). In un testo rimasto inedito aveva scritto al riguardo:
Gli uomini che si trovino a vivere sotto principi o magistrati ingiusti, saranno più infelici delle bestie, perché patiranno i loro medesimi disagi e pericoli, sapendo di patirli e subirli, e non c’è infelicità peggiore (in M. Baldi, G. Canziani, Dalla ‘secunda editio’ del “De utilitate”, cit., p. 502)
Le buone leggi possono essere piegate a qualsiasi disegno da giudici malvagi e i cittadini incolpevoli saranno allora perseguitati «nel nome e sotto le sembianze dell’equità e della giustizia» (sub aequi et iusti titulo atque specie) (p. 503). Se il realismo impone di riconoscere il peso che violenza e prevaricazione hanno nelle cose umane, la prudenza civile richiede non già che questa lucidità cancelli ogni discrimine, ma che ci si sforzi almeno di coniugare il criterio morale con ragioni pragmatiche, alla ricerca di una conciliazione tra istanza morale ed efficacia pratica, che nel mondo non è perseguibile se non nella forma di un’approssimazione imperfetta. Tutto ciò che attiene alla condizione umana ha il carattere della problematicità: è il campo infinito dell’esercizio della sapienza dai molti volti, cui spetta la scelta del tipo di vita che si intende trascorrere e dei modi secondo i quali attuarlo. Della executio, ossia della modalità dell’agire, Cardano, con evidenti reminiscenze machiavelliane, afferma:
Si dice che operiamo nel migliore dei modi quando agiamo con prontezza e compiutezza, con dispendio, fatica e sommovimenti moderati, occultamente, infine, e in maniera quasi inattesa (Proxeneta, cit., LX, p. 403a).
Una definizione dell’executio optima che di nuovo, e per una precisa necessità, si costituisce sulla base della sospensione della considerazione morale.
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