Girolamo Savonarola
Girolamo Savonarola appartiene a quella schiera di predicatori e riformatori religiosi che segnarono il passaggio della cultura spirituale e politica italiana alla prima età moderna. La centralità della sua figura consiste nell’aver coniugato la motivazione religiosa con una forte partecipazione alle vicissitudini storiche di Firenze. A dar consistenza e forza ai suoi interventi giovarono sia la lezione di Tommaso d’Aquino sulla politica come massima esperienza pratica della ragione umana sia la sua capacità di tradurre quella lezione teorica nel contesto storico in cui si trovò a operare; entrambi questi fattori furono rafforzati da un’illuminazione profetica, che egli ritenne di possedere e della cui realtà riuscì, come scrive Niccolò Machiavelli, a convincere i fiorentini.
Girolamo Savonarola nasce a Ferrara il 21 settembre 1452, terzogenito di Niccolò ed Elena Bonacossi e nipote di Michele, medico di fiducia della famiglia ducale. Iscritto alla facoltà delle Arti dello Studio ferrarese nel 1473, due anni dopo fugge a Bologna e qui, nel convento di San Domenico, fa la sua professione di fede entrando nell’ordine dei predicatori. Maestro dei novizi nel convento di Santa Maria degli Angeli di Ferrara nel biennio 1478-79, viene successivamente inviato in Toscana con il compito di esporre la Sacra Scrittura ai novizi nel convento di San Marco e di predicare nella basilica di San Lorenzo a Firenze. Per quanto, stando alle fonti coeve, la sua predicazione riscuotesse uno scarsissimo successo, questo primo soggiorno fiorentino fu segnato dalla visione profetica di un imminente flagello che avrebbe colpito la Chiesa e la cristianità, e di ciò troviamo traccia nelle prediche quaresimali che tenne a San Gimignano nel 1485 e nel 1486. Richiamato a Bologna nel 1487 come maestro nel convento di San Domenico, nel biennio successivo predicò in varie città dell’Italia settentrionale ed ebbe modo di toccare con mano le disastrate condizioni di vita di quelle popolazioni, al di là della apparente magnificenza delle corti signorili.
Nel maggio del 1490, su richiesta esplicita di Lorenzo de’ Medici e su suggerimento di Giovanni Pico della Mirandola, ritornò a Firenze, sempre nel convento di San Marco, divenendone priore nel 1491 e riuscendo a renderlo autonomo nei confronti della Provincia domenicana di Lombardia (1493). Durante la discesa di Carlo VIII di Francia (1494), convinse il re a evitare il saccheggio della città e divenne il principale fautore di un radicale mutamento dello Stato in senso popolare: istituzione di un Consiglio maggiore di ispirazione veneziana, legge di pacificazione tra le fazioni, diritto di appello per i condannati in nome di una giustizia ‘giusta’. Dopo una breve sospensione dovuta ai ripetuti attacchi contro la corruzione ecclesiastica, da lui indicata come la causa prima della rovina d’Italia, papa Alessandro VI acconsentì a una ripresa della sua attività di predicatore (1496). Ma gli attacchi alla corruzione della Chiesa di Roma non cessarono anzi si intensificarono allorché gli fu offerta, in cambio del silenzio, l’elezione a cardinale. Il rifiuto di Savonarola indusse il pontefice, il 7 novembre 1496, a sciogliere la neonata Congregazione di San Marco e a imporne l’incorporazione in quella tosco-romana, e, il 12 maggio 1497, a scomunicare Savonarola per eresia e disobbedienza vista la sua determinazione a mantenere l’autonomia di San Marco.
La scomunica segna un punto di non ritorno nella vicenda savonaroliana. Malgrado la scomunica e le censure e minacce di ritorsioni papali, il governo, sino al febbraio del 1498, si mantenne favorevole al frate, tanto che egli continuò a predicare in cattedrale contestando, a norma di diritto canonico e con il sostegno del nipote di Giovanni Pico, Giovan Francesco, la validità degli atti di Alessandro VI per vizi di forma e di sostanza. Ma il 28 febbraio mutò la Signoria e prese il sopravvento il partito dei suoi oppositori, ingrossato dai nuovi provvedimenti messi in opera, il 18 marzo, dal pontefice, ossia l’arresto dei mercanti fiorentini presenti a Roma e la confisca dei loro beni. Fallita il 7 aprile la prova del fuoco, a cui i seguaci di Savonarola erano stati sfidati dai francescani di Santa Croce, il giorno seguente tutti i suoi oppositori dettero l’assalto al convento di San Marco, arrestarono il frate e lo condussero nel carcere dell’Alberghetto in Palazzo Vecchio. Interrogato e sottoposto alla tortura della corda dal 9 al 17 e, in un secondo momento, dal 21 al 24 aprile, la Signoria, dopo aver rifiutato di consegnarlo al papa, concordò con Alessandro VI che il processo ecclesiastico si svolgesse a Firenze e qui fosse eseguita la sentenza. Di fronte ai commissari pontifici, Savonarola fu nuovamente sottoposto a interrogatorio e tortura dal 20 al 22 maggio, dopo di che, insieme ai confratelli e seguaci Domenico Buonvicini e Silvestro Maruffi, venne condannato come eretico e scismatico, oltre che come predicatore di pericolose novitates, e consegnato al braccio secolare. Il 23 maggio, insieme ai suoi compagni, Savonarola fu impiccato in Piazza della Signoria, il suo corpo bruciato e le ceneri sparse in Arno.
Girolamo Savonarola occupa una posizione centrale nella storia fiorentina e italiana di fine Quattrocento e prima metà del Cinquecento, sia per l’influenza esercitata nella concreta vita politica e istituzionale di Firenze sia per l’ispirazione riformatrice e rigorista della sua predicazione che, in vita e dopo la morte, raccolse proseliti anche in virtù della diaspora cui furono costretti i religiosi che da lui avevano ricevuto l’abito. Ma proprio per questo, forse, il giudizio – non privo di cambiamenti di rotta o addirittura capovolgimenti – dei contemporanei, come quello della storiografia successiva, si caratterizza per una certa rigidità delle posizioni, pro o contro il frate di San Marco, a seconda che, nell’analisi, se ne privilegi l’aspetto politico o quello religioso.
Uno storico coevo, Piero di Marco Parenti, descrivendo la situazione della città dopo l’accettazione da parte di Piero de’ Medici delle condizioni poste da Carlo VIII per risparmiare la città, scrive che
disegnato le nostre fortezze in potestà venire del re di Francia, ciascuno avvedersi cominciò come perduto avamo la libertà. Varii variamente si doleano: e’ principali d’avere lo stato perso, e’ mediocri che sanza loro colpa e per errore d’altri la città ruinata fussi (P. Parenti, Storia fiorentina, a cura di A. Matucci, 1° vol., 1994, p. 115).
e che tutte le speranze in quel frangente erano riposte in Savonarola, «bonissimo servo di Dio, […] profeta riputatosi, con ciò sia tanto apertamente tanta calamità predicessi» (pp. 115-16). In seguito però, allorché il frate sostenne il progetto di una riforma costituzionale di ispirazione veneziana, e riuscì a farlo approvare, con un Consiglio maggiore al quale facessero capo tutti gli uffici e le magistrature, il giudizio dello storico cambiò radicalmente, e tutta la sua attività è ridotta a ipocrisia, pura «ambizione e sottile superbia» e desiderio di potere (2° vol., 2005, p. 171), per concludere che
incompensabile fu el danno ricevutosi per questa città da’ sopradetti frati [scil. Savonarola, Buonvicini e Maruffi, i tre giustiziati il 23 maggio 1498]: fecionci espendere inutilmente grandissimo tesoro, tennonci la città divisa, e occasione furono della morte e disfazione di molti nostri cittadini (p. 181).
Un giudizio in due tempi e con accenti molto diversi tra loro quello del Parenti, che rivela come la pregiudiziale politica oscurasse l’aspetto spirituale, ridotto a mero strumento di potere.
Passando, per fare un altro esempio, a Machiavelli, del quale si ricorda sempre, a proposito di Savonarola, il ghigno beffardo del disincantato uditore delle prediche e la sua affermazione sui profeti disarmati (cfr. Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, III, 30 e lettera a Ricciardo Becchi, 9 marzo 1498, in N. Machiavelli, Tutte le opere, a cura di M. Martelli, 1971, pp. 237 e 1010-1012), si dovrà pur tener conto anche delle attestazioni di stima per la dottrina, la vita e, forse, un qualche dono profetico (cfr. Discorsi, cit., I, 11 e 45, pp. 94 e 127). L’azione politica da un lato, la fascinazione religiosa dall’altro, due ambiti e due diverse valutazioni.
Con Francesco Guicciardini, ed è l’ultimo esempio, lo scenario muta ancora, con il trascorrere del tempo e, con in mezzo, il ritorno al potere dei Medici dopo il triennio 1527-30. Dopo aver parlato della morte infamante del frate, lo storico in un primo tempo esprime un giudizio assolutamente positivo, ponendo sullo stesso piano la figura morale del frate e l’uso che egli aveva fatto della sua influenza:
non sarà fuora di proposito parlare più prolissamente delle qualità sua; perché nella età nostra, né anche e’ nostri padri ed avoli non viddono mai uno religioso sì bene instrutto di molte virtù né con tanto credito ed autorità quanto fu in lui. […] Cacciato Piero e fatto el parlamento la terra rimase molto conquassata […]. Lui solo fermò questi impeti e movimenti, introdusse el consiglio grande e così messe una briglia a tutti quegli si volevano fare grandi; lui pose l’appello alla signoria che fu un freno da conservare e’ cittadini; fece la pace universale, che non fu altro che tôrre occasione di punire quegli dello stato de’ Medici sotto colore di ricercare le cose vecchie. Furono sanza dubio queste cose la salute della città e, come lui verissimamente diceva, la utilità e di quegli che nuovamente reggevano e di quegli che per l’adrieto avevano retto (F. Guicciardini, Storie fiorentine, a cura di R. Palmarocchi, 1931, pp. 156-59).
Un ritratto che si fa più distaccato dopo la caduta dell’ultima repubblica, e non privo di qualche accento critico per quanto attiene all’estensione della partecipazione al potere di una larga parte del ceto medio che, a suo avviso, rendeva di difficile praticabilità un’azione di governo. Ma è tuttavia interessante rilevare la chiusa del capitolo dedicato al frate, nel quale, con un linguaggio che potremmo definire burocratico, Guicciardini descrive le varie fasi dei processi, degli interrogatori laici ed ecclesiastici e delle torture («non molto gravi», [sic]) che indussero Savonarola a rinnegare l’origine divina delle sue profezie e a ricondurle a una personale opinione di studioso del testo sacro, divulgata a fin di bene per una Chiesa martoriata dalla corruzione e bisognosa di riforma.
La quale morte, sopportata con animo costante ma senza esprimere parola alcuna che significasse o il delitto o la innocenza, non spense la varietà de’ giudici e delle passioni degli uomini; perché molti lo reputorono ingannatore, molti per contrario credettono o che la confessione che si publicò fusse stata falsamente fabricata o che nella complessione sua, molto delicata, avesse potuto più la forza de’ tormenti che la verità; scusando questa fragilità con l’esempio del principe degli apostoli, il quale, non incarcerato né astretto da’ tormenti o da forza alcuna estraordinaria ma a semplici parole di ancille e di servi, negò di essere discepolo di quello maestro nel quale aveva veduto tanti santi precetti e miracoli (F. Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, 1971, III, 15, p. 337).
L’accenno all’apostolo è in realtà un richiamo, implicito ma chiarissimo, all’Expositio in psalmum Miserere mei, Deus, che Savonarola scrisse negli ultimi giorni della sua prigionia, in attesa dell’esecuzione:
Pietro mi ha insegnato quanto sia grande la nostra debolezza. Egli ti ha visto, Signore Gesù, con i suoi occhi e ha vissuto con te nella più grande familiarità; […]. Ma quando una serva gli disse: “Tu sei uno di loro”, lui, atterrito, negò. Gli si avvicinò poi un’altra serva, e disse anche lei: “È vero, tu sei uno di loro”, e di nuovo negò e fuggì, non potendo sostenere lo sguardo di una donnetta. Come avrebbe potuto sostenere quello di re e tiranni? […] E le loro furono solo parole. Che cosa, dunque, avrebbe fatto se i Giudei lo avessero sottoposto alla tortura? (Expositio in psalmum Miserere mei, Deus, in G. Savonarola, Operette spirituali, a cura di M. Ferrara, 2° vol., 1976, pp. 220-21).
Quest’operetta ebbe un’immediata diffusione e fortuna (tra l’altro fu pubblicata e commentata da Martino Lutero) e il tacito rinvio a essa da parte del Guicciardini sta a dimostrare la sua continua attenzione per le cose del frate e, al di là delle riserve sul piano politico, il suo rispetto per la sincera dimensione religiosa che lo aveva reso protagonista della storia della sua città adottiva, della quale aveva comunque sorretto e interpretato l’ideale di libertà dalla tirannide.
In realtà, è Savonarola stesso che sin dall’inizio nella sua produzione letteraria ci indica la direttiva fondamentale della sua vita sino alla tragica fine. Ancora prima del suo ingresso nell’ordine dei predicatori, probabilmente grazie all’influenza esercitata su di lui dal nonno Michele, medico non solo dei corpi ma anche delle anime dei poveri, il giovane Girolamo scrive due canzoni significativamente intitolate De ruina mundi e De ruina ecclesiae (cfr. Poesie, a cura di M. Martelli, 1968, pp. 3-9), in cui esprime tutto il suo disgusto per la società del tempo: l’individualismo arrogante e superbo dei grandi, la lussuria e la brama di potere sia dei laici sia degli ecclesiastici, che, entrambi, tradiscono il compito cui sono chiamati, e cioè la ricerca e la realizzazione del bene comune da una parte e, dall’altra, la carità senza la quale non c’è fede vera. La società umana e la Chiesa: due mondi distinti ma non separati, anzi strettamente uniti e conseguenti l’uno con l’altro. Vestito l’abito domenicano, Savonarola nel convento bolognese di San Domenico incontra colui che sarà, da allora in poi, la sua guida e il suo maestro, Tommaso d’Aquino, il maestro dell’ordine, soprattutto per quanto riguarda la fedeltà al senso profondo di una Scrittura – che arriva a conoscere quasi a memoria e che parla al cuore e alla mente di ogni uomo disposto ad ascoltarla – e la fiducia nella recta ratio che ci consente di conoscere il fine cui siamo chiamati e di approntare i mezzi concreti per realizzarlo.
Un testo che sicuramente deve aver suscitato il massimo interesse nel giovane frate è la Quaestio de prophetia dell’Aquinate, in cui con il rigore e la chiarezza che gli erano propri Tommaso aveva illustrato gli elementi fondamentali del messaggio profetico: l’assoluta gratuità del dono della profezia, gratia gratis data ad utilitatem ecclesiae, l’autocertificazione dell’illuminazione da parte del prescelto e la necessità, da parte di quest’ultimo, di esporre il messaggio nei tempi e con le modalità opportune perché esso fosse recepito in tutto il suo significato; infine, la capacità conferitagli di penetrare tanto il significato riposto della Scrittura quanto dei signa divini (Quaestio de prophetia, in Divi Thomae Aquinatis, Quaestiones disputatae, 1° vol., De veritate, cura et studio P.Fr.R. Spiazzi, O.P., 196410, pp. 234-66). Un insieme di elementi che si manifestarono dopo le prime insoddisfacenti prove di predicazione a Firenze, agli inizi degli anni Ottanta, quando Savonarola si era quasi deciso ad abbandonare definitivamente il pulpito. Come narra un suo sostenitore:
Fu dipoi la prossima quaresima eletto a predicare in S. Lorenzo; e, perché né in gesti né in pronunzia satisfece quasi a nessuno, in modo che mi ricordo, avendo udito tutta la quaresima, all’ultimo restammo fra uomini, donne e fanciulli manco di XXV; onde vedendo questo, e anco essendoli detto da altri secondo che li udi’ dire di poi più volte, al tutto deliberò di lassare stare il predicare e seguitare il leggere (Epistola di fra Placido Cinozzi, in P. Villari, E. Casanova, Scelta di prediche, 1898, p. 11).
Fu in quel momento, come è dichiarato nel verbale del primo processo dallo stesso Savonarola, che egli pervenne alla conclusione che doveva cambiare la sua vita e dare inizio a una forma di predicazione tale da consentirgli di intervenire direttamente nel contesto sociale e politico; e in effetti nei quaresimali di San Gimignano del 1485 e del 1486 troviamo le prime tracce esplicite dei temi che saranno al centro dei grandi cicli di prediche del 1494-98:
La verità si è questa: che circa XV anni fa, essendo io nel monasterio di Santo Giorgio, la prima volta che io fui a Firenze con fra Tommaso Strada, che è morto, el quale parlava a una sua sorella monaca, et in quel tempo in chiesa io pensavo di componere una predica e nel pensare mi vennano alla mente molte ragioni, circa et per le quali si mostrava che alla Chiesa era propinquo qualche fragiello. Et da quel punto in qua cominciai molto a pensare simil cose et molto discorsi le scripture. Et andando a San Gimigniano a predicare cominciai. In dua anni che fui, predicai proponendo queste conclusioni: che la Chiesa haveva a essere fragellata et rinnovata (I processi di Girolamo Savonarola (1498), a cura di I.G. Rao, P. Viti, R. Zaccaria, 2001, p. 4).
Vi è però un altro aspetto importante della sua formazione tomistica che è necessario mettere in risalto: quello concernente la stretta correlazione tra felicità terrena e beatitudine eterna. A Tommaso si deve, pur nella frammentarietà dei suoi scritti sulla politica e lo Stato, l’individuazione della maniera di uscire dalla concezione agostiniana che, bene o male, aveva condizionato la riflessione di carattere politico sino alla traduzione e diffusione della Politica aristotelica. Per l’Aquinate la politica costituisce la principale e più importante delle scienze pratiche in quanto concerne la realizzazione da parte dell’uomo di quelle conoscenze che tendono a realizzare il fine cui tende la natura umana, di un uomo che è «animal sociale et politicum»: il pieno dispiegamento della ragione naturale e il conseguimento di una vita degna di essere vissuta. Savonarola coglie in pieno il significato profondo di questa concezione e punta proprio alla realizzazione di una società civile fondata sul diritto, cioè sull’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, perché non si debba più parlare di una giustizia venduta.
Quando, come Maestro dei novizi nel convento di San Marco, gli fu affidato il compito di istruire i futuri confratelli nelle arti liberali, scrisse per loro dei manuali di logica, filosofia naturale e filosofia morale che, a eccezione del primo da lui curato e dato alle stampe, godettero di una notevole diffusione manoscritta per essere poi stampati nel 1534 a Venezia da Aurelio Pincio. Il decimo libro del compendio di filosofia morale è dedicato alla politica ed è una sintesi, succinta ma molto fedele, del De regno dell’Aquinate (De regimine principum ad regem Cypri (De regno), cura et studio P.Fr.R. Spiazzi, O.P., 1973, pp. 253-358) e in esso si affronta, già a questa altezza cronologica, la questione della migliore forma di governo e del pericolo costituito dalla sua possibile degenerazione. In questo testo, infatti, Savonarola ripropone le tesi aristotelico-tomiste dell’evoluzione naturale delle forme di aggregazione umana, dalla famiglia alla civitas come comunità perfetta e autosufficiente, operando altresì nella conclusione una sintesi con le descrizioni del perfetto governante proprie della letteratura degli specula principum sin dall’età carolingia e contestualmente dando spazio alla definizione del tiranno, come figura specularmente negativa a quella dell’ottimo governante, e al problema della sua eliminazione. Di ciò il frate parla, esplicitamente, nella ventitreesima conclusione del decimo libro, e vale la pena di soffermarsi su questo punto per chiarire un equivoco di non poco conto.
Sia l’autografo sia la tradizione manoscritta contemporanea e posteriore, in realtà, ci consentono di mostrare che proprio il significato di quella conclusione fu rimaneggiato dall’editore, probabilmente per un’attenzione particolare alla situazione politica fiorentina determinatasi in seguito al fallimento della repubblica savonaroliana del 1527-30. Il testo, sin dal titolo, Contra tyrannum est procedendum publica auctoritate, esprime con chiarezza il pensiero del frate. A suo avviso, infatti, in presenza di un governo tirannico, non spetta al singolo farsi giustizia da solo, perché ciò porrebbe il tirannicida sullo stesso piano, privatistico, del tiranno, oltre a porlo in opposizione a Dio dal quale discende l’ordine di tutti i poteri, secondo quanto affermato dalle lettere degli apostoli Pietro e Paolo. Perché un’azione possa dirsi politica deve rivestire un carattere pubblico e riferirsi a un potere, anch’esso ordinato e che può tenere il locum Dei. Questa superiore istanza potestativa appartiene di diritto al popolo medesimo, in virtù di una lex regia che agli occhi del frate assume quasi un valore contrattualistico, qualora il regno o la comunità si configuri come una formazione statuale indipendente; oppure a un signore superiore, come, per es., l’imperatore nei confronti dei re o il re nei confronti dei suoi nobili, detentore in quanto tale della summa imperii. Nel caso che né l’una né l’altra di tali istanze siano in grado di deporre il tiranno (deporre, non uccidere), non resta altro da fare che rivolgersi a Dio con la preghiera, perché provveda egli stesso, in quanto fonte originaria di ogni realtà creata e detentore ultimo della summa totius imperii et plenitudinis potestatis.
Fin qui il testo savonaroliano non presenta particolari novità, se non per quell’accenno al popolo come depositario del potere originario che collega sin da adesso il frate a quella corrente del pensiero politico, in particolare domenicano, che aveva posto l’accento sulla necessità del consenso popolare alle forme di governo in nome del raggiungimento di quel bene comune che ne giustificava l’esistenza. Ma dopo l’appello alla preghiera, il frate aggiunge qualcosa di più. Egli scrive infatti: «vel aliter melius providendum». A parte la singolarità di una simile affermazione, che suggerisce l’esistenza di un modo migliore di procedere rispetto al ricorso a Dio, ciò offre lo spazio al curatore dell’edizione a stampa per inserire un inciso molto significativo. Infatti, facendo ricorso al valore del consenso popolare, e alla natura contrattualistica del rapporto tra governante e governati in vista del fine da perseguire, questi inserisce la liceità del ricorso all’uccisione ‘privata’ del tiranno. Tutto ciò che il frate aveva scritto fino a quel punto poteva essere accolto nel caso che il tiranno avesse acquisito legittimamente il potere; nel caso invece che esso fosse stato usurpato con la violenza o con l’inganno, in questo caso specifico l’azione del singolo verrebbe a configurarsi come un’azione di guerra, di guerra ‘giusta’ anzi, e quindi l’uccisione, e non più la deposizione, del tiranno assume la connotazione di un atto meritorio, di liberazione della patria, necessario in assenza di alternative praticabili e qualora non comporti l’insorgere di pericoli maggiori. Quest’ultima osservazione, perfettamente in linea con il pensiero dell’Aquinate, ad es., permette poi di suturare l’inciso non savonaroliano con l’ultima parte della conclusione, che pone l’accento sulla pericolosità delle rivolte popolari e sull’opportunità di sopportare il danno per quanto è possibile. Ma vediamo il testo della conclusione nel suo insieme:
Così come a nessun individuo è concesso di uccidere un uomo e farsi giustizia da solo, così anche a nessun uomo privato spetta il diritto di uccidere un tiranno o di deporlo dal potere, poiché non è lecito opporsi all’ordine delle cose stabilito da Dio e contro di lui ha diritto a procedere solo chi ne fa le veci, e cioè chi detiene un potere pubblico. E questa facoltà risiede o nel popolo, se a lui spetta l’elezione del re, quando quest’ultimo non osserva i termini stabiliti dal patto elettorale, o in un potere superiore, se è questo che lo ha costituito. E se in questo modo non può essere deposto, si dovrà ricorrere, pregando, alla misericordia divina o si dovrà trovare una via diversa e migliore per provvedervi.
<Tutto ciò vale quando il dominio è stato acquisito con giustizia, ma se è stato usurpato con la violenza e contro il volere dei soggetti, magari costringendoli al consenso, qualsiasi cittadino può ucciderlo in quanto nemico pubblico, poiché in tal caso il popolo ha con lui una guerra giusta da combattere. Nel caso di una guerra giusta infatti chiunque può uccidere il nemico, per cui è lodato chi lo sopprime per la liberazione della patria, se non può aversi il ricorso a un potere superiore, e il tiranno può essere ucciso senza pericolo per l’insieme dei cittadini>. È infatti più utile talvolta sopportare il tiranno, in specie se non sia troppo grave il suo peso, che dar luogo a una insurrezione popolare, poiché così facendo molte volte si determinano pericoli e rivolte e, se non ha successo, va incontro a pericoli maggiori (G. Savonarola, Compendium philosophiae moralis, in Id., Scritti filosofici, a cura di G.C. Garfagnini, E. Garin, 1988, X, 23, pp. 469 e 576).
Una lettura analitica di questo passo ci mostra che in realtà Savonarola, parlando in termini generali, non aveva ritenuto necessario distinguere tra acquisizione legittima del potere e usurpazione violenta o fraudolenta di esso, e aveva classificato la tirannia sotto un’unica categoria concettuale. Il curatore dell’edizione a stampa, invece, richiamandosi al concetto di guerra giusta e al valore coattivo per le parti di un accordo stipulato consensualmente, può sostenere la liceità del tirannicidio facendo spazio sia al valore primario insito nel consenso liberamente espresso dai cittadini sia alla necessità di rispondere alle circostanze storicamente date; circostanze motivate sì dalla mancanza o latitanza di forme potestative superiori ma altrettanto dal diritto di ciascuno di farsi interprete della messa in discussione dei fondamenti del patto originario, che coinvolge la totalità e la singolarità degli aderenti.
Non v’è dubbio che l’aggiunta editoriale alteri la lettera dello scritto del frate, che in quella conclusione come in tutte le altre che compongono questo libro dedicato alla politica, resta fedele alla vulgata aristotelico-tomista, e ciò non desta meraviglia considerando le finalità didattiche dell’opera. Ma si dovrà purtuttavia notare che lo stesso Girolamo, in più di un caso, non perde occasione per accentuare, rispetto a Tommaso, la connotazione ‘naturale’ dell’uomo e dello Stato, parlando della civitas come della comunità perfetta per soddisfare le necessità dell’uomo, ente per natura socievole, in questa vita terrena: essa è infatti descritta come ciò che può consentirgli non solo di vivere ma di vivere bene, e ciò in virtù di un fatto fondamentale che è l’elaborazione della legge. In una comunità umana, infatti, le leggi costituiscono il codice normativo cui dovranno attenersi i cittadini e che avrà il compito specifico di indirizzare «coloro che non conoscono quale sia il bene indicato dalla ragione e il fine ultimo dell’esistenza umana» (pp. 458-59), ove è da sottolineare la connotazione razionalistica che si accompagna alla definizione del cittadino come dell’uomo che «che in quanto tale partecipa al governo della comunità politica, negli uffici e nelle magistrature quale che sia l’ordinamento che essa si è data» (p. 460). Un’espressione che richiama quanto sostenuto da un altro importante teologo tomista, Remigio dei Girolami, sostenitore dell’autonomia di Firenze da ogni potere superiore.
Uomini, dunque, in quanto cittadini, espressione massima, per usare una terminologia scolastica, della operatio propria di ogni essere razionale nell’ambito dell’agire pratico. E proprio per dare all’agire pratico il suo giusto valore, nella nona conclusione Savonarola fa un elenco delle varie parti che compongono la comunità, dai consiglieri ai magistrati, i mercanti, gli artigiani, i musici, i contadini e i soldati, a cui l’editore aggiunge i sacerdoti, tralasciati dall’autore. Si tratta di un’aggiunta significativa e che non tradisce il pensiero del frate quale si rivelerà nell’ultimo periodo della sua vita nel corso della sua battaglia contro la corruzione della Chiesa romana e delle sue propaggini fiorentine. Inserire i sacerdoti tra le parti di una comunità vuol dire infatti completare sì un elenco di ciò che è necessario a un tutto ben ordinato, ma anche ridurre l’importanza del clero nella struttura sociale: parte tra le parti e coordinata all’insieme, con un compito proprio e specifico, a scanso di indebite prevaricazioni (cfr. p. 461).
Vivere politicamente significa vivere insieme l’uno con l’altro come cittadini. Infatti una comunità politica non consiste in una semplice comune collocazione geografica, ma in una unione razionalmente consapevole, fatta di uomini diversi per bisogni e aspirazioni e che hanno deciso di stare insieme allo scopo di perseguire un sistema di vita completa e di per sé sufficiente (pp. 463-64),
ove la comunanza di vita sottintende non soltanto un mero stare assieme, ma uno stare insieme nella piena consapevolezza della diversità delle componenti e dell’unicità del fine.
Anche sulle diverse forme di governo, sul personale politico chiamato a reggere i singoli uffici e quindi sulle qualità più idonee a ciò il pensiero savonaroliano è molto vicino all’interpretazione tomista della Politica aristotelica, ma anche qui ne accentua un aspetto facendo proprio il risultato delle riflessioni suscitate dalla crisi dei poteri universali tra fine Duecento e la prima metà del Trecento, applicando alla valutazione delle forme di governo il correttivo delle peculiarità fisico-naturali dei vari popoli. Ciò lo induce sia a sostenere in maniera esplicita la necessità di governi diversi, che dovranno tener conto della storia pregressa, sia a non dare alcun peso a teorizzazioni di carattere universalistico. La discussione sulla miglior forma di governo in assoluto, quindi, diviene poco più che un esercizio retorico se calata nella realtà politica, perché quello che importa è l’organizzazzione politica reale, che tiene conto di peculiarità specifiche. Fermo restando che ciò che è ottimo in assoluto diviene pessimo qualora si volga al suo contrario: come la monarchia, esemplata sul governo di Dio, è in assoluto la miglior forma di governo, così la tirannide è certamente la peggiore, in assoluto e in particolare. E questo perché ogni forma di tirannia contraddice a quello che è il principio ispiratore di ogni e qualsiasi forma di vita associata: il bene comune, facendo prevalere l’egoismo privato (di uno o di molti, poco importa).
Per Savonarola, che sintetizza il capitolo settimo del primo libro del De regno di Tommaso, la colpa del tiranno è una colpa contro la legge istitutiva dello Stato e le sue finalità fondamentali, e solo chi, nello Stato, è depositario del primum ius o chi ne possiede legittimamente la delega, può intervenire per sanare una situazione corrotta. In ultima istanza, certamente, Dio stesso come causa prima e garante di ogni forma di potere ordinato, ma a maggior ragione può farlo la causa prossima di quel prodotto artificiale della ragione umana che è la comunità statuale.
Se questa è la posizione di Savonarola quale si può ricavare dalle sue lezioni di filosofia morale degli anni Ottanta, essa non sembra andare incontro a sostanziali modifiche nel Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze, scritto pochi mesi prima della morte, commissionatogli dalla Signoria e indirizzato a ben altri personaggi che i novizi di San Marco.
Articolato in tre libri di tre capitoli ciascuno, quest’operetta esamina nell’ordine l’ottima forma di Stato, la sua degenerazione e quella più adatta alla situazione fiorentina. Nella prima parte vengono ribadite le sue posizione sul vivere bene, sul bene comune e le considerazioni sul relativismo delle forme di governo che debbono tenere conto delle particolarità storico-fisiche di ciascun popolo. La questione si fa più interessante nel secondo libro, laddove al centro delle riflessioni savonaroliane si pone non tanto il governo tirannico in generale quanto piuttosto una figura ben determinata di tiranno, e cioè il cittadino che si fa tiranno, prevaricando sui suoi pari e piegando il potere ai suoi fini; quel che è peggio, questo cittadino degenere esplica la sua azione corrompendo, prima che gli uffici e l’assetto istituzionale, l’anima e lo spirito della cosa pubblica: con un’azione più subdola ma tanto più dirompente quanto meno appariscente. Si tratta di un uomo moralmente corrotto, privo di ogni virtù perché sprovvisto della virtù essenziale, indispensabile a chiunque si prefigga di esercitare un ruolo pubblico, la capacità di mirare al bene dei suoi simili nel nome di ciò che unisce tutti gli uomini al di là di ogni differenza, per cui «sotto el tiranno non è cosa stabile, perché ogni cosa si regge secondo la sua voluntà, la quale non è retta dalla ragione, ma dalla passione» (Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze, in Id., Prediche sopra Aggeo, a cura di L. Firpo, 1965, p. 465). È un rovesciamento completo dei fondamenti sui quali si deve reggere la città: la ragione che ci consente di individuare il fine, che illustra e fonda le motivazioni dello stare insieme; e non per niente già nel Compendium Savonarola aveva richiamato il dovere di educare gli «ignoranti», coloro che non conoscono né se stessi né l’obbligo di ogni essere razionale di governare e indirizzare le passioni.
A un cittadino che si fa tiranno, che mette a repentaglio l’essenza stessa dello Stato, come si può ovviare? Savonarola non parla esplicitamente, in questo contesto, della morte del tiranno, ma si richiama alla necessità di elaborare e far rispettare una legislazione che, allargando le capacità di controllo dello sviluppo della vita politica, non consenta in linea di principio neppure il sorgere di qualsiasi velleità tirannica, e qualora, malgrado tutto ciò, dovesse verificarsi una simile eventualità, allora si appella a un’implacabile e dura applicazione della normativa, in modo tale, quando è il caso, di non tener conto neppure delle garanzie previste dalla legislazione stessa. Leggendo queste pagine del Trattato viene spontaneo alla mente quanto il frate ebbe a dire, durante il terzo processo, ai commissari pontifici che lo interrogavano circa il suo atteggiamento nei confronti dei congiurati filomedicei dell’agosto 1497. Scoperti e trascinati in giudizio, cinque esponenti dell’aristocrazia fiorentina furono sbrigativamente condannati a morte e fu loro impedito di usufruire del diritto di appello, diritto, è da notare, per il quale Savonarola in prima persona si era battuto con estrema energia sin dall’inizio della sua predicazione politica. In questo caso, tuttavia, e malgrado le patenti violazioni della stessa legalità repubblicana e la commozione suscitata dalla condanna a morte emessa nei confronti di un giovinetto come Lorenzo Tornabuoni, egli non esercitò alcuna pressione. Come risulta dai verbali del processo,
et che quando voleva una cosa da Francesco, glene mandava a dire: “Io la voglio”. Quando non se ne curava, glene mandava freddamente (I processi di Girolamo Savonarola (1498), a cura di I. G. Rao, P. Viti, R. Zaccaria, 2001, pp. 36-37).
Si tratta di un episodio molto noto, anche grazie alle osservazioni che vi dedicò Niccolò Machiavelli, il quale anzi vi vide un segno del declino della fortuna del frate:
Essendo Firenze, dopo al 94, stata riordinata nello stato suo con lo aiuto di frate Girolamo Savonerola, gli scritti del quale mostrono la dottrina, la prudenza, e la virtù dello animo suo; ed avendo, intra le altre costituzioni per assicurare i cittadini, fatto fare una legge, che si potesse al Popolo dalle sentenzie che, per casi di stato, gli Otto e la Signoria dessono; la quale legge persuase più tempo, e con difficultà grandissima ottenne; occorse che, poco dopo la confermazione d’essa, furono condannati a morte dalla Signoria, per conto di stato, cinque cittadini; e volendo quegli appellare, non furono lasciati, e non fu osservata la legge. Il che tolse più riputazione a quel frate, che alcuno altro accidente: perché, se quella appellagione era utile, e’ doveva farla osservare; se la non era utile, non doveva farla vincere. E tanto più fu notato questo accidente, quanto che il frate, in tante predicazioni che fece poi che fu rotta questa legge, non mai o dannò chi l’aveva rotta, o lo scusò; come quello che dannare non la voleva, come cosa che gli tornava a proposito, e scusare non la poteva. Il che avendo scoperto l’animo suo ambizioso e partigiano, gli tolse riputazione, dettegli assai carico (N. Machiavelli, Discorsi, cit., p. 127).
Quel ‘freddamente’che tanto sconcertò anche i suoi seguaci per la giovane età di uno dei condannati, il suo status sociale e soprattutto per l’inosservanza della procedura garantita dalla legge, trova una spiegazione in una pagina del Trattato:
E perché nelli popoli, che hanno governo di ottimati o governo civile, è facile, per le discordie delli uomini che occorrono ogni giorno e per la moltitudine delli cattivi e susurroni e maledici, fare divisione e incorrere nel governo tirannico, debbeno tali popoli con ogni studio e diligenzia provedere con fortissime leggi e severe, che non si possi fare tiranno alcuno, punendo di estrema punizione non solamente chi ne ragionasse, ma etiam chi tal cosa accennasse; e in ogni altro peccato avere compassione a uomo, ma in questo non li avere compassione alcuna, eccetto che l’anima si debbe sempre aiutare: onde non si debbe minuire pena alcuna, anzi accrescerla per dare esemplo a tutti, accio ché ognuno si guardi, non dico di accennare tal cosa, ma etiam di pensarla. E chi in questo è compassionevole, o negligente a punire, pecca gravissimamente appresso a Dio, perché dà principio al tiranno, dal cui governo ne seguitano infiniti mali […]; perché quando li cattivi uomini vedeno che le punizioni sono leggieri, pigliano ardire, e a poco a poco si conduce la tirannia, come la gocciola della acqua a poco a poco cava la pietra. Colui dunque, che non ha punito tal peccato gravemente, è causa di tutti li mali che seguitano della tirannia di tali cittadini (Trattato, cit., pp. 455-56).
La compassione non ha luogo in tali circostanze, poiché di fatto essa diviene complicità nel peccato più grave che il cittadino possa commettere, ovverosia l’attentato alla libertà.
Date queste premesse, si può comprendere meglio quanto Savonarola scrive poi nel terzo libro del Trattato, laddove il Consiglio maggiore assurge a fonte di ogni legittimità. Il cittadino che può mutarsi in tiranno non è il cittadino più ricco, perché nessuno può essere così ricco da comprarsi tutti gli altri, ma il cittadino che, con l’ausilio della ricchezza e soprattutto coniugando questa con l’uso perverso delle virtù civili, può permettersi di manipolare gli uffici e gli onori; i suoi concittadini saranno acquisiti alla sua causa più facilmente con la promessa di onori pubblici o sgravi fiscali o capacità di clientelismo (cioè utilizzando non soltanto il suo denaro, ma facendo un uso privato del denaro pubblico), perché quel che conta, per assicurarsi il potere, non è la disponibilità immediata della ricchezza quanto la possibilità di manipolare la struttura dello Stato, l’articolazione e la competenza delle magistrature. È quando queste ultime sono saggiamente ed equamente ripartite tra tutti i cittadini che è possibile individuare l’unico, totale fine dello Stato: «il vivere cristiano e civile insieme» (p. 482). Ed è questa, allora, la vera morte del tiranno, definitiva perché taglia alle radici la ragion d’essere della tirannide in quanto tale: ordinamento legislativo coerente, sua applicazione severa, individuazione del fine da conseguire.
Su un tema specifico, ma centrale, si è preso così in esame l’inizio e la conclusione della riflessione politica di Savonarola sul governo e sul tiranno che ne è una degenerazione; tra questi due momenti, si colloca la stupefacente attività dottrinale e di predicazione profetica nel corso della quale questi stessi concetti si ripropongono, allargandosi, dal tema della tirannia come forma peggiorativa dell’ottimo governo, proprio della speculazione politica scolastica degli ultimi due secoli, a una disamina della concreta situazione fiorentina, nell’ottica del rapporto tra agire politico concreto, eventi storici e fede religiosa. Già nelle prediche sopra Aggeo (1494), che accompagnano la pacifica rivoluzione dello Stato postmediceo, Savonarola rivendica la dimensione prettamente spirituale dell’azione del politico, che è tale in quanto nutrito da una convinzione e conversione interiore. Questa condizione riguarda, anzi deve riguardare, tutti i cittadini, poiché tutti, proprio perché cittadini, partecipi del potere nella città, come aveva scritto nel Compendium, ma anche in quanto uomini liberi dal peccato, servi di Dio nella libertà, «Servi Domino, servi al tuo creatore, cui servire regnare est, e allora ti chiamerai veramente libero e vero cittadino della tua città» (G. Savonarola, Prediche sopra Aggeo, cit., p. 145).
Anzi, in queste prediche si insiste quasi ossessivamente sul fatto che senza un rinnovamento spirituale (della Chiesa e del popolo) né l’esercizio del potere, né, soprattutto, l’essenza stessa di esso, potevano essere finalizzati all’osservanza del bene comune; ciò avrebbe reso esplicito il fallimento dell’agire peculiare dell’uomo in quanto animale sociale dotato di ragione, e la democrazia, intesa come ripristino delle regole comuni per il vivere civile, non sarebbe stata possibile. Da qui, la promessa di ricchezze come incentivi alla parte materiale, cioè agli interessi economici, per raggiungere il fine.
La denuncia della mancanza di spiritualità nell’azione di governo si colora di aneddoto con la ripresa della frase, attribuita a Cosimo il Vecchio de’ Medici, sull’impossibilità di governare con i ‘paternostri’: che è, quello sì, un detto da tiranno secondo Savonarola, perché nega il fondamento spirituale, ossia la virtù che è virtù civile in quanto connotata di un senso religioso molto forte.
Tutti i cicli di prediche che si susseguono dal novembre 1494 agli inizi del 1498 contengono intere sezioni dedicate a questi problemi, a dimostrazione della passione del frate e del suo radicale convincimento che è attraverso la rinascita spirituale che l’assetto politico potrà stabilirsi e mantenersi nel segno della libertà; e sarebbe lungo il ripercorrerle anche perché gli argomenti addotti non possono non essere che in gran parte gli stessi. Quel che è necessario sottolineare è che in ultima istanza per Savonarola il tiranno, come esempio di cattiva politica, non è esclusivamente una singola persona: può essere una oligarchia o anche una moltitudine; è una definizione che concerne tutti coloro che non hanno spirito di carità, che sono tiranni nell’anima perché accecati dall’egoismo prima ancora che dalla superbia o dall’orgoglio o dalla brama di potere. Queste sono soltanto conseguenze, effetti di una malattia degenerativa che colpisce l’uomo nel suo essere più intimo, la ragione e, quindi, la capacità di mettere a fuoco il fine da conseguire, che è naturalmente il vivere bene del bene comune, ma che proprio per questo è anche carità e amore di Dio. Ne consegue successivamente che l’unico modo per uccidere il tiranno è da una parte una legislazione saldamente ancorata ai principi di libertà e necessariamente severa, dall’altra la preghiera, l’orazione interiore non più volta a chiedere a Dio un favore, ma, costruendo l’uomo nuovo dall’interno, a consentire di impedirne la stessa nascita. Lo Stato civile, al contrario di quello tirannico, è lo Stato della libertà di ogni cittadino dal peccato e, quindi, dall’egoismo privato; il corretto funzionamento delle leggi e la fede in Dio e nella bontà della sua opera sono di per sé una sentenza di condanna a morte del tiranno e di ogni forma di tirannide. Così, Savonarola mostra la coerenza del suo pensiero con la sua fede che, per essere così grande in Dio, non lo è di meno nell’uomo e nelle sue capacità: e a un popolo di uomini liberi può altresì chiedere, senza contraddizione, di darsi un re, il Cristo, vero difensore della florentina libertas.
Del resto, nella loro distinzione, non vi è contrapposizione tra il ruolo di profeta e quello di teorico della politica in Savonarola, e la più evidente dimostrazione sta proprio negli ultimi mesi della sua vita attiva di predicatore e scrittore: tra il 7 gennaio e il 14 marzo 1498 scrive e pubblica il Trattato, mentre dall’11 febbraio al 18 marzo tiene il suo ultimo ciclo di prediche sulla traccia dei primi capitoli dell’Esodo, ed è il proemio stesso del Trattato che illustra la coerenza di fondo di tutta la sua attività svolta sino a quel momento, allorché è proprio la Signoria a chiedergli di scrivere un trattato sul governo della città (come recita il sottotitolo dell’operetta, «compost ad instanzia delli Eccelsi Signori al tempo di Giuliano Salviati Gonfaloniere di Giustizia»), cosa «convenientissima al Stato vostro, e utile a tutto el popolo, e necessaria al presente allo officio mio». Sono tre condizioni che riguardano la nuova forma assunta dallo Stato dopo la fine della tirannia medicea, la condizione di libertà popolare e la giustificazione del suo ruolo di predicatore:
Perché, avendo io predicato molti anni per volunta di Dio in questa vostra città, e sempre prosequitate quattro materie: cioè, sforzatomi con ogni mio ingegno di provare la fede essere vera; e di dimostrare la simplività della vita cristiana essere somma sapienzia; e denunziare le cose future, delle quali alcune sono venute e le altre di corto hanno a venire; e, ultimo, di questo nuovo governo della vostra città: e avendo già posto in scritto le tre prime, delle quali però non abbiamo ancora publicato il terzo libro, intitulato Della verità profetica, resta che noi scriviamo ancora della quarta materia, acciò che tutto el mondo veda che noi predichiamo scienza sana e concorde alla ragione naturale e alla dottrina della Chiesa (Trattato, cit., pp. 435-36).
Ragione naturale e dottrina della Chiesa, due ambiti diversi e con riferimenti autoritativi distinti ma uniti in un unico sapere, quello che consiste nell’estensione dell’attività dell’intelletto alla sua realizzazione concreta, dalla predicazione profetica, che viene direttamente da Dio e che consiste nel governare gli atti degli uomini nella direzione indicata da Dio, alla fondazione di uno Stato che, consentendo il bene vivere in Terra, prepara il beate vivere in cielo.
La predicazione sopra l’Esodo ha inizio l’11 febbraio nella cattedrale fiorentina, malgrado la scomunica inflitta dal papa Alessandro VI e grazie alla benevolenza di una Signoria favorevole alla parte fratesca; le cose muteranno già il 2 marzo, con il cambio della Signoria, quando il frate fu costretto a predicare in San Marco e peggioreranno del tutto quando gli fu imposto di porvi termine il 18 marzo. In queste prediche, se la traccia è costituita dal testo biblico, il contesto è assolutamente contemporaneo e riguarda sia il significato dell’impegno personale del frate che lo status del popolo cui si rivolge. La schiavitù del popolo eletto sotto il dominio del Faraone è la corruzione del popolo cristiano, corruzione che consiste tanto nella mancanza di una vera fede fondata sulla carità da parte dell’apparato ecclesiastico, in specie la curia romana, quanto nella conseguente perdita dell’identità cristiana fondata sulla libertà dello spirito. Il flagello annunciato a partire dalla terribile predicazione del 21 settembre 1494 (cfr. G. Savonarola, Compendio di rivelazioni, a cura di A. Crucitti, 1974, pp. 10-11) è non solo il segnale dell’ira divina ma anche lo strumento di purificazione del popolo cristiano: la prova della sincerità della conversione interiore dei cristiani e la condanna dei nuovi farisei, i tiepidi la cui fede vive di apparenze ma che in realtà perseguono solo il loro privato interesse e orgoglio. Allo stesso modo, la nascita e le prime prove di Mosè si confondono con le prediche del profeta inviato da Dio per condurre il suo popolo, riottoso e «di dura cervice» come quello fiorentino, verso la terra promessa. E sicuramente fra Girolamo avrà avuto ben presente l’ultimo articolo della Quaestio de prophetia del suo maestro Tommaso d’Aquino, in cui si proclamava sì Mosè come il più grande dei profeti, ma anche come colui che dopo il lunghissimo peregrinare nel deserto può soltanto intravedere, prima di morire e di lontano, quella terra: presagio, o consapevolezza forse, che anche il suo percorso era prossimo alla conclusione. Una conclusione a cui lavoravano alacremente anche coloro, i teologi e i giuristi di curia, che seppellivano la parola di Dio sotto i pareri legali delle decretali, tutti tesi a incrementare quel potere temporale da cui avevano ricavato ricchezze e benefici, e che desideravano aumentare a discapito di un servizio da rendere ai credenti: «la pece nera sono stati li teologi de’ nostri tempi, e’ quali con le loro dispute assai inutile hanno tinto e fatto diventare nero ogni cosa, e non sanno straccio della Scrittura e non sanno pure e’ nomi delli libri della Bibbia […] uomini terreni e pieni d’ambizione e di avarizia» (G. Savonarola, Prediche sopra l’Esodo, a cura di P.G. Ricci, 1955, 1° vol., p. 223).
Savonarola rivendica, attraverso queste prediche, il suo ruolo di uomo di chiesa e, proprio perché uomo di chiesa, anche quello di aver promosso uno Stato civile in grado di consentire ai cittadini, al popolo, di essere liberi nell’amministrazione degli affari di Stato e della giustizia, di sentirsi tra loro eguali non quanto a ricchezze o influenze ma riguardo al bene comune di concedere a tutti il pieno dispiegamento delle proprie potenzialità, perché questa è l’azione propria di ogni uomo che, nella ragione e attraverso di essa, ha cognizione del bene:
in tutto il predicare che io ho fatto, io l’ho fatto con retta intenzione, cercando sempre lo onore di Dio, e la salute delle anime. A questo voglio che loro mi sieno testimoni contro di me al dì del iudicio, se questo che io dico non è la verità. Io ho predicato il ben vivere e la fede di Cristo; e se io ho predicato qualche cosa di Stato, sono stato così illuminato e comandatomi da Dio; e hammi detto molte cose per fare uno Stato buono e civile, ma li peccati vostri non l’hanno meritato. Non mi sono impacciato però di tale Stato (intendi bene) che non se ne possa impacciare ogni religioso: cioè di predicare il vivere pacifico della città, il purgarla de’ vizii, e ricordare le buone leggi e il modo di vivere secondo Dio; ma non mi sono impacciato di Stato, cioè di vostre prediche di Stato, né di vostri offizii, né di vostri partiti, né di elezione di uomini; neanche ne voglio intendere, perché sono contrarie alla mia professione. Alcuni hanno udito e accettato le predicazioni predette; molti le hanno rifiutate e contradittoli, perché a chi dà noia la lussuria, a chi la avarizia, a chi la ambizione, a chi altro vizio; ma più è stata la noia della ambizione. E queste sono state le cagioni che hanno fatta tanta contradizione, perché la vita loro non è secondo el nostro predicare, ma contraria. E però prenunziai ieri male sopra la terra; e così sarà. La maggiore contradizione è stata quelle de’ religiosi della Chiesa e de’ sacerdoti; e hanno impedito la conversione di molti, che si sarebbono convertiti, se non fussi stata la persuasione de’ sacerdoti, e religiosi tepidi (Prediche sopra l’Esodo, cit., 1° vol., p. 143).
Se la politica non è al centro della sua predicazione profetica, essa è comunque sempre presente al suo pensiero, proprio perché la politica per il frate ferrarese, secondo la lezione del suo maestro Tommaso, è l’uomo, nella sua libertà di scelta tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto. E poiché la profezia sta soprattutto nell’indicare l’obiettivo degli atti che gli uomini storicamente compiono, il suo scopo non può non essere quello di indicare la giusta direzione per il bene comune da realizzarsi nella storia.
Contro l’assolutezza della politica, Savonarola tenta di fornire un solido fondamento etico alla sua pratica, tale da costituire un centro di aggregazione morale e civile insieme, senza nulla togliere alla validità della legge umana fondata sul ‘naturale’ del popolo che se la dà. Un ‘naturale’ che vuol dire ragione da un lato e consuetudine dall’altro, e questo è forse l’elemento più innovativo che Savonarola innesta sulla lezione tomista: se è vero che la legge positiva, come aveva insegnato Tommaso, non è che la traduzione umana della legge naturale presente in ogni ente creato come riflesso dell’eterna legge divina, e quindi sempre in vigore, essa si pone a fondamento di ogni legittimità politica, senza per questo determinare l’ordinamento che ogni Stato civile si dà sulla base, appunto, del suo habitus, della sua consuetudo. A Firenze, l’ordinamento istituzionale dovrà quindi rispettare la storia civile pregressa – di libertà – della città realizzandosi secondo la ragione, senza tendere al prevalere delle passioni né, peraltro, cedendo di fronte alle ingiustificate pretese di chi si fa scudo della legge evangelica. L’autorità dell’ordinamento politico viene dal popolo, perché questa è la consuetudine del popolo fiorentino, e su questa sarà possibile costruire, razionalmente, una struttura statuale che consenta il maggior avvicinamento possibile tra società civile e potere statale. L’analogia di elezione tra il popolo ebraico e il popolo fiorentino sta nel fatto che anche quest’ultimo è un popolo eletto, eletto a una vocazione politico-istituzionale tanto rivoluzionaria quanto ispirata e voluta da Dio. Non utopia, quella del frate, ma lucido ragionamento nato dalla riflessione tomista sulla Politica rivisitata alla luce della positività storica, e soprattutto nessuna ombra, ancorché lontana, di teocrazia.
Nell’ambito dell’Edizione nazionale delle opere di Girolamo Savonarola, curata dalla casa editrice Belardetti, si rimanda ai seguenti testi:
Prediche sopra Ezechiele, a cura di R. Ridolfi, 2 voll., Roma 1955.
Prediche sopra l’Esodo, a cura di P.G. Ricci, 2 voll., Roma 1955-1956.
Prediche sopra Giobbe, a cura di R. Ridolfi, 2 voll., Roma 1957.
De simplicitate christianae vitae, a cura di P.G. Ricci, Roma 1959.
Triumphus crucis, testo latino e volgare, a cura di M. Ferrara, Roma 1961.
Prediche sopra Ruth e Michea, a cura di V. Romano, 2 voll., Roma 1962.
Prediche sopra Aggeo con il Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze, a cura di L. Firpo, Roma 1965.
Poesie, a cura di M. Martelli, Roma 1968.
Prediche sopra i Salmi, a cura di V. Romano, 2 voll., Roma 1969-1974.
Prediche sopra Amos e Zaccaria, a cura di P. Ghiglieri, 3 voll., Roma 1971-1972.
Compendio di rivelazioni, testo volgare e latino; e Dialogus de veritate prophetica, a cura di A. Crucitti, Roma 1974.
Operette spirituali, a cura di M. Ferrara, 2 voll., Roma 1976.
Solatium itineris mei, a cura di G.Cattin, Roma 1978.
Scritti filosofici, a cura di G.C. Garfagnini, E. Garin, 2 voll., Roma 1982-1988.
Lettere e Scritti apologetici, a cura di R. Ridolfi, V. Romano, A.F. Verde, O.P., Roma 1984.
Scritti vari, a cura di A.F. Verde, O.P., Roma 1992.
R. Ridolfi, Vita di Girolamo Savonarola, con avvertenza di E. Garin, note aggiunte di A.F. Verde, O.P., 2 voll., Roma 1952, Firenze 19977 .
Le procès de Savonarole, éd. R. Klein, Paris 1957 (trad. it. R. Klein, Il processo di Girolamo Savonarola, con una prefazione di A. Prosperi, Ferrara 1998).
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