TIRABOSCHI, Girolamo
– Nacque a Bergamo il 18 dicembre 1731, figlio di Vincenzo, titolare di una fabbrica di tessuti, e di Laura, che aveva lo stesso cognome, benché fosse di diversa famiglia. Fu battezzato il 20 dicembre nella chiesa di S. Alessandro.
I primi rudimenti nelle lettere gli furono impartiti a Bergamo da Pietro Armati, un ecclesiastico che proprio nel borgo di S. Alessandro teneva una scuola pubblica. Nel 1742 fu inviato dal padre a Monza, dove proseguì la propria istruzione presso il collegio dei gesuiti. Non ancora quindicenne, nell’ottobre del 1746, nonostante la ritrosia del padre, chiese di essere aggregato alla Compagnia di Gesù, entro cui rimase sino alla soppressione dell’Ordine; verso la fine di quell’anno fu mandato a Genova, dove trascorse il noviziato e completò gli studi umanistici e di teologia.
Si dedicò quindi all’insegnamento in diverse scuole della Lombardia e a Novara fino a quando, nel 1755, venne assunto come professore di eloquenza presso il collegio di Brera, gestito dai gesuiti. A novembre pronunciò la prima orazione proemiale in occasione dell’apertura dell’anno accademico, come fece di lì in avanti ogni anno durante il suo soggiorno milanese.
Le uniche fra queste orazioni latine a venire pubblicate furono, nel 1759, la De patriae historia, in cui rievoca, richiamandosi al modello di Ludovico Antonio Muratori, protagonisti e vicende della storia di Milano dal Medioevo alla dominazione asburgica, rivendicando la somma utilità pedagogica della storia, ritenuta la più alta forma di devozione alla patria (pp. II s.), e nel 1767 la De incolumitate Mariae Theresiae Augustae, tesa a celebrare la ritrovata salute da parte di Maria Teresa d’Austria, che gli valse una medaglia, donata direttamente dall’imperatrice. Nel 1755 pubblicò inoltre a Milano, con il titolo di Nuovo vocabolario italiano-latino, un’edizione «corretta e accresciuta ad uso dell’università di Brera» dell’opera del gesuita romano Carlo Mandosio – di cui aveva già curato un’impressione veneziana nel 1753 –, che godette per tutto il secolo di numerose ristampe.
Durante gli anni di insegnamento a Brera manifestò anche un vivace interesse nei confronti della biblioteconomia, come testimoniano un prezioso Catalogus Bibliothecae Braydensis per librorum argumenta digestus, conservato in un manoscritto apografo (Milano, Biblioteca Braidense, arm. 95-103), e l’orazione del 1762 De Bibliothecarum utilitate (Modena, Biblioteca Estense, It. 1006. b = α. L. 9. 22), in cui esalta l’utilitas delle biblioteche, sempre più accessibili a un vasto pubblico di studiosi, celebrando tanto i principi che munificamente le erigono e le ampliano, quanto gli eruditi che ne valorizzano il patrimonio con le loro ricerche.
Tra il 1766 e il 1768 pubblicò l’opera che gli diede notorietà sul territorio nazionale, i Vetera Humiliatorum monumenta annotationibus ac dissertationibus prodromis illustrata, accurata indagine, in tre volumi, sulla storia dell’Ordine degli Umiliati, fondato nell’XI secolo nel Milanese e soppresso da Pio V nel 1571. Attraverso diligenti ricerche nei fondi librari delle biblioteche Ambrosiana e di Brera, Tiraboschi, con la scorta delle inedite cronache di Giovanni da Brera e Gian Pietro Puricelli, che egli riportava alla luce, approntò un vasto quadro della storia della Compagnia, che godette di una lunga e favorevole recensione negli Acta eruditorum del 1768 (t. LXXXIV, n. VI, pp. 201-233).
Anche grazie al successo di quest’opera fu naturale per Francesco III d’Este, duca di Modena, pensare a lui come sostituto del bibliotecario Giovanni Granelli, scomparso nel 1770. Tiraboschi, che presentava tutte le caratteristiche necessarie per l’investitura, dalla vasta erudizione all’appartenenza alla Compagnia di Gesù, che aveva contraddistinto i predecessori, prese servizio nel giugno di quell’anno come prefetto della Biblioteca Estense, stabilendosi nel collegio gesuitico di S. Bartolomeo. Mise da subito in atto un programma sistematico per incrementare diligentemente il numero di libri e completare opere e collezioni rimaste scomplete, proseguendo e potenziando la politica di scambio e vendita dei doppi avviata nei decenni precedenti; promosse inoltre la stesura di numerosi cataloghi e repertori di libri e manoscritti, operando sempre con zelo per accrescere la fruibilità della biblioteca al pubblico. Mantenne buoni rapporti con il provveditore Moisé Beniamino Foà e con il duca, sebbene con quest’ultimo non mancassero tensioni fin da subito: si lamentò infatti di non poter studiare i libri dell’Estense nelle proprie stanze, diritto revocato già ai suoi predecessori da Francesco III in seguito ad alcuni furti, e dopo qualche anno venne accontentato (Venturi Barbolini, 1996, p. 22).
Nel 1772, in seguito alla riforma dell’Università di Modena voluta da Francesco III, venne nominato professore ordinario; in questo anno cominciò la pubblicazione della Storia della letteratura italiana, che contò complessivamente, nella prima edizione, conclusa nel 1782, dieci volumi suddivisi in quattordici tomi, mentre la seconda edizione fu impressa, sempre a Modena, tra il 1787 e il 1794, in otto volumi divisi in sedici tomi; nel giro di pochi anni venne poi ristampata svariate volte a Firenze (1774-1782), Napoli (1777-1786), Roma (1782-1797), Venezia (1795-1796) e Milano (1822-1826).
Ponendosi nel solco delle operazioni storiografiche, tutte a loro modo insoddisfacenti, condotte da altri gesuiti o da letterati di formazione gesuitica, come Giacinto Gimma, Francesco Saverio Quadrio e Francesco Antonio Zaccaria, Tiraboschi avviò un ampio progetto basato sulla raccolta minuziosa di dati di prima mano e sul vaglio accurato dei documenti storici, ispirandosi all’Histoire littéraire de la France intrapresa dal benedettino Antoine Rivet de la Grange e agli Scrittori d’Italia di Gian Maria Mazzuchelli, ma con differenze sostanziali per evitare di arrestarsi di fronte all’enorme quantità di dati da esaminare: nella prefazione alla princeps, egli rimarcava, rispetto alla prova di Mazzuchelli, di voler scrivere una «storia della letteratura italiana, non la storia de’ letterati italiani», e rivendicava, di contro alle pretese dei padri maurini, di non voler «congiungere insieme storia e biblioteca» (I, pp. IX s.).
La Storia della letteratura italiana si pone in netta discontinuità rispetto alle ricostruzioni storiografiche di stampo rinascimentale e arcadico, in cui si sosteneva il primato delle lettere italiane, isolando la poesia dalle altre discipline e formulando un canone fisso di scrittori eccellenti; Tiraboschi, al contrario, suffraga quel primato sostituendo al culto di quella «ragion poetica» (Dionisotti, 1967, p. 28) un’investigazione ad ampio raggio sull’«origine e i progressi delle scienze tutte in Italia» (I, p. XI), i cui limiti non sono più di natura argomentativa, bensì geografica, con l’obiettivo di documentare l’evoluzione della cultura italiana dall’epoca prelatina alla fine del XVII secolo. Inoltre, egli decise di non procedere più seguendo lo sviluppo dei singoli generi letterari, come aveva fatto ad esempio Quadrio, ma affidandosi all’ordine cronologico, attraverso una suddivisione dell’opera scandita, dal Medioevo al Seicento, per la prima volta per secoli. Volendo scrivere la storia letteraria d’Italia, Tiraboschi scelse di includere le vicende di tutti i popoli che in «quella provincia fiorirono», ampliando le proprie ricerche anche alle lettere magnogreche ed etrusche. Benché il motivo da cui la Storia prende le mosse sia di natura genericamente patriottica («il desiderio adunque di accrescere nuova lode all’Italia, e di difenderla ancora, se faccia d’uopo, contra l’invidia di alcuni tra gli stranieri, mi ha determinato a intraprendere questa storia», p. IX), anche per lui, come per i suoi contemporanei, l’Italia è un’espressione geografica.
Il primo tomo comprende la storia della letteratura etrusca – sulla quale Tiraboschi si sofferma celermente, in assenza di riscontri documentari –, di quella italo-greca e sicula, fino a giungere alla latinità augustea, lodando in particolare l’eleganza di Orazio e l’eloquenza ampia e chiara di Cicerone. Nel secondo, incentrato sulle vicende che intercorrono dall’età postaugustea alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, narra la decadenza della letteratura latina, esemplificata dall’immoralità del Satyricon di Petronio, dall’ipocrisia di Seneca e dalla generale «corruzione del buon gusto» (II, p. 337) in fatto di retorica. Il volume successivo, dedicato all’alto Medioevo, mostra un atteggiamento meno entusiastico nei confronti dei documenti barbari rispetto a quello tenuto da Muratori, mentre si sofferma con maggiore attenzione sulla nascita delle università e sulla produzione del libro manoscritto. Se la ricostruzione storiografica dei primi volumi procede abbastanza rapidamente, a partire dal quarto volume l’autore avverte di dover «cambiare in parte l’ordine e il metodo finor tenuto»: non solo l’incedere del suo racconto sarà meno cursorio, volendo egli esaminare con diligenza ogni secolo separatamente, ma la materia sarà divisa in tre parti, dedicate ai «mezzi con cui si promosser gli studj» (IV, p. 1), alle scienze e alle belle lettere. Mentre il volume duecentesco segue sostanzialmente «la falsariga del De vulgari eloquentia» (Arato, 2002, p. 275), quello incentrato sul Trecento celebra il Petrarca filologo ed erudito, preferito di gran lunga al poeta, come spesso accade ai letterati citati nella Storia. Il Quattrocento, secondo Tiraboschi, è secolo, ancorché privo di grande poesia, più glorioso del Cinquecento, in quanto avvia quel ritorno agli studi e quella riscoperta del buon gusto che saranno portati a compimento nel secolo successivo. Sebbene i giudizi critici di Tiraboschi siano radi e spesso caratterizzati dall’impiego di formule impersonali (Mari, 1990, p. 136), egli non si esime, in questi volumi, dal lodare le opere di storiografi come Enea Silvio Piccolomini, Carlo Sigonio e Cesare Baronio, di scienziati come Girolamo Fracastoro o Francesco Redi, di giuristi come Andrea Alciato. Sul versante propriamente letterario apprezza più la poesia in volgare di Poliziano che il petrarchismo quattro-cinquecentesco, e si mostra in disaccordo con i critici del tempo preferendo l’Orlando furioso alla Gerusalemme liberata: il poema di Ludovico Ariosto sarebbe superiore a quello tassiano per la «più viva e più feconda immaginazione», per «l’energia dei racconti» e per la «vivacità delle descrizioni» (VII, parte III, p. 118). Tiraboschi si allinea, quindi, alla storiografia arcadica, nell’ottavo volume, in cui traccia la decadenza della poesia seicentesca, cui tuttavia fa da contraltare, nella sua narrazione, l’enorme progresso delle scienze nel secolo di Galileo Galilei e di Marcello Malpighi. Il Settecento viene infine soltanto lambito dalla Storia, non senza un elogio delle attività erudite di Muratori, Scipione Maffei e Apostolo Zeno.
Non mancarono critiche all’opera di Tiraboschi, peraltro ampiamente riutilizzata dagli storici successivi, a partire da Pierre-Louis Ginguené nell’Histoire littéraire d’Italie; sono rappresentative dell’atteggiamento critico ottocentesco nei confronti della Storia le accuse mosse da Camillo Ugoni nella Letteratura italiana nella seconda metà del XVIII secolo (1820-1822), secondo cui la diligenza di Tiraboschi nel disquisire di minutezze biografiche e bibliografiche costituirebbe non il pregio, bensì il vizio maggiore della sua storia, censurata, oltre che per «la ridondanza della erudizione», anche per «il difetto della filosofia» (III, pp. 356 s.).
Se nella disputa fra storici e filosofi che correva al tempo, Tiraboschi aveva preso fieramente partito contro la storiografia filosofica di origine voltairiana, coltivata in quegli anni, fra gli altri, da Pietro Verri e Saverio Bettinelli, Ugo Foscolo (1826, 2012), critico con la Storia fino dall’orazione Dell’origine e dell’ufficio della letteratura (1809), in cui lamentava la mancanza di indagine intorno alle «cause della decadenza dell’utile letteratura» (p. 7), si spinse addirittura a negare a Tiraboschi il titolo di storico, considerandolo piuttosto un filologo e un archivista che aveva dato vita a un «archivio ordinato e ragionato di materiali, cronologie, documenti e disquisizioni per servire alla storia letteraria d’Italia» (ibid.). La Storia riscosse comunque un grande successo, testimoniato anche dai numerosi compendi che furono in breve approntati, in francese, da Antonio Landi, e in tedesco, da Joseph von Retzer, ma anche in italiano, fra gli altri da Lorenzo Zenoni (1800-1801) e Giannantonio Moschini (1801-1805), tanto che Tiraboschi, nella seconda edizione corretta e accresciuta della Storia, inserì una prefazione in cui rispondeva a quelle critiche che avevano cominciato a diffondersi a partire dalla pubblicazione dell’opera, ribadendo, di fronte all’accusa di aver coperto sotto il titolo di storia letteraria un «ammasso di fatti e date», di essersi ispirato ai criteri di verità ed esattezza, la «prima dote che in uno storico si richiede» (Modena 1787, I, pp. V s.), così da ancorare il proprio studio a solide basi documentarie e a prove testuali vagliate personalmente; inoltre aggiungeva che, una volta spogliata «delle cronologiche discussioni e delle minute ricerche» e analizzata per le considerazioni generali sullo stato, sullo sviluppo e sulla decadenza della letteratura italiana, la sua Storia esibiva chiaramente quel «filosofico quadro, che ad alcuni sembra mancare» (I, p. VI).
Nel 1773, in seguito alla soppressione della Compagnia di Gesù, Tiraboschi lasciò l’alloggio presso il collegio di San Bartolomeo e si spostò al palazzo ducale, dove soprintese all’imponente incameramento dei preziosi volumi provenienti dalle biblioteche gesuitiche. A partire da questo anno prese la direzione del Nuovo giornale dei letterati d’Italia, continuazione del periodico seicentesco di Bacchini, che cesserà nel 1790. Nel 1775 si verificò un altro piccolo dissidio con Francesco III, a causa del fatto che costui gli aveva affiancato la figura di un ispettore per l’acquisto di libri, Giuseppe Fabrizi; sempre nel 1775 pubblicò la Vita di Sant’Olimpia, nella quale, rifacendosi a Giovanni Crisostomo e ad altri storici medievali, si profondeva in una ricostruzione documentaria della vita della santa, non concedendo programmaticamente spazio a «estasi, profezie e visioni» (p. III).
Tra il 1776 e il 1778 Tiraboschi e la sua Storia furono al centro di un’aspra polemica, accesa da alcuni gesuiti spagnoli, i quali gli rimproverarono di aver imputato alla cattiva influenza della Spagna il declino delle lettere italiane nel Seicento, così come già era accaduto per la letteratura latina dopo la morte di Augusto; l’autore, riproponendo l’interpretazione di René Rapin e di altri gesuiti francesi, aveva infatti ammesso che poeti e retori provenienti da quella nazione, «per effetto di clima portata naturalmente alle sottigliezze» (II, p. 21), avevano recato grande danno alla cultura italiana, soprattutto nei territori dominati dagli spagnoli. Juan Andrés aveva così pubblicato, a Cremona nel 1776, una sobria lettera a Gaetano Valenti Gonzaga «sopra una cagione del corrompimento del gusto italiano nel secolo XVII», in cui discolpava la cultura spagnola dalle insinuazioni di Tiraboschi, ma anche di Saverio Bettinelli. Più ostile era il contegno di Tomás Serrano in due epistole, indirizzate a Clementino Vannetti, Super judicio Hieronymi Tiraboschii de M. Valerio Martiale, L. Anneo Seneca, M. Anneo Lucano, pubblicate sempre nel 1776, alle quali risposero, prendendo le difese di Tiraboschi, prima lo stesso Vannetti, e poi Alessandro Zorzi. L’attacco più deciso fu tuttavia lanciato da Francisco Javier Lampillas, autore di un Saggio storico-apologetico della letteratura spagnuola in sei volumi, pubblicati a Genova tra il 1778 e il 1781, in cui contrastava con veemenza le critiche rivolte da Tiraboschi e Bettinelli agli autori spagnoli. In questo caso fu lo stesso Tiraboschi a rispondere, nel 1778, con una Lettera intorno al Saggio storico-apologetico, impressa a Modena, in cui confermava l’opinione secondo cui «gli spagnuoli abbiano avuta non poca parte nella corruzione del gusto, così ne’ tempi della decadenza dalla romana letteratura, come nella decadenza che soffriron tra noi le lettere nel secolo precedente» (p. 9), criticando l’eccessiva acrimonia dell’avversario, che non gli riconosceva di avere elogiato diversi suoi compatrioti, a partire da Pomponio Mela.
Nel 1779 contribuì al Prodromo per la nuova enciclopedia italiana, diretto da Zorzi, con il Piano della classe storica, in cui criticava alcuni elementi dell’Encyclopédie, rea di aver sottovalutato le peculiarità della ricerca storica nella voce dedicata alla «critique» (pp. 55 s.), e con un articolo dedicato all’invenzione della stampa. Nel 1780 venne nominato cavaliere, nonché presidente della biblioteca e della Galleria delle medaglie da Ercole III, appena succeduto al padre, ottenendo dal duca anche la dispensa dall’assistenza personale alla biblioteca. In questo stesso anno dedicò al successore di Francesco III la Vita del conte Fulvio Testi, in cui ricostruiva, grazie al vaglio di numerosi documenti inediti conservati presso l’Archivio segreto ducale, la vicenda del celebre poeta modenese.
Questa biografia costituiva l’anticipazione di un ampio progetto che Tiraboschi andava conducendo in quegli anni, la composizione di una Biblioteca modenese, poi pubblicata in sei volumi tra il 1781 e il 1786, in cui raccolse una mole straordinaria di notizie intorno ad autori originari delle province dello Stato estense, rifacendosi al modello di altre storie provinciali settecentesche, dalla Verona illustrata di Maffei alla Letteratura veneziana di Marco Foscarini. L’ampia mole di dati messi a disposizione da Tiraboschi fu raccolta con l’aiuto di numerosi collaboratori, a partire da Ireneo Affò, bibliotecario a Parma presso la Palatina, con cui intrattenne un fitto carteggio. Nel 1781 la città di Modena gli conferì un diploma di nobiltà che gli concesse di godere dei privilegi riservati agli aristocratici. Tra il 1784 e il 1785 pubblicò in due tomi la Storia dell’augusta Badia di San Silvestro di Nonantola, commissionata dall’abate Francesco Maria d’Este, figlio naturale di Francesco III, dopo aver esaminato le pergamene conservate nell’abbazia, anche grazie all’aiuto di un altro corrispondente, Andrea Piccolo Ansaloni, vicario di Nonantola. Nella prefazione Tiraboschi, prendendo le parti di Mario Lupo, autore del Codex diplomaticus, nella polemica che lo opponeva a Pietro Verri (Mari, 1990, p. 35), criticò i «gravi e severi filosofi de’ nostri giorni», i quali «sdegnano le minute ricerche» (I, p. IX). La polemica fu rilanciata quando, nel 1785, pubblicò, nell’edizione padovana dell’Encyclopédie méthodique, un Discours sur l’autorité des historiens contemporains, in cui confermava la fede «nell’accertamento documentario, nell’implacabile scrutinio delle fonti» (Arato, 2002, p. 257), proseguendo la polemica contro le ricostruzioni ideologiche delle storie filosofiche.
Di lì a poco dovette tornare a difendersi dagli attacchi che provenivano questa volta dal padre domenicano Tommaso Maria Mamachi, in occasione della ristampa romana della Storia avviata nel 1782. Mamachi, convinto che lo scritto di Tiraboschi fosse lesivo della dottrina cattolica, in quanto avallava in maniera categorica la validità del sistema copernicano, aveva intrapreso una sistematica interpolazione dei passaggi spinosi, riscrivendoli senza darne avviso, ma dopo le polemiche suscitate fra gli altri da Francesco Antonio Zaccaria, supportate dalla pubblicazione di un Manifesto di Tiraboschi sulla Gazzetta universale di Firenze (Motta, 1997, pp. 129-131), si era risolto a stendere alcune annotazioni critiche che vennero pubblicate nell’impressione romana, cui l’autore rispose di nuovo con una lettera sarcastica edita a Modena nel 1785. Sempre nel 1785 ricevette dalla città di Bergamo l’onore di un ritratto che venne collocato nella Sala del Maggior Consiglio. Nel 1789 pubblicò a Modena le Notizie della confraternita di S. Pietro Martire, e a Padova le Riflessioni sugli scrittori genealogici. Nel 1790 diede alle stampe, con il titolo Dell’origine della poesia rimata, il manoscritto cinquecentesco dell’Arte del rimare del provenzalista Giovanni Maria Barbieri, con cui entrò nella polemica che opponeva Giovanni Andrés a Stefano Arteaga, schierandosi dalla parte del primo, che ipotizzava l’origine araba della rima. Tra il 1793 e il 1794 portò infine a termine le Memorie storiche modenesi, uscite in cinque volumi, una Memoria sulle cognizioni che si avevano sulle sorgenti del Nilo prima del viaggio del signor Jacopo Bruce, nella quale, in polemica con l’esploratore James Bruce, sosteneva il primato dei missionari gesuiti nel ritrovamento e nella descrizione delle sorgenti del Nilo, e una Memoria storica sulla condanna di Galileo e del sistema copernicano, nell’ultimo volume della seconda edizione della Storia, in cui, abbandonando la consueta strada dell’accertamento documentario, biasimava con toni moraleggianti il carattere presuntuoso dello scienziato, sordo ai premurosi consigli di Roberto Bellarmino.
Morì il 3 giugno 1794, in seguito a una breve e improvvisa malattia.
Postumi vennero pubblicati il Dizionario topografico-storico degli stati estensi, tra il 1824 e il 1825, e una favola pastorale in latino incentrata sulla vita di s. Agabio, attribuitagli dallo studioso novarese Carlo Negroni e pubblicata nel 1876. Sono conservati presso la Biblioteca Estense e universitaria di Modena anche altre opere inedite di Tiraboschi (α. L.9.21-23), che comprendono principalmente scritti di ordine religioso e la trascrizione di alcune orazioni e memorie lette durante le sedute dell’Accademia dei Dissonanti.
Fonti e Bibl.: La corrispondenza diretta a Tiraboschi, raccolta da Antonio Lombardi, si trova a Modena, Biblioteca Estense e universitaria, It. 858-904 = α. L.8.1 – α. L.9.19. Per un censimento delle lettere manoscritte si rimanda a M. Mari, Il genio freddo: la storiografia letteraria di G. T., Bergamo 1990, pp. 308-313, mentre per quanto riguarda gli epistolari a stampa: C. Viola, Epistolari italiani del Settecento, Verona 2004, pp. 567-570; Id., Epistolari italiani del Settecento. Primo supplemento, Verona 2008, pp. 184 s.; Id., Epistolari italiani del Settecento. Secondo supplemento, Verona 2015, pp. 379 s.
C. Ciocchi, Lettera al dottissimo sig. abate Francescantonio Zaccaria risguardante alcune più importanti notizie della vita e delle opere del cavaliere abate G. T., Modena 1794; A. Lombardi, Elogio del cavaliere G. T., Modena 1796; G. Beltramelli, Elogio del cavaliere G. T., Bergamo 1812; P.A. Paravia, Vita di G. T., in G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, IX, Venezia 1825, pp. XI-XXXVIII; U. Foscolo, Antiquarj e critici (1826), a cura di P. Borsa, Milano 2012; G. Getto, Storia delle storie letterarie (1942), Firenze 1969, pp. 77-102; C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, pp. 25-54; E. Raimondi, Letteratura e scienza nella Storia di T., in Id., I lumi dell’erudizione, Milano 1989, pp. 125-142; M. Mari, Il genio freddo, cit.; P. Di Pietro Lombardi, G. T., Rimini 1996; A.R. Venturi Barbolini, G. T., in G. T., mostra documentario-bibliografica, Modena 1996, pp. 9-38; F. Motta, Copernico, i Gesuiti, le sorgenti del Nilo. Il processo Galilei nella lettura di G. T., in G. T. Miscellanea di studi, a cura di A.R. Venturi Barbolini, Modena 1997, pp. 109-170; F. Arato, La storiografia letteraria nel Settecento italiano, Pisa 2002, pp. 255-300; U. Casari, Studi su G. T. e altre ricerche, Modena 2006; P. Tinti, Lo spazio della biblioteca nelle lettere di G. T., in Cartas, lettres, lettere, a cura di A. Castillo Gómez - V. Sierra Blas, Alcalà 2014, pp. 111-124.