Abstract
L’analisi muove dalla funzione e dal valore dell’istituto, la cui esatta portata viene verificata attraverso la disamina dei casi in cui l’autorità giurisdizionale può esaminare nuovamente la res iudicata e, se del caso, modificarla. Il percorso ricostruttivo si snoda attraverso un’indagine sulla distinzione tra giudicato formale e sostanziale, sugli effetti preclusivi del giudicato e sugli effetti diretti ed indiretti che da esso scaturiscono.
Il giudicato penale riveste una posizione di centralità nell’ordinamento giuridico, costituisce «l’essenza della decisione terminativa del giudizio, contenuta in un provvedimento giurisdizionale avente carattere di sentenza di proscioglimento o di condanna ovvero di decreto di condanna, divenuti irrevocabili» (Manzini, V., Trattato di diritto processuale penale, IV ed., Torino, 1972, 573). Quale dato terminale del procedimento, collegato all’accertamento irrevocabile del disvalore di un comportamento e finalizzato a non consentire la riapertura di vicende processuali definite, assicura la certezza del diritto e consente di qualificare come intangibili le statuizioni degli organi giurisdizionali (De Luca, G., Giudicato - dir. proc. pen., in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, 1).
Alla cosa giudicata si attribuisce l’autorità di regolare le situazioni giuridiche in maniera tendenzialmente stabile e definitiva, ma l’intangibilità delle statuizioni giurisdizionali assistite dall’autorità di giudicato non è affatto assoluta, dipendendo dalle eccezioni contemplate dall’ordinamento il grado di vulnerabilità delle decisioni irrevocabili.
I compilatori del codice del 1988 hanno tenuto presente l’esigenza di garantire il valore del giudicato come affermazione di responsabilità in ordine ad una notitia criminis (Leone, G., Manuale di diritto processuale penale, Napoli, 1985, 729), non a caso la collocazione della disciplina, nel titolo I del libro X, ne individua la centralità rispetto all’esecuzione, che lo presuppone, e sta ad indicare la “normale” coincidenza tra irrevocabilità ed esecutività. Ma, al contempo, dal nuovo ordito normativo traspare il ridimensionamento di tradizionali principi in tema di intangibilità. Infatti l’autorità giurisdizionale può esaminare nuovamente e, se del caso, modificare la res iudicata non più soltanto secondo il modello classico di revisione ma in una pluralità di ipotesi, qualora esigenze di giustizia legislativamente predeterminate rendano necessaria la rimozione della sentenza irrevocabile.
Certamente non è parificabile all’autorità della res iudicata il giudicato “allo stato degli atti”, che si colloca in una prospettiva rivolta a definire la regiudicanda in via progressiva, in relazione alla risoluzione di questioni incidentali ovvero di decisioni parziali sul merito. La definizione, che inizialmente è stata elaborata dalla giurisprudenza con riferimento ai provvedimenti cautelari, il c.d. giudicato cautelare, può estendersi ai provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione, a quelli di competenza della magistratura di sorveglianza e a quelli pronunciati in esito al procedimento di prevenzione (Pierro, G., Il giudicato cautelare, Torino, 2000, 232 ss.).
In particolare, per quel che riguarda le ordinanze di misure cautelari, da tempo, la Suprema Corte afferma che la preclusione processuale formatasi a seguito delle pronunzie emesse, dalla Corte di cassazione ovvero dal tribunale in sede di riesame o di appello, all’esito del procedimento incidentale di impugnazione «ha una portata più modesta rispetto a quella determinata dalla “cosa giudicata”, sia perché è limitata allo stato degli atti, sia perché non copre anche le questioni deducibili, ma soltanto le questioni dedotte, implicitamente o esplicitamente, nei procedimenti di impugnazione, intendendosi queste ultime come le questioni che, quantunque non enunciate in modo specifico, integrano il presupposto logico di quelle espressamente dedotte» (Cass. pen., S.U., 31.3.2004, n. 18339). Pertanto, il sopraggiungere di nuovi fatti nonché esigenze di tutela della libertà personale dell’imputato comportano il dissolversi del giudicato cautelare laddove intervenga un mutamento della situazione processuale, sì che un accertamento rebus sic stantibus, che si configura come ipotetico e instabile, appare difficilmente compatibile con i caratteri del giudicato (Lorusso, S., Una impropria utilizzazione del concetto di giudicato penale: il c.d. ne bis in idem cautelare, in Cass. pen., 1994, 650).
Il giudicato formale opera esclusivamente all’interno del processo per impedire «una pluralità indefinita di sentenze sullo stesso oggetto» (De Luca, G., op. cit., 1). Nella trama codicistica del 1988 assume le forme della irrevocabilità, prevedendosi che con l’esperirsi dei mezzi di impugnazione o con la scadenza dei termini per impugnare si verifichi l’intangibilità del risultato del processo e quindi il giudicato formale.
In forza dell’art. 648 c.p.p. il carattere dell’irrevocabilità accede alle «sentenze pronunciate in giudizio» contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione, nonché ai decreti penali di condanna; la sentenza diviene irrevocabile con l’inutile decorso del termine previsto per proporre il mezzo di impugnazione, altrimenti, se l’impugnazione risulta tempestivamente proposta, il giudicato si forma con l’inutile decorso del termine per impugnare l’ordinanza che abbia dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione stessa. Qualora sia stato instaurato il giudizio di legittimità, l’irrevocabilità consegue alla pronuncia del provvedimento dichiarativo dell’inammissibilità del ricorso o della sentenza con la quale il ricorso viene rigettato; può scaturire, altresì, dalla sentenza con la quale la Corte di cassazione accoglie il ricorso, adottando una pronuncia di annullamento senza rinvio, nelle ipotesi di cui all’art. 620 c.p.p.
Sebbene il tenore letterale dell’art. 648 c.p.p. attribuisca l’idoneità ad assumere il carattere della irrevocabilità alle sentenze pronunciate in giudizio, all’esito del giudizio dibattimentale ordinario, in prime cure o nei gradi successivi (Catelani, G., Manuale dell’esecuzione penale, Milano, 2002, 187; Di Ronza, P., Manuale di diritto dell’esecuzione penale, Padova, 2006, 109), presentano la medesima attitudine anche le sentenze rese all’esito del giudizio abbreviato – in relazione alle quali non vi sono ragioni per escludere la loro piena equiparabilità ai provvedimenti che definiscono il dibattimento – nonché le sentenze che applicano la pena su richiesta delle parti, ai sensi degli artt. 444 ss. c.p.p.
Non riveste questo carattere, invece, la sentenza di non luogo a procedere (Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U. 24.10.1988, n. 250, s.o. n. 2, 139), sempre soggetta a revoca nel caso sopravvengano o si scoprano nuove prove; l’intrinseca inidoneità a rivestire il carattere dell’irrevocabilità trova fondamento nell’espressa previsione dell’art. 650, co. 2, c.p.p., che, pur subordinando la sua forza esecutiva all’esaurimento dei mezzi di impugnazione per essa stabiliti, non lascia spazio che ad una definizione in termini di mera definitività.
Con la locuzione giudicato sostanziale si designa il complesso degli effetti che scaturiscono dalla sua formazione per assumere valenza extraprocessuale, esterna al processo nel cui ambito è stato emesso il provvedimento divenuto regiudicata; in dottrina si distingue tra «la forza positiva, coercitiva inerente all’autorità della cosa giudicata», consistente nel valore di titolo esecutivo assegnato al provvedimento irrevocabile e «la forza negativa, proibitiva, preclusiva» che ne scaturisce (Manzini, V., op. cit., 585).
Al rigoroso divieto di instaurare un nuovo procedimento penale per i fatti oggetto di accertamento irrevocabile si contrappone la capacità della cosa giudicata penale di fare stato in relazione ad altri procedimenti che vertono su regiudicande più o meno coincidenti con quella definita. La forza negativa, infatti, non esaurisce l’intera gamma degli effetti del giudicato, che – oltre alla idoneità a fondare la actio iudicati e, dunque, l’esecuzione – produce conseguenze di natura costitutiva in procedimenti diversi da quello definito, assumendo, così, valenza propriamente positiva: si pensi, esemplificativamente, al disposto dell’art. 238 bis c.p.p. o alle previsioni di cui agli artt. 651 ss. c.p.p.
All’irrevocabilità, di regola, si associa l’esecutività, cioè l’attitudine della decisione a dare attuazione al comando.
L’art. 650 c.p.p., al co. 1, attribuisce forza esecutiva alle sentenze e ai decreti penali di condanna avverso i quali non sono stati proposti, o si sono esauriti, gli ordinari mezzi di gravame.
Con l’inciso, «salvo che sia diversamente disposto», la disposizione, accanto alla regola che fa coincidere esecutività ed irrevocabilità, richiama le ipotesi in cui vi è divergenza tra i due termini. Queste si rilevano nelle decisioni, non irrevocabili, definite immediatamente esecutive da una disposizione legislativa, come le ordinanze in materia di libertà personale, o per dichiarazione espressa del giudice, come le ordinanze di applicazione provvisoria delle misure di sicurezza. Inoltre, è ammessa l’esecuzione della sentenza non ancora interamente irrevocabile quando sia ancora in corso l’accertamento relativamente agli interessi civili, come si desume dall’art. 573, co. 2, c.p.p. (cfr. Relazione al progetto preliminare al codice di procedura penale, cit., 127).
Con riferimento alla c.d. esecutività parziale del giudicato, va osservato che la decisione non sempre è limitata ad un solo imputato o ad una sola imputazione, poiché in un unico provvedimento possono essere enucleati più punti sui quali il giudice può intervenire con autonoma statuizione. È il caso di processo plurisoggettivo nel quale l’impugnazione proposta da uno dei coimputati non esclude l’esecutività della sentenza nei confronti di quelli non impugnanti, poiché la valida impugnazione proposta dal coimputato, anche per motivi non esclusivamente personali, non impedisce che diventi irrevocabile la sentenza relativamente al rapporto concernente l’imputato non impugnante (Cass. pen., S.U., 24.3.1995, n. 9).
Si ammette, altresì, che le parti, nell’esercizio di autonome facoltà, possano selezionare la materia da sottoporre al giudice di grado superiore, decidendo, così, di non devolvere a quest’ultimo l’intera regiudicanda. Di conseguenza su quanto non indicato dagli interessati tra i capi ed i punti della decisione oggetto di impugnazione si forma il c.d. giudicato parziale. In tal caso, la decisione di condanna divenuta irrevocabile in relazione all'affermazione di responsabilità per uno o per alcuni dei reati contestati deve essere eseguita, a nulla rilevando l'annullamento con rinvio per gli altri autonomi capi (Cass. pen., 5.6.2012, n. 23592).
L’effetto tipico del giudicato penale – che assume caratteri “negativi” e diretti – è sancito dall’art. 649 c.p.p., alla stregua del quale «l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto»; la previsione configura per il giudice adito successivamente il dovere di declinare la decisione, dichiarando che la materia è stata già definitivamente accertata dall’autorità giurisdizionale.
Il divieto di un secondo giudizio postula l’idem factum e l’eadem persona. In relazione al profilo soggettivo il provvedimento divenuto irrevocabile preclude il nuovo esercizio dell’azione penale soltanto nei confronti della persona destinataria del provvedimento stesso, non potendo spiegare alcuna efficacia diretta nei confronti di soggetti diversi, ostandovi «il principio della rigorosa limitazione degli effetti del giudicato penale all’imputato» (De Luca, G., op. cit., 5).
Dal punto di vista oggettivo, il divieto di un secondo giudizio non consente l’instaurazione di un nuovo procedimento penale sullo stesso fatto giudicato con sentenza divenuta irrevocabile. Come precisatosi in giurisprudenza, ai fini della preclusione connessa al principio del ne bis in idem, l’identità del fatto sussiste esclusivamente nell’ipotesi in cui vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass. pen., 6.12.2012, n. 4103).
La preclusione che scaturisce dal giudicato sul medesimo fatto è deducibile nel giudizio di legittimità poiché la violazione del divieto di bis in idem si traduce in un error in procedendo, salvo che la decisione della relativa questione non comporti la necessità di accertamenti di fatto, nel qual caso la stessa deve essere proposta al giudice dell’esecuzione (Cass. pen., 27.11.2012, n. 47983).
Il divieto sancito dall’art. 649 c.p.p. subisce due deroghe, rinvenibili in differenti sedes materiae, in forza della prima, individuata nell’art. 69, co. 2, c.p.p., la sentenza di non doversi procedere per morte dell’imputato, pur dopo il conseguimento dell’irrevocabilità, non preclude l’instaurazione di un nuovo procedimento penale sulla medesima regiudicanda, qualora successivamente «si accerti che la morte dell’imputato è stata erroneamente dichiarata» (Mancuso, E.M., Il giudicato nel processo penale, Milano, 2012, 486). La seconda deroga, prevista dall’art. 345 c.p.p., riguarda la sentenza di proscioglimento nella quale si dà atto della mancanza di una condizione di procedibilità. Siffatta sentenza, sebbene irrevocabile, non preclude l’instaurazione di un nuovo procedimento sul medesimo fatto.
Particolarmente dibattuto è il tema dell’operatività del ne bis in idem internazionale, circa la possibilità di celebrare un nuovo processo a carico di un individuo già giudicato dalla giurisdizione di un altro Stato per lo stesso fatto. Si riteneva, per il passato, che non fosse impedito celebrare un nuovo processo in relazione ad un fatto già giudicato all’estero, facendo leva sul disposto dell’art. 11 c.p.; l’assunto non appare attualmente condivisibile, in quanto – anche per effetto del principio di cui all’art. 10 Cost., che afferma la prevalenza delle fonti internazionali consuetudinarie e pattizie su quelle nazionali – la disciplina codicistica assume valenza meramente suppletiva ed integrativa, con la conseguenza che la norma contenuta nell’art. 11 c.p. deve essere applicata in conformità ai trattati internazionali vigenti. L’art. 739 c.p.p. prevede, in proposito, che, qualora una sentenza straniera sia stata già riconosciuta in Italia a fini esecutivi, sorge, con riferimento al fatto già accertato, un divieto di un secondo giudizio, alle medesime condizioni previste dall’art. 649 c.p.p. (ossia neppure se il fatto viene diversamente considerato per il titolo, il grado o le circostanze). Analogamente, l’art. 18, co. 1, lett. m), l. 22.4.2005, n. 69, dispone che, in tema di mandato di arresto europeo, non si possa dar luogo alla consegna – la legge qualifica l’ipotesi come causa di rifiuto – quando risulta che la persona ricercata è stata giudicata con sentenza irrevocabile per gli stessi fatti da uno degli Stati membri dell’Unione europea.
Tuttavia, soltanto con l’Accordo di Schengen, il ne bis in idem ha assunto caratteri di intangibilità in ambito comunitario (Dean, G., Profili di un’indagine sul ne bis in idem internazionale, in Riv. dir. proc., 1998, 57), essendosi previsto, agli artt. 54 ss., un rigoroso divieto di un secondo giudizio per il medesimo fatto nell’ambito degli Stati aderenti: ciascuno Stato contraente, nella sostanza, accetta di parificare la sentenza definitiva di un altro Stato contraente alle proprie decisioni. In tale contesto giova segnalare che il principio del ne bis in idem europeo opera nel diritto interno solo in presenza di una sentenza o di un decreto penale divenuti irrevocabili, non potendo essere considerato preclusivo del giudizio in Italia per i medesimi fatti un provvedimento rapportabile a una decisione di archiviazione emessa dall’autorità giudiziaria straniera, inidonea a definire il giudizio con efficacia di giudicato (Cass. pen., 5.5.2010, n. 19947).
La sentenza penale passata in giudicato, oltre all’efficacia diretta negativa, consistente nella preclusione di cui all’art. 649 c.p.p., può spiegare effetti di natura indiretta sia su altre regiudicande penali, in forza degli artt. 236 e 238 bis c.p.p., sia su procedimenti extrapenali, così come previsto dagli artt. 651-654 c.p.p.
La sentenza penale irrevocabile, ancor prima dell’intervento novellistico introduttivo dell’art. 238 bis c.p.p., ai sensi dell’art. 236 c.p.p. poteva essere acquisita in un altro processo ai fini del giudizio sulla personalità dell’imputato, sulla credibilità di un testimone o – se il fatto deve essere valutato in relazione al comportamento o alle qualità morali della persona offesa dal reato – sulla personalità di quest’ultima. Il tema di prova rilevante ai sensi dell’art. 236 c.p.p. è limitato, dunque, al giudizio sulla personalità dei soggetti processuali indicati dal legislatore (Kalb, L., Il documento nel sistema probatorio, Torino, 2000, 174 ss.), non potendo assumere alcuna valenza ai fini della dimostrazione delle altre circostanze afferenti al thema probandum.
Molto più vasta è la portata dell’art. 238 bis c.p.p., in forza del quale le sentenze irrevocabili – siano esse di condanna o di assoluzione pronunciate all’esito del giudizio dibattimentale o del giudizio abbreviato – possono essere acquisite ai fini della prova del fatto in esse accertato. Peraltro, la sentenza divenuta irrevocabile ed acquisita come documento non ha efficacia vincolante, ma va liberamente apprezzata dal giudice unitamente agli altri elementi di prova: per la valutazione probatoria sono necessari riscontri esterni che ne confermino il contenuto (Cass. pen., 19.4.2011, n. 23478), i quali riscontri possono essere individuati anche in elementi già utilizzati nell’altro giudizio, sempre che gli stessi non vengano recepiti acriticamente, ma siano sottoposti a nuova ed autonoma valutazione da parte del giudice (Cass. pen., 25.2.2011, n. 10094). Opportunamente, si è precisato che la possibilità di acquisire le sentenze divenute irrevocabili ai fini della prova dei fatti in esse accertati riguarda esclusivamente le sentenze pronunziate in altro procedimento penale e non anche quelle pronunziate in un procedimento civile, attese le evidenti e sostanziali asimmetrie che caratterizzano la valutazione della prova nei due diversi ordinamenti processuali (Cass. pen., 4.3.2013, n. 14042). Invece, la sentenza di patteggiamento pronunciata in altro procedimento penale, stante l’equiparazione legislativa ad una sentenza di condanna, potrà essere acquisita e valutata ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p. (Cass. pen., 25.2.2011, n. 10094).
Attraverso questo utilizzo, nel rispetto dei limiti previsti, il provvedimento divenuto cosa giudicata spiega effetti indiretti “costitutivi” sulla regiudicanda del nuovo processo, regiudicanda ovviamente diversa da quella del procedimento originario ma ad essa collegata in misura variabile (Normando, R., Il valore, gli effetti e l’efficacia del giudicato penale, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, VI, Esecuzione e rapporti con autorità giurisdizionali straniere, a cura di L. Kalb, IV, Torino, 2009, 57). Il giudice del nuovo processo resta sostanzialmente libero di valutare la sentenza irrevocabile acquisita ex art. 238 bis c.p.p., che potrà essere utilizzata nella nuova regiudicanda per ritenere provato il fatto accertato.
L’efficacia del giudicato penale si estende anche ad ambiti estranei all’accertamento del reato influenzati dal dictum irrevocabile del giudice penale, quali il giudizio civile o amministrativo in cui si conosce del danno conseguente al reato, e i giudizi disciplinari, in cui il potere di cognizione dell’autorità competente risulta “pregiudicato” dalla sentenza penale definitiva.
Il legislatore distingue, infatti, l’efficacia della sentenza penale irrevocabile di condanna (art. 651 c.p.p.) o di assoluzione (art. 652 c.p.p.) nel processo civile o amministrativo per il danno derivante da reato dall’efficacia nel giudizio disciplinare (art. 653 c.p.p.) e in altri giudizi civili o amministrativi (art. 654 c.p.p.) (Della Monica, G., L’efficacia del giudicato penale in altri procedimenti, in Commentario del codice civile, a cura di U. Carnevali, Milano, 2011, 35 ss.).
Con le richiamate disposizioni il legislatore limita l’esercizio del potere decisorio dei giudici civili ed amministrativi, «obbligandoli a considerare immodificabili determinati accertamenti compiuti dal giudice penale» (Chiavario, M., Giudizio - rapporti tra giudizi -, in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, 984). In forza dell’art. 651 c.p.p., la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel processo civile di risarcimento del danno quanto all’accertamento della sussistenza del fatto e della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, con esclusione della colpevolezza, il cui esame è autonomamente demandato al giudice civile; «tuttavia non è vincolante con riferimento alle valutazioni e qualificazioni giuridiche attinenti agli effetti civili della pronuncia, quali sono quelle che riguardano l’individuazione delle conseguenze dannose che possono dare luogo a fattispecie di danno risarcibile» (Cass., ord., 4.7.2011, n. 14648).
Sempre in materia di rapporto tra processo civile e quello penale, l’art. 652 c.p.p. prevede che nel giudizio civile per il risarcimento del danno, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione, pronunciata in seguito a dibattimento, spiega efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso, a meno che il danneggiato, iniziata l’azione civile di responsabilità in epoca anteriore a quella penale, non abbia proseguito l’azione in sede civile, a norma dell’art. 75, co. 2, c.p.p. (Cass., 9.1.2013, n. 319).
La previsione di una pluralità di rimedi, apprestati dal codice per la fase esecutiva, che consente di vulnerare in tutto o in parte il giudicato è indice di una mutata funzione del giudicato stesso, non più “mito” bensì momento flessibile, all’interno del quale trova ancora spazio la tutela dei diritti e delle garanzie individuali (Normando, R., Il sistema dei rimedi revocatori del giudicato penale, Torino, 1996, 74 ss.). Risultano, infatti, ampliate le possibilità di rimuovere il dictum cognitivo successivamente all’irrevocabilità: accanto all’ipotesi tipica di impugnazione straordinaria di revisione si è introdotto il ricorso straordinario per la correzione dell’errore di fatto, ex art. 625 bis c.p.p., proponibile in ogni tempo a favore del condannato, avverso i provvedimenti pronunciati dalla Corte di cassazione; inoltre il giudicato è tangibile dalla revoca della sentenza nel caso di abolitio criminis (art. 673 c.p.p.), dalla possibilità di rideterminazione della pena ai sensi dell’art. 671, e, ancora, attraverso la «decomposizione» (Cordero, F., Codice di procedura penale, Torino, 1990, 764) della continuazione ex art. 669, co. 6, c.p.p.
Per quanto concerne la revisione, la Corte costituzionale con la significativa sentenza 7.4.2011, n. 113 è intervenuta per porre termine alla vexata quaestio dell’ottemperanza alle sentenze della C. eur. dir. uomo, in particolare a quelle che abbiano accertato una violazione ex art. 6 CEDU, in presenza di provvedimenti giurisdizionali nazionali definitivi e non più impugnabili.
Il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p. laddove non prevede la revisione della sentenza o del decreto penale di condanna quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della C. eur. dir. uomo in tema di giusto processo. Si tratta, però, riconosce la stessa Consulta, di una revisione “impropria” e non perfettamente aderente allo schema normativo della classica impugnazione straordinaria, poiché finalizzata non già alla riparazione di un errore giudiziario, ma alla riapertura del procedimento penale dichiarato non equo dalla C. eur. dir. uomo, ammessa anche qualora non si possa, all’esito, ottenere il proscioglimento del condannato, così come invece disposto dall’art. 631 c.p.p.
Riveste le caratteristiche di impugnazione straordinaria il ricorso ex 625 bis avverso una sentenza di condanna della Corte di cassazione divenuta irrevocabile. Il rimedio è finalizzato a correggere in favore del condannato un errore materiale o di fatto contenuto nel provvedimento del giudice di legittimità, errore da identificare esclusivamente in quello «decisivo» verificatosi nella lettura degli atti interni al giudizio stesso (Cass. pen., 10.1.2011, n. 9072). La rimozione è possibile soltanto a fronte del c.d. «errore ostativo», causato da una svista o da un equivoco, frutto della falsa percezione di quanto risulta in modo chiaro ed in equivoco dagli atti del procedimento, che abbia avuto un’influenza sul processo formativo della volontà tale da portare a una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza l’errore di fatto (Cass. pen., S.U., 27.3.2002,n. 16103). Diversamente, qualora «la causa dell’errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, che, come tale, è escluso dall’orizzonte del rimedio previsto dall'art. 625 bis c.p.p.» (Cass. pen., S.U., 14.7.2011, n. 37505).
Come accennato, l’autorità del giudicato può essere elisa anche da altri rimedi revocatori, che pur non potendo essere inquadrati tra le impugnazioni straordinarie, si pongono come condizioni legali che attingono il giudicato senza risolverlo in toto.
È il caso dalla revoca in fase esecutiva della sentenza o del decreto penale di condanna per abolitio criminis o per declaratoria di illegittimità costituzionale, come previsto dall’art. 673 c.p.p.: la sopravvenuta valutazione di irrilevanza penale del fatto per il quale è stato pronunciato il provvedimento di condanna (e ai sensi dell’art. 673, co. 2, c.p.p. anche di proscioglimento) impone al giudice dell’esecuzione di decretare il travolgimento del giudicato, riconoscendo che il fatto non è più previsto dalla legge come reato ed adottando tutti i provvedimenti che ne conseguono. Risulta, invece, escluso dall’ambito di operatività dell’istituto il precedente giurisprudenziale delle Sezioni Unite, che abbia prodotto un effetto sostanzialmente abolitivo di un’incriminazione preesistente. Infatti le decisioni dell’organo di nomofilachia hanno un’efficacia tendenzialmente persuasiva, ma non possono cagionare un’estensione analogica della revoca di cui all’art. 673 c.p.p. (C. cost., 12.10.2012, n. 230).
La revoca in fase esecutiva, in vista della soddisfazione di esigenze di favor rei, può essere altresì disposta, ai sensi dell’art. 669 c.p.p, in caso di conflitto di giudicati determinato dalla mancata operatività del preventivo rimedio del ne bis in idem: il giudice dell’esecuzione dovrà dare atto della esistenza di un’altra decisione irrevocabile per il medesimo fatto, provvedendo alla revoca della condanna più grave oppure, in caso di coesistenza di diverse sentenze di proscioglimento definitive, di quella meno favorevole per l’interessato.
Ai rimedi propri della fase esecutiva è ancora riconducibile l’art. 671 c.p.p., che prevede l’elisione parziale della pena con la rideterminazione parziale per i casi di continuazione e di concorso formale non esclusi dal giudice della cognizione (Cass. pen., 21.02.2012, n. 10113).
Artt. 10 e 11 Cost.; artt. 6 e 46 CEDU; artt. 69, 75, 236, 238 bis, 345, 573, 620, 625 bis, 630, 631, 648-654, 669, 671, 673, 739 c.p.p.; art. 11 c.p.; art. 18, co. 1, lett. m), l. 22.4.2005 n. 69.
Chiavario, M., Giudizio (rapporti tra giudizi), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, 984; Cordero, F., Codice di procedura penale, Torino, 1990, 764; Dean, G., Profili di un’indagine sul ne bis in idem internazionale, in Riv. dir. proc., 1998, 57; Della Monica, G., L’efficacia del giudicato penale in altri procedimenti, in Commentario del codice civile, a cura di U. Carnevali, Milano, 2011, 35 ss.; De Luca, G., Giudicato (dir. proc. pen.), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, 1; Kalb, L., Il documento nel sistema probatorio, Torino, 2000, 174 ss.; Leone, G., Manuale di diritto processuale penale, Napoli, 1985, 729; Mancuso, E.M., Il giudicato nel processo penale, Milano, 2012, 486; Manzini, V., Trattato di diritto processuale penale, IV ed., Torino, 1972, 573; Normando, R., Il valore, gli effetti e l’efficacia del giudicato penale, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, VI, Esecuzione e rapporti con autorità giurisdizionali straniere, a cura di L. Kalb, IV, Torino, 2009, 57; Normando, R., Il sistema dei rimedi revocatori del giudicato penale, Torino, 1996, 74 ss.; Pierro, G., Il giudicato cautelare, Torino, 2000, 232 ss.