Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’aldilà, definito secondo parametri terreni, è il riflesso delle paure e delle speranze dell’uomo medievale che, soprattutto dalla metà del Trecento, si confronta con maggior frequenza con la morte. Il fedele allora ricerca e assiste alla proiezione del proprio destino in rappresentazioni allegoriche, che mirano al coinvolgimento emotivo del singolo, nel crescere del naturalismo gotico.
Ogni uomo s’interroga sulla “morte”, ma l’uomo medievale, a differenza di altri, trova risposta nel cammino di salvezza che la Chiesa dell’epoca sta cercando di definire. Tra XII e XIV secolo infatti i teologi scandiscono le tappe fondamentali di questo percorso salvifico e cercano di tradurle secondo l’immaginario del fedele. L’aldilà diventa quindi lo specchio del mondo dei vivi, con una topografia chiara e definita; la struttura stessa della società trova giustificazione nel mondo dei morti e il senso della giustizia umana s’invera grazie alla prospettiva celeste. A ogni peccato segue infatti una pena ultraterrena, come a ogni merito una ricompensa. Questo legame tra i due mondi si rafforza a metà del Trecento, quando, con la diffusione della peste, l’uomo si trova disarmato di fronte alla morte, che colpisce indiscriminatamente e senza preavviso. È a questo punto che il bisogno di capire cosa accada all’anima subito dopo la separazione dal corpo diventa pressante.
Le risposte a tali domande sono cercate nei sermoni e nella dottrina, ma questi soli non sono sufficienti. La Chiesa dunque coinvolge le arti e arricchisce l’iconografia del Giudizio universale, celebra la personificazione della morte nel Trionfo della Morte, punta alla diffusione di leggende che, nonostante l’origine popolare, sono funzionali al messaggio da trasmettere.
Il Giudizio universale, descritto nel Vangelo di Matteo e nell’Apocalisse di Giovanni, è la più alta rappresentazione della morte, in quanto trionfo della giustizia divina nel momento finale della storia dell’umanità. Nonostante l’importanza del soggetto, è solo nel IX-X secolo che compaiono, a Bisanzio e in Occidente, le prime testimonianze figurative.
Esse denotano l’assenza di una tipologia canonizzata, che in Oriente comparirà solo dopo l’XI secolo. In Europa invece è soprattutto nei primi decenni del 1100, quando al Giudizio viene assegnato lo spazio privilegiato dei portali delle chiese, che si riscontra una certa standardizzazione. La collocazione richiede infatti una semplificazione del soggetto e una suddivisione delle scene e dei personaggi secondo valori simbolici. In seguito, con il fiorire della scultura gotica nel Duecento, il tema viene rappresentato secondo un modello che rompe ogni legame con la sua interpretazione orientale. Se Bisanzio infatti vive il Giudizio soprattutto come evento posto alla fine dei tempi e dà del divino una rappresentazione epifanica, lontana dal mondo terreno, l’Occidente punta alla sensibilità del singolo. Così la figura del Cristo della facciata della cattedrale di Notre-Dame a Parigi, o di quella di Chartres, abbandona la rappresentazione in mandorla per acquistare tratti sempre più naturalistici e lo spazio superiore del timpano si concentra sul Cristo giudice, ora fatto coincidere col Cristo patiens della Crocifissione. Questi infatti mostra le ferite del fianco, rivolge allo spettatore il palmo delle mani con le stigmate e si circonda di figure che, per importanza e ruolo, possono assumere dimensioni paritetiche alle sue: gli angeli coi simboli della Passione, la Vergine e san Giovanni Evangelista.
L’ostentazione delle sofferenze del martirio trova largo seguito in Italia, dove la scelta di associare al Cristo del Giudizio il Cristo della Passione comporta una generale semplificazione dei temi correlati, come dimostra il pulpito del Battistero di Pisa, che sancisce quello che Jérome Baschet ha definito il “modello italiano” (Les Justices de l’au-delà, 1993). Qui lo scultore Nicola Pisano fa convergere verso la figura divina in maestà la schiera delle anime elette, eliminando così la rappresentazione del paradiso, mentre l’inferno, cui è diretto il corteo dei dannati, è regolarmente raffigurato nell’angolo opposto. Anche i portali delle cattedrali di Chartres e Parigi assicurano ai probi il privilegio della visione di Cristo, ma non vi risolvono la rappresentazione paradisiaca, che si aggiudica uno spazio equiparabile a quello infernale. La rappresentazione del mondo delle tenebre, in cui l’universo gotico dispiega tutta la sua vena immaginifica, trova dunque un nuovo slancio figurativo soprattutto in territorio italiano, a partire già dalla fine del Duecento. Già i mosaici del Battistero di Firenze e più ancora gli affreschi giotteschi nella cappella degli Scrovegni a Padova indugiano in dettagli macabri per descrivere le pene eterne, ma è soprattutto l’inferno del Giudizio universale del Camposanto di Pisa a segnare una svolta. Il regno dei dannati, suddiviso in compartimenti rocciosi attorno alla figura di Satana, rivela ora una chiara logica del castigo e traduce la scena macabra in alta lezione morale.
La medesima attenzione a una precisa topografia ultraterrena e la corrispondenza netta tra peccato e castigo investe anche l’opera dantesca ed è probabilmente in stretta relazione con la predicazione del clero, che si pone come mediatore con il mondo celeste. Il fedele ha infatti la possibilità (a partire dal 1215, anche l’obbligo) di redimersi attraverso il sacramento della confessione almeno una volta l’anno.
Il Giudizio universale si conferma dunque come la più alta e completa iconografia legata alla morte: l’uomo, grazie a una rappresentazione incisiva e vicina all’immaginario quotidiano, vi riconosce quanto gli potrebbe accadere se colto nel peccato, ma anche la degna ricompensa per una vita retta. Il paradiso infatti torna a controbilanciare la spaventosa rappresentazione dell’inferno già alla fine del Trecento, trovando nella cappella Strozzi in Santa Maria Novella a Firenze (1351-1357) un prezioso antecedente. Qui Nardo di Cione inaugura uno schema tripartito e rigorosamente bilanciato, che avrà ampio seguito nel Quattrocento, quando verrà meno l’attenzione per una lenticolare descrizione delle pene.
Accanto all’iconografia del Giudizio universale, profondamente ancorata ai problemi teologici che si vanno dibattendo nel Medioevo, ve ne sono altre, di origine popolare, che tentano ugualmente di rispondere alle esigenze morali dei fedeli. Una di queste è la leggenda dell’“Incontro dei tre vivi e dei tre morti”.
Considerata tra le prime iconografie macabre dell’Europa cristiana, la leggenda, che narra l’incontro di tre giovani nobili con tre scheletri durante una battuta di caccia, mette in evidenza la vanità degli interessi mondani di fronte al destino dell’uomo. Tra le prime testimonianze dell’episodio si ricordano un poemetto francese del 1275 di Baudouin de Condée gli affreschi del duomo di Atri (1260-1270) e di Santa Margherita di Melfi (1290 ca.). La compresenza del tema nella letteratura secolare e in un luogo religioso non stupisce affatto: il rilancio economico della metà del Duecento favorisce uno stile di vita cortese, che ordini monastici e movimenti ereticali sentono il bisogno di controbilanciare. La leggenda, che gioca sul contrasto evidente tra lo sfarzo dei nobili e la cruda rappresentazione degli scheletri, non nasconde inoltre un certo compiacimento per il soggetto macabro, con cui l’uomo medievale è costretto a convivere a causa dell’Inquisizione ecclesiastica e della diffusione di epidemie.
In Francia, dove il racconto non ha grande seguito, si sviluppa, tra XIV e XV secolo, la Danza macabra, che gioca sul contrasto tra i vivi e i morti. Nata probabilmente dalla letteratura coeva, la Danza gode, rispetto a quest’ultimo, di una fortuna molto più lunga, forse dovuta al perdurare nel gusto francese della fascinazione per lo spettacolo grottesco. Il primo esempio noto è quello del Cimitero degli Innocenti di Parigi, datato al 1424, ma sono ipotizzabili dei precedenti. Tali affreschi, distrutti nel corso del Seicento, sono ricostruibili attraverso le incisioni che illustrano il testo Danse macabre del 1485: l’umanità intera è qui coinvolta in un ballo con il suo “doppio” ultraterreno, gli scheletri.
Ancor più dell’Incontro, la Danza propone un’immedesimazione totale dello spettatore nella rappresentazione, che si ritrova facilmente nella vasta gamma di personaggi che animano la scena. Nello stesso tempo però il tono beffardo con cui gli scheletri si rivolgono ai vivi segna uno scarto significativo rispetto alla leggenda “italiana” e ne compromette un’ampia diffusione nella nostra penisola. La leggenda dell’Incontro, invece, col procedere del Trecento, entra totalmente nell’immaginario ecclesiastico e si unisce ad altri soggetti per rafforzarne il messaggio da trasmettere. Così accade nel Camposanto di Pisa in cui la schiera di giovani a cavallo fa eco all’allegra brigata, sulla destra, ignara dell’imminente arrivo della Dea Morte.
L’“Incontro dei tre vivi e dei tre morti” si iscrive dunque a Pisa in un più complesso programma iconografico, che ha come tema principale il Trionfo della Morte.
Al centro della scena la personificazione della Morte, in veste di vecchia megera che, anziché volgere lo sguardo al gruppo di storpi che la invoca, si dirige verso una corte di giovani nobili in un giardino edenico, in perfetto accordo con quanto Giovanni Boccaccio) racconta nel Ninfale fiesolano o nel Decameron Diversamente dalle opere letterarie però, gli affreschi sono finalizzati al monito moralizzante e funzionano come un violento pamphlet contro la vita cortese, cui contribuisce anche la leggenda dell’Incontro. Più in generale, il tema del Trionfo nasce dal bisogno dell’uomo del Trecento di dare un volto alla morte e mira, con un linguaggio schietto e provocatorio, al coinvolgimento dello spettatore, così come cercano di fare la Danza macabra francese o il Giudizio universale che correda di particolari realistici i luoghi dell’aldilà.
La lettura che dà invece Petrarca nei Trionfi (1356-1374) propone una nuova iconografia, lontana da qualsiasi cedimento macabro o di eccessivo impatto emotivo, che apre alla cultura umanistica. Come mostra una miniatura del manoscritto 545 della Bibliothèque Nationale di Parigi, alle scene gremite di personaggi che cercano di sfuggire alla morte si preferisce un’immagine meno gridata. La Dea Mors, uno scheletro dalla lunga falce, non rincorre né insegue le folle, ma guida, lenta e inesorabile, un catafalco trainato da bufali neri che travolgono l’umanità nel silenzio luttuoso del corteo funebre. La scena si veste quindi di valori formali che guardano direttamente al mondo classico, seppur moralizzato, lasciando alle spalle un immaginario fatto di drammi e rappresentazioni concitate.