MAIO, Giuniano
Nacque intorno al 1430 a Napoli, dove visse fino alla morte.
Di nobile famiglia, del "seggio" di Montagna, fu allievo di Antonio Calcillo e a sua volta fu maestro dei principi della casa reale e di Iacopo Sannazzaro. Dal 1465 al 1488 il M. fu professore di retorica allo Studio di Napoli, come attestano le 61 cedole di tesoreria che riguardano il suo insegnamento, da cui si desume anche il compenso percepito: "ducati VIII, tarì II, grani X etc." (Percopo, 1893, cedola n. XXXIX). Nel 1480 ottenne dal re Ferdinando I d'Aragona il titolo di cavaliere: nell'explicit dell'edizione curata dal M. delle Orazioni ciceroniane in quell'anno è indicato come "eques Neapolitanus", e come "cavaliero neapolitano" appare nell'intitolazione del De maiestate.
Fu membro dell'Accademia Pontaniana, maestro pubblico e privato; dal 1490 fu precettore dei figli del re: Pietro, Alfonso, Carlo e Isabella. Nel 1491 fu accolto tra gli umanisti di corte, esplicito riconoscimento del suo valore di letterato. Morì a Napoli tra il gennaio e il 20 apr. 1493.
Da un documento del 27 dic. 1489 risulta sposato con Francesca Campuzca, da cui ebbe due figli maschi, Fabio e Antonio, e una femmina, Dionea; dopo la sua morte i figli continuarono l'attività paterna come precettori dei giovani principi. Il fratello del M., Masone, è ricordato da Pietro Summonte nella Lettera a Marcantonio Michiel sull'arte napoletana.
L'opera principale del M. è il De priscorum proprietate verborum, la cui princeps uscì a Napoli nel 1475 presso Mattia Moravo; seguirono, nel corso del XV secolo, le edizioni: Treviso, Bernardo da Colonia, 1477; ibid., Bartolomeo Confalonieri, 1480; Venezia, Ottaviano Scoto, 1482; ibid., Dionisio Bertocchi e Pellegrino Pasquali, 1485; ibid., Giovanni Rosso, 1490. Si tratta di un dizionario di voci latine, con i lemmi disposti dalla A alla Z, ma non in perfetto ordine alfabetico, dove compaiono molte citazioni da Virgilio, Cicerone, Orazio, Festo, Donato, Servio, Asconio Pediano, Catone. L'unico autore greco utilizzato è Strabone, se pure nella traduzione latina di Guarino Guarini. Nella editio princeps l'etimo greco da cui derivano i lemmi non è indicato; figura solo uno spazio vuoto per una successiva integrazione. Nell'opera sono presenti toponimi greci, in trascrizione latina, e romani, nomi della fauna e nomi propri.
In chiusa d'opera, in una lettera a Enrico Languardo, arcivescovo di Acerenza e Matera, il M. dice di aver annotato accuratamente i lemmi dei grandi scrittori antichi con l'intenzione di accompagnarli con "multas lucubrationes", ma così fu solo parzialmente, in quanto i lemmi presentano pochi commenti. Il dizionario, grazie alle sue doti di chiarezza e completezza, ebbe un grande successo, testimoniato dalle numerose ristampe e dall'utilizzo che ne fece Poliziano (A. Ambrogini) nel corso tenuto allo Studio fiorentino nel 1482 sulle Eclogae di Virgilio. Poliziano usò l'opera anche per il commento alle Georgicae, per l'Andria di Terenzio e le Vitae di Svetonio e per le Rosae pseudovirgiliane, così come è testimoniato l'uso dell'opera del M. da parte di Bartolomeo Fonzio.
Il valore riconosciuto al De priscorum proprietate verborum dai suoi contemporanei viene oggi ridimensionato, perché si imputa al M. di riflettervi una visuale ristretta e pedantesca e una scarsa conoscenza delle opere classiche. Il maggiore addebito che è stato mosso al M. è quello di non aver composto un'opera originale. Infatti, secondo la testimonianza di Raffaele Maffei, ai nostri giorni ripresa e ampiamente discussa da Ricciardi, pare che nell'allestire il suo lessico il M. si sia ampiamente servito del Lexicon Latinum di Calcillo (Oxford, Bodleian Library, Mss., 171). Anche se i glossari di Calcillo e del M. non possono completamente identificarsi, l'"opus inchoatum", di cui nella dedica a re Ferdinando il M. ammette di essersi avvalso, è l'opera di Calcillo, però non - come il M. afferma - ancora allo stato iniziale, ma già compiuta. Egli invece preferisce indicare come fonti del suo lavoro autori illustri, secondo una consuetudine invalsa tra gli umanisti, e cita Lorenzo Valla, Giovanni Tortelli e Giovanni Pontano, non nominando il vero autore di cui si è valso e sminuendo a livello di un anonimo abbozzo il Lexicon di Calcillo. Va tenuto presente che il M. fu uno dei più noti discepoli di Calcillo, professore allo Studio napoletano dal 1466 al 1471, e quando fu pubblicata nel 1475 la princeps del De priscorum proprietate verborum, questi non era moribondo, come afferma Maffei. Non è facile stabilire se il M., anch'egli docente di retorica allo Studio di Napoli dal 1470, abbia potuto godere della consultazione diretta dell'opera del collega perché spontaneamente datagli in visione, o se, invece, ne abbia fatto un uso furtivo. Il lessico di Calcillo fu composto dal 1460 al 1463 prima del De priscorum proprietate verborum, ma rimase inedito. Probabilmente il M. si servì del lavoro di Calcillo con il benestare del collega, ed è verosimile che i due studiosi, ciascuno per proprio conto, abbiano continuato a lavorare, rimanendo però spiazzato Calcillo dalla tempestività dell'edizione del Maio. Il confronto tra i due lessici mostra una stretta vicinanza; Ricciardi, che ha condotto un confronto tra i due lavori, limitatamente alla lettera A, evidenzia non solo la dipendenza dell'opera del M. da quella di Calcillo, ma, a volte, persino un'errata e grossolana interpretazione delle schede del maestro. Dalla dedica a re Ferdinando si ricava che il M. aveva la consapevolezza che la sua opera non era completa, e che egli era condizionato dalla fretta di pubblicare. Nel catalogo della biblioteca dei re d'Aragona sono ricordati sia il Vocabularium Chalcidii sia il Vocabularium Iuniani Maii (De Marinis, II): coesistendo nella biblioteca regia è difficile sostenere che il M. si sia appropriato in toto del lessico di Calcillo. A. Gentile, che ha esaminato tutta la lettera B dei due lessici, nota che il M. registra 451 voci, Calcillo 328 voci; 86 voci sono tratte da classici latini, 94 dai Commentaria grammatica di Tortelli, 12 dalle Elegantiae di Valla; 260 voci sono integralmente trascritte dal lessico di Calcillo senza alcuna indicazione.
Al 1492 risale l'altra opera cui si raccomanda la memoria del M., il De maiestate. Indicata come "Laudi de soa maestà", essa è un'analisi della maestà regale; il re Ferdinando diviene l'incarnazione dell'idea stessa di maestà, e scoperti sono l'adulazione e il taglio panegiristico. L'opera è composta da una introduzione, cui seguono 20 capitoli; ciascuno è la teorizzazione di una delle virtù proprie del re e insieme la citazione di un avvenimento tratto dalla storia recente. Le fonti menzionate sono soprattutto l'Etica di Aristotele, Cicerone e Seneca. Lo stile si presenta piuttosto faticoso, con una prosa in cui vive "un impasto di dialetto e latino con una vernice e struttura boccaccesca" (Folena) con l'apporto di qualche lemma di sapore spagnolesco. L'opera è incentrata sull'esaltazione della pace e dell'ordine che Ferdinando seppe riportare nel Regno dopo la congiura dei baroni. Lo scritto, a lungo inedito, fu pubblicato per la prima volta da F. Gaeta (Bologna 1956), basandosi su un manoscritto di mano di Giovan Matteo de Russis, conservato nella Bibliothèque nationale di Parigi (Fonds Ital., 1711). Con ogni verosimiglianza si tratta del codice esemplato per essere donato al re; è infatti impreziosito da 30 splendide miniature di Nardo Rapicano (ne mancano 3 per la lacuna nelle cc. 58-59) che illustrano momenti salienti della vita di Napoli negli anni di Ferdinando, insieme con molti esempi della magnanimità, giustizia e pacatezza e i trionfi celebrati dal re. Il codice presenta 21 capilettera in lictera perusina; la prima carta ha una ricca ornamentazione e lo stemma aragonese entro lussuosa cornice. Il 23 febbr. 1493 il manoscritto entrò nella biblioteca di Ferdinando, e da qui passò a quella dei teatini di S. Paolo di Napoli, dove G.V. Meola ne realizzò una copia, ora alla Biblioteca nazionale di Napoli (Mss., XIII.B.37).
Alla fine del cap. XIX del De maiestate, il M. ricorda una sua opera sull'arte della caccia, perduta. Dall'Index regalium codicum Alfonsi regis ad Laurentium Medicem ex Neapolitana eius bibliotheca transmissus (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 7134), steso nel 1508-13 da Fabio Vigile, al n. 16 della sezione Grammatici si registra: Grammatica Iuniani Maii; al n. 28 Vocabularium Iuniani Maii (De Marinis, II, p. 193), ma della grammatica del M., composta, come pare, a uso della scuola non si ritrovano ulteriori notizie; tuttavia è interessante segnalare che una Gramatica, in latino e volgare, è pubblicata anonima a Bologna, presso Francesco (detto Platone) de' Benedetti, nel 1482. L'opera, poco nota ai bibliografi, è stata segnalata da Frati.
Come volgarizzatore il M. tradusse l'Ars moriendi di Alberto Magno (Napoli, Arnaldo da Bruxelles, 1476): Lo libro de larte de lo ben morire traducto in vulgare sermone da Juniano de Maio dedicato a Pasquale Diaz Garlon. Il testo è in un codice di mano di Giovan Marco Cinico (Schweinfurt, Otto Schaefer Collection, 16). Secondo Gaeta esistono altre due diverse versioni dell'opera, una da identificarsi probabilmente con la stampa di Firenze, S. Jacopo a Ripoli, 1477, e l'altra, pubblicata anonima, forse da identificare con l'edizione di Venezia, E. Ratdolt - B. Maler - P. Löslein, del 1478.
Come editore di classici, il M. curò nel 1476 a Napoli, presso Mattia Moravo, l'edizione delle Epistolae di Plinio il Giovane, con correzioni ancor oggi recepite come valide; nel 1480, di nuovo presso Moravo, curò una silloge di orazioni ciceroniane: Ciceronis orationes quas selegit Iunianus Maius eques Neapolitanus et rhetor publicus.
Una sua Epistola in lode di Giovanni Pico della Mirandola datata "Neapoli pridie non. Iunii 1490" è posta in fine dell'Heptaplus pichiano; probabilmente uscì per sua cura anche una raccolta di Cicerone (Epistulae selectae, Romae, Barth. Guldinbeck, 1475) mentre sembra perduta la raccolta Epistolarum ad diversos.
Oltre che della fama di grammatico e ottimo maestro, il M. godeva di una buona rinomanza come esperto di arti magiche. Il Sannazzaro nell'Arcadia (Prosa IX, 13, 27, 39) lo adombra nella figura di Enareto esaltandone l'alta dottrina e la capacità di intessere incantesimi e di conoscere i segreti ritmi di natura; in Elegiae, II, VII, Ad Iunianum Maium praeceptorem ne celebra la rara qualità di veggente e interprete di sogni (vv. 29-38, 53-56), mentre in Elegiae, I, XI, vv. 33-36 gli rivolge un commosso omaggio per le grandi doti di educatore. Il nome arcadico Enareto è stato variamente interpretato, come di derivazione greca, equivalente a virtuoso, o come nome di origine geografica, dalla denominazione latina di Ischia, "Aenaria", perché pare vi approdasse Enea ("Enaria", in Arcadia, XII, 30 e nella IV piscatoria, vv. 34-36, è l'appellativo di Ischia); tuttavia risulta improbabile collegare la biografia del M. con questa realtà geografica: recentemente Riccucci ha rilevato, sulla scorta di Cicerone (De divinatione, XXVI) che il termine è collegabile al verbo enarrare nel senso di interpretare i sogni, ed "Enarato", e non "Enareto", con scoperta allusione al M. interprete dei sogni, è testimoniato nell'edizione pirata dell'Arcadia del 1502 e così nella tradizione manoscritta della prima redazione dell'opera. Questa singolare dote del M. è rilevata anche dal Pontano, che a lui dedica il Tumulus Iunii Iunianii Maii e lo ricorda come erudito ed espertissimo in lettere greche e latine; così Pietro Iacopo De Gennaro e Benet Gareth (Cariteo) lo citano con espressioni di amicizia e considerazione.
La fama del M. come interprete di sogni trova conferma in diversi scrittori, tra i quali Alessandro D'Alessandro, il volterrano M.A. Sabellico e Pierre Bayle, che lo definisce l'"Artemidore de son siècle"; ma Sannazzaro - o per lui Pietro Summonte - nella princeps dell'Arcadia (Napoli 1504) muta il nome "Enarato" in "Enareto". Evidentemente in lui prevale la volontà di onorare la virtù morale del M. che gli fu maestro.
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