GIUNTA di Capitino, detto Giunta Pisano
Originario di Pisa, fu attivo nella prima metà del secolo XIII. La vicenda biografica di quella che è la personalità artistica di maggior spicco nell'ambito della pittura italiana della prima metà del Duecento è scandita da pochissime attestazioni documentarie, sufficienti tuttavia a trasmetterci - per la prima volta nella storia dell'arte italiana - il profilo di un pittore che ha operato anche in contesti geografici diversi da quello di origine. La traccia fondamentale della biografia di G. si recupera ancora oggi dall'intervento di Peleo Bacci (1922), che cercò di distinguere nei molti documenti pisani dell'epoca riferibili a personaggi di nome Giunta quelli realmente riguardanti il pittore, interpretando criticamente inoltre il lavoro compiuto dagli eruditi pisani settecenteschi (Tempesti, 1790; Da Morrona, 1793). Tra i documenti selezionati a suo tempo da Bacci è stato opportunamente accantonato quello relativo a un tal Giunta di Guidotto che il 29 genn. 1229 risultava proprietario di un terreno nella zona di Calci, la stessa dove anche G., molti anni dopo, risulterà proprietario di terre (Boskovits, 1973). Le attestazioni certe riferibili a G. iniziano dunque dal 1236, la data riportata sul perduto Crocifisso commissionato all'artista da frate Elia, padre generale dei francescani, quasi certamente per la chiesa inferiore di S. Francesco ad Assisi (Oertel, 1937), che recava la seguente iscrizione: "Frater Elias fieri fecit - Jesu Christe pie - miserere precantis Helie - Juncta Pisanus me pinxit A.D. MCCXXXVI Indictione nona".
La croce fu in seguito trasferita nella chiesa superiore e collocata sopra l'iconostasi, dove rimase fino al 1624, quando fu rimossa per i preparativi della cerimonia di consacrazione vescovile di un nipote di Urbano VIII; e in tale circostanza andò dispersa: una copia idealizzata dell'opera compare in un singolare dipinto seicentesco nella chiesa di S. Maria della Concezione a Roma.
Dalla pubblicazione (Verani, 1958) di due pergamene già nell'Archivio comunale di Rieti (relative a una disputa insorta per motivi riguardanti il territorio di monte Albino tra i monaci del monastero di S. Sebastiano ad Catacumbas e il priore di S. Maria Nuova a Roma), si può dedurre implicitamente la quasi certa presenza del pittore a Roma nella primavera del 1239. Nei due atti, stipulati presso la chiesa di S. Clemente a Roma, datati rispettivamente 4 e 26 maggio 1239, compare infatti un "Leopardo clerico nato Magistri Juncte pictoris Pisani"; mentre nella seconda è citato anche un "Ioanne Pisano famulo Magistri Juncte", vale a dire un lavorante di bottega dell'artista. Importa sottolineare, inoltre, che se Leopardo, figlio dell'artista, poteva comparire come testimone a un atto notarile doveva aver compiuto almeno venticinque anni d'età. G. doveva essere allora prossimo alla cinquantina; e la sua data di nascita può essere collocata tra la fine del XII secolo e l'inizio del Duecento. In un documento del 28 genn. 1241, conservato presso l'Archivio arcivescovile di Pisa e noto in una trascrizione trecentesca (Bacci, 1922), il pittore è citato in un contratto di vendita come proprietario di un terreno nel territorio di Calci, non lontano da Pisa. L'ultima attestazione documentaria sin qui nota, fra quelle certamente riferibili a G., si ricava dalla trascrizione trecentesca di un altro documento pisano del 28 ag. 1254, nel quale "Juncta Capitinus pictor" compariva tra i nobili della città che prestavano giuramento di fedeltà all'arcivescovo Federico Visconti (ibid.). A oggi, sono soltanto queste le circostanze documentarie certamente riferibili all'artista pisano, il cui vero nome era Giunta di Capitino, come si desume dall'ultimo documento citato, nonché dall'iscrizione frammentaria in calce alla croce dipinta in S. Maria degli Angeli ad Assisi, che può essere ricostruita come segue: "(Iu)nta Pisanus (Cap)itini me f(ecit)".
A G. fu attribuita in passato l'introduzione dell'iconografia del Cristo morto (Christus patiens) che sostituì nel tempo quella più antica del Cristo raffigurato vivo sulla croce (Christus triumphans), con riferimento diretto alla spiritualità francescana tendente a sottolineare l'umanità di Gesù. Tuttavia, l'iconografia del Christus patiens era presente nell'arte bizantina sin dall'XI secolo; mentre appare d'importanza cruciale approfondire e sottolineare il rapporto assai stretto dell'arte giuntesca con la spiritualità francescana. G. fu in effetti il primo pittore ufficiale dell'Ordine, prefigurando un ruolo che alcuni decenni dopo sarà impersonato da Cimabue prima, e, in seguito, da Giotto. Il processo di umanizzazione della raffigurazione di Cristo, così straordinariamente ricco di risvolti nel campo artistico e che culminerà nei crocifissi dipinti giotteschi dei primi del Trecento, muove indiscutibilmente da G., dal suo realismo tragico, profondo e tormentato, frutto di un'autentica sintesi espressiva, esaltata da una straordinaria padronanza tecnica, come fu riconosciuto in maniera pionieristica già da Lionello Venturi (1928).
La formazione culturale di G. sembra da riportare in termini stilistici nell'ambito della fiorente cultura pisana tra la fine del XII secolo e gli inizi del XIII, anziché nella cerchia lucchese berlinghieresca - come ritenuto sovente in passato dai critici (Brandi, 1936; Carli, 1958) - e segnatamente all'attività raffinata ed eletta di quasi esclusiva referenza bizantina dei maestri dei Crocifissi provenienti, rispettivamente, dalla chiesa del Santo Sepolcro (inv. n. 1578; già n. 15) e dal monastero di S. Matteo (inv. n. 5724; già n. 20), entrambi nel Museo nazionale e civico di S. Matteo a Pisa. Il legame culturale profondo di G. con quel capolavoro altissimo della cultura bizantina in terra italiana rappresentato dalla cosiddetta Croce n. 20 del Museo di Pisa fu sottolineato per tempo dalla critica (Lazarev, 1936), ed è stato ribadito anche in tempi più recenti (Sindona, 1975; Caleca, 1986; Tartuferi, 1991). Detto legame è l'argomento più concreto per sottolineare l'imprescindibile nodo critico relativo al rapporto di G. con la cultura bizantina, cui il grande maestro pisano attinse costantemente nelle varie fasi del suo svolgimento, nei suoi diversi aspetti: dal classicismo lineare della fine del XII secolo e dell'inizio del XIII al rinnovamento stilistico di stampo neoellenistico ispirato dalle icone e dai manoscritti miniati provenienti dai regni latini di Terrasanta. Gli studi e le ipotesi critiche dell'ultimo quarto del Novecento hanno contribuito a porre in discussione, in misura anche sostanziale, l'interpretazione complessiva e l'ordinamento cronologico delle croci giuntesche codificati nel fondamentale intervento di Cesare Brandi (1936), in cui fu presentato l'imponente Crocifisso di S. Domenico a Bologna dopo il restauro, che consentì tra l'altro il recupero dell'orgogliosa firma dell'artista: "Cuius docta manus me pinxit Junta Pisanus". Nell'indicare la datazione tarda della croce bolognese, intorno alla metà del Duecento, rispetto alle altre due firmate da G. in S. Maria degli Angeli ad Assisi e nel Museo di Pisa, Brandi (ibid.) forniva anche il bilancio complessivo della sua attività, secondo cui "lo sviluppo stilistico di Giunta non va verso un sempre più accentuato espressionismo, ma si decanta in sé e progredisce in senso lirico piuttosto che drammatico". Dopo le fondamentali aperture di Boskovits (1973) e alcune ulteriori precisazioni (Tartuferi, 1991), e stante soprattutto la migliore conoscenza del panorama figurativo duecentesco della penisola, è possibile oggi delineare un'interpretazione critica aggiornata della cultura giuntesca e dei suoi riflessi più o meno diretti, nonostante l'autorevole opinione di chi è tornato a riproporre, con forza, le antiche ipotesi critiche (Carli, 1994; Bellosi, 1998 e 2000). Lo stile puramente lineare della Croce di Bologna, caratterizzata da una straordinaria eleganza ritmica, sembra da riportare in primo luogo alla cultura pisana dell'inizio del Duecento, con particolare riferimento - assai spiccato sul piano dello stile - alla Croce n. 20 del Museo di Pisa.
In questo capolavoro probabilmente ancora giovanile, G. dichiara la sua predilezione per un linguaggio improntato a una solenne gravità che trasmette tutto il pathos drammatico dell'evento senza insistere, tuttavia, sugli accenti più crudamente realistici. Per gli evidenti risvolti cronologici e di ambientazione critica, appare importante sottolineare nel dipinto bolognese anche alcuni parallelismi morfologico-iconografici con la cultura squisitamente "locale" di Berlinghiero, quali il ventre di Cristo tripartito e i capelli spartiti in quattro ciocche. Assai stringenti appaiono anche i confronti stilistici con alcuni testi fondamentali del neoclassicismo bizantino della fine del XII secolo e dell'inizio di quello seguente, quali gli affreschi del monastero di Vatopedi sul monte Athos (Lazarev, 1967, p. 212) databili al 1197-98, le miniature del messale VI.G.11 della Biblioteca nazionale di Napoli (per il quale si veda Buchthal, 1957, p. 33), oppure la celebre Crocifissione del 1208-09 affrescata nel monastero di Studeniza (Serbia), secondo quanto indicato da Boskovits (1993, p. 80 n. 151). La datazione della croce di Bologna intorno alla metà del Duecento, tradizionalmente accolta in passato, appariva corroborata anche dalle vicende storiche della chiesa di S. Domenico che fu consacrata nel 1251. Tuttavia, anche su questo punto è facile richiamare giusto il caso della dispersa croce giuntesca del 1236, in anticipo cioè di ben diciassette anni sulla data di consacrazione (1253) della basilica di S. Francesco in Assisi; e, d'altra parte, Boskovits (1993) ha sottolineato altre circostanze storiche relative alla chiesa bolognese che potrebbero giustificare l'esecuzione del capolavoro di G. entro il 1230: l'antica chiesa di S. Niccolò (poi detta di S. Domenico) fu officiata dai domenicani dal 1219; intorno al 1228 ebbero inizio importanti lavori per ingrandire l'edificio; mentre nel 1233 i resti di s. Domenico furono traslati in una cappella situata nella parte rinnovata. La quieta e accademica solennità della croce di Bologna è stata per lunghissimo tempo interpretata come il più alto risultato raggiunto da un artista maturo, ma potrebbe anche essere letta, in alternativa, come frutto dell'adesione alla tradizione culturale più illustre allora vigente - quella bizantina aulica - da parte di un giovane e geniale artista pienamente consapevole dei propri mezzi, come attestato peraltro dall'orgogliosa segnatura in calce all'opera.
Soltanto pochi anni dopo, forse un lustro o poco più, nella Croce dipinta del Museo di S. Maria degli Angeli ad Assisi G. presenta accenti stilistici già sensibilmente rinnovati, soprattutto dal punto di vista espressivo. Contrariamente a quanto è dato di riscontrare negli altri esemplari giunteschi, nella croce assisiate il corpo del Cristo accenna appena a inarcarsi e l'altissima interpretazione del mistero della morte data dall'artista è vissuta in termini straordinariamente "umani" dai protagonisti, per un dipinto che dovrebbe datare nella prima metà degli anni Trenta del Duecento. La bellissima Vergine dolente del terminale sinistro, purtroppo lacunosa, è uno dei brani della pittura di G. che documentano in modo più evidente le attitudini plastico-luministiche della sua arte. Non a caso anche Longhi (1948), nell'ambito della sua generale svalutazione dell'attività giuntesca, ammetteva almeno in quest'opera un intento pseudoplastico, opponendosi soprattutto alla tesi di Lazarev (1936) circa la derivazione dal Crocifisso n. 20 del Museo di Pisa.
Da sottolineare la maniera di segnare le lumeggiature nelle sopracciglia, sotto gli occhi, lungo la canna nasale e il collo, che richiama ancora da vicino il procedimento analogo riscontrabile nella pittura di matrice berlinghieresca, che tuttavia in G. produce effetti di maggiore evidenza naturalistica. Anche per questo ulteriore capolavoro giuntesco sono stati indicati (Boskovits, 1993, p. 81 n. 152) precisi riscontri con la produzione miniata degli scriptoria di Terrasanta, segnatamente con le illustrazioni del salterio della Biblioteca Riccardiana di Firenze (cod. 323), scritto e decorato per una principessa a Gerusalemme verso la metà degli anni Trenta (Buchthal, 1957). Si può confermare, a giudizio di chi scrive, la tesi prevalente nella critica circa l'anteriorità della Croce di S. Maria degli Angeli rispetto a quella dipinta per frate Elia nel 1236; mentre appare ancora ipotetica l'opinione (Brandi, 1936, p. 80; Boskovits, 1973, p. 340), secondo cui la perduta Croce assisiate fosse più vicina all'esemplare di Bologna, corroborata da una presunta dipendenza da essa della grande Croce della Galleria nazionale di Perugia, dipinta nel 1272 dal Maestro di S. Francesco, una ipotesi critica quest'ultima che appare opportunamente da riconsiderare (Todini, 1986).
Una forte e ineludibile affinità stilistica lega alla Croce di S. Maria degli Angeli il bellissimo dossale cuspidato del Museo nazionale e civico di S. Matteo a Pisa raffigurante S. Francesco e sei episodi della sua leggenda, che era stato avvicinato a G. da Garrison (1949), riferito al maestro pisano per primo da Boskovits (1973) e, con convinzione, anche da Tartuferi (1987; 1990; 1991) e, ultimamente, da Bellosi (1998, p. 18; 2000, p. 206). L'opera dovrebbe collocarsi cronologicamente entro la prima metà degli anni Trenta, stante la probabile dipendenza da essa della tavola analoga, forse meglio conosciuta ancora oggi, conservata nella chiesa di S. Francesco a Pescia, recante la firma di Bonaventura Berlinghieri e la data del 1235. Il dossale di Pisa, proveniente dalla chiesa di S. Francesco, è opera fondamentale di G., indispensabile per comprendere compiutamente la portata storica della sua attività. Esso ci illumina in particolare per la prima volta sugli aspetti narrativi della cultura pittorica giuntesca, in genere trascurati rispetto agli accenti drammatici. Tuttavia, anche sul piano narrativo, G. sembra essere interessato a privilegiare l'essenzialità e la concentrazione drammatica dell'evento.
Da questo punto di vista è particolarmente interessante il confronto con il dipinto di Pescia, in cui Bonaventura Berlinghieri arricchisce le storie del santo con un maggior numero di personaggi, immaginando inoltre dei fondali architettonici più complessi e articolati. Nello stesso tempo però, i personaggi del pittore lucchese occupano la scena in modo si direbbe troppo preordinato e poco espressivo. Al contrario nel capolavoro di G. ogni singolo personaggio sembra assumere un ruolo definito, caratterizzato talvolta perfino nei risvolti psicologici: si veda, per esempio, la stupenda figura del lebbroso nella scena con La guarigione dello storpio Niccolò da Foligno, oppure le due figure che assistono alla Liberazione dell'indemoniata, avvolte in ampi e fluenti panneggi di rievocazione classica. La principale obiezione avanzata da Caleca (1986) circa l'attribuzione a G. del dipinto, in base al fatto che i miracoli del santo ivi raffigurati furono codificati nel Tractatus di Tommaso da Celano soltanto nel 1250, è stata confutata nuovamente da Boskovits (1993), che ha ribadito la circostanza che tali miracoli erano certamente ben noti, in tutto o in parte, ai membri dell'Ordine francescano, anche molti anni prima che essi fossero descritti dal primo biografo ufficiale del santo.
Dalla metà degli anni Quaranta G. riuscì ancora una volta a rinnovare profondamente il proprio linguaggio, aggiornandosi puntualmente sulla cultura bizantina coeva, come provano alcuni confronti molto stringenti con miniature e affreschi (si veda in proposito Boskovits, 1993, pp. 81 s. n. 153): dalle pitture murali in una cappella a Psachna, in Eubea, datate 1245, agli affreschi della chiesa degli Apostoli a Peć (Kosovo), databili intorno al 1250, oppure alla celebre Bibbia della Bibliothèque de l'Arsénal a Parigi (ms. 5211). L'opera che documenta in sommo grado il rinnovamento in senso neoellenistico di G. è il Crocifisso cosiddetto di S. Ranierino del Museo di Pisa, firmato "Juncta Pisanus me fecit", che in realtà fu rinvenuto nel 1793 da Da Morrona "nell'alto di una parete, di fumo tinta, nella cucina del Monastero di Sant'Anna di Pisa" (Bacci, 1922).
La critica ha spesso ridimensionato la croce pisana rispetto agli altri esemplari giunteschi (per esempio, Sandberg Vavalà, 1929); e, tuttavia, è importante sottolineare il fatto che essa rappresenta la fase stilistica di G. che ha conosciuto la maggiore diffusione: in Pisa stessa nelle forme arrotate del Maestro della Croce di S. Paolo a Ripa d'Arno - un seguace entusiasta a tal punto da proporsi quasi come un consapevole "registratore" dei suoi modi - e del Maestro della Madonna dei Ss. Cosma e Damiano; nella pittura fiorentina, in Coppo di Marcovaldo all'epoca del dossale di Vico l'Abate e, soprattutto, nel Maestro di S. Maria Primerana, un artista giuntesco di stretta osservanza attivo perlopiù in territorio fiorentino; nonché, episodio di gran lunga più rilevante e fra i più alti qualitativamente nell'ambito del Duecento italiano, nell'interpretazione umbro-emiliana del Maestro dei Crocifissi Blu.
La Croce di S. Ranierino, datata generalmente nel decennio 1240-50 (Brandi, 1936; Garrison, 1949; Boskovits, 1973), è ora collocata intorno o poco oltre la metà del secolo da Boskovits (1993, p. 81 n. 153), che ne precisa meglio i riferimenti alla cultura bizantina già accennati poco sopra. Secondo un tratto caratteristico delle grandi personalità artistiche di ogni epoca, è da sottolineare la notevolissima evoluzione stilistica del pittore non soltanto nei confronti dell'aulica accademia formale di stampo lineare riscontrabile nel Crocifisso di Bologna, ma anche nei confronti dell'ineguagliabile concentrazione formale ed emotiva della Croce di S. Maria degli Angeli ad Assisi. Nella Croce di S. Ranierino è stata sottolineata l'adozione di un vero e proprio chiaroscuro (sconosciuto nella pittura italiana dall'epoca tardoromana), con una precisa funzione costruttiva della forma. Dal punto di vista stilistico colpisce anche il sensibile ammorbidimento del modellato, rilevato già dalla Sandberg Vavalà (1929), nonché la stesura del colore più facile e corsiva, che nelle figure dei dolenti arriva quasi a risultati di pittura compendiaria. Indimenticabile dal punto di vista pittorico è anche la figuretta del Cristo benedicente nel tondo della cimasa, avvolta in un vivace mantello rosso, fatta di tenera pastosità cromatica e intrisa di luce. D'altra parte, la rilevanza di questi aspetti più propriamente pittorici nulla toglie alla valenza espressiva dell'immagine, che s'impone con solenne grandiosità, pur nelle ridotte dimensioni.
Conviene ribadire anche in questa occasione l'inutilità pratica, a giudizio di chi scrive, di disquisire circa eventuali "collaboratori" del maestro pisano - non altrimenti riconoscibili in modo inequivocabile - che secondo alcuni critici (Garrison, 1949; Carli, 1958 e 1994) sarebbero intervenuti curiosamente soprattutto nelle tabelle laterali delle croci giuntesche dove sono raffigurate le figure dei dolenti.
Al momento più intensamente neoellenistico della Croce di S. Ranierino si collega intimamente la bellissima Madonna col Bambino del Museo di Pisa (vecchio n. 13), già accostata al pittore da Tartuferi (1991, pp. 21-23, fig. 6), che per l'altissima qualità non trova confronti tra le altre Madonne pisane databili intorno alla metà del Duecento. Si tratta cioè, probabilmente, dell'unica Madonna col Bambino dipinta da G. arrivata ai giorni nostri o sin qui identificata, confrontabile soprattutto con la Croce di S. Ranierino, e in particolare con le figure dei dolenti. Dal confronto emerge con chiarezza la stretta analogia dell'intensità espressiva e della stesura cromatica, nonché un'identica potenzialità di rievocazione classica che si esprime in particolar modo nella respirante naturalezza del Bambino. I temi formali proposti da G. nel Crocifisso di S. Ranierino si ritrovano coerentemente sviluppati nel dossale del Museo del Tesoro della basilica di S. Francesco in Assisi raffigurante S. Francesco e quattro storie della sua vita, da ritenere certamente uno dei capolavori della pittura italiana duecentesca, soprattutto a motivo della fortissima carica espressiva e per il carattere anticipatore nei riguardi della cultura pittorica della seconda metà del secolo. La tavola fu eseguita probabilmente intorno o poco oltre il 1253, anno in cui fu consacrato l'altare della chiesa inferiore, che figura puntualmente descritto in entrambe le storie a destra. A venti anni di distanza dal dossale francescano di Pisa, G. presenta ancora una volta un linguaggio profondamente rinnovato, trasferendo l'interesse prevalente dagli aspetti plastico-emotivi a quelli narrativi e compositivi. Nella tavola pisana s. Francesco si presentava quasi con un tono di orgogliosa fierezza, esaltato anche dall'asciutta robustezza plastica dell'immagine. Il santo dipinto al centro della tavola di Assisi è caratterizzato invece da una marcata connotazione in senso ascetico e pauperistico, sottolineata anche dal passo evangelico trascritto nelle pagine aperte del libro che egli tiene in mano. Tuttavia, le novità più interessanti riguardano le scene laterali, nelle quali il pittore si presenta, forse per la prima volta, nelle vesti di un autentico narratore: dimenticata la folgorante essenzialità rappresentativa che caratterizzava le storie del dossale di Pisa, G. sembra abbandonarsi alla gioia di sperimentare le infinite opportunità offerte da un libero sentimento narrativo.
Il Miracolo della bambina con la testa attaccata all'omero si svolge alla presenza di una gran folla: i personaggi avvolti in ampi e fluenti panneggi sono dipinti - come nelle altre scene - con quella stesura accelerata e tuttavia ricca dal punto di vista della materia pittorica, che contraddistingue la pittura giuntesca dalla Croce di S. Ranierino in avanti. Alcuni importanti elementi di novità in questa fase estrema dell'attività di G. sono da indicare, semmai, nel pronunciato allungamento delle figure e nella colorazione a tratti assai più accesa. Nella scena citata poco sopra non si può fare a meno di sottolineare l'importanza della veduta cittadina, con le torri, i palazzi e le chiese, autentica prefigurazione di quella fantastica veduta di Roma che saprà dipingere sulla volta della crociera della chiesa superiore di S. Francesco in Assisi "un quarto di secolo dopo, solo un Cimabue" (Boskovits, 1973, p. 350). D'altra parte, notevoli fondali architettonici compaiono anche nelle altre scene, caratterizzati da uno spiccato accento classicheggiante, nell'accezione tipica per un artista duecentesco. Si veda, per esempio, l'edicola con il coronamento piramidale nella stessa scena della fanciulla guarita, oppure l'edificio sulla destra nella storia della Liberazione dell'indemoniata, con il suo avancorpo in prospettiva. È probabile che queste importanti sperimentazioni spaziali siano da interpretare alla luce del quasi certo soggiorno romano del 1239, o di altri possibili soggiorni nella città papale a noi ignoti.
A parere di chi scrive, le opere attribuibili a G. con minore incertezza sono quelle sin qui ricordate, sebbene almeno altri due dipinti siano da riportare in ambito a lui assai prossimo. A cominciare dal noto Crocifisso processionale dipinto su entrambi i lati del Museo di Pisa (n. 2325), che fu pubblicato come opera di G. da Bacci. D'altra parte, non mancano anche in anni più recenti tentativi d'inserire nuovamente quest'opera nel catalogo giuntesco (Caleca, 1978 e 1986; Carli, 1994). Tuttavia, nel ribadire nuovamente l'identità esecutiva delle due facce, si ritiene ancora oggi che l'opera rappresenti la più antica e autorevole espressione della "scuola" giuntesca, nonché un precorrimento dell'interpretazione successiva dell'arte del grande maestro, che nella sua città conobbe indubbiamente una notevole fortuna, com'è documentato anche dall'altro Crocifisso ben noto del Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo, firmato da Ugolino di Tedice. Per quanto riguarda, poi, l'altro dossale della Pinacoteca Vaticana (n. 24) con S. Francesco e quattro storie della sua vita, proposto come opera di G. da Boskovits (1973), chi scrive ritiene di dover confermare la marcata diversità stilistica che lo separa dal dossale del Museo del Tesoro di S. Francesco in Assisi, asserita ora anche da Carli (1994, p. 16).
Se si osserva la scena con la Liberazione dell'indemoniata in esso raffigurata e la si confronta con quella analoga del dossale assisiate, non si può fare a meno di notare nella prima raffigurazione una minore tensione espressiva, nonostante gli atteggiamenti dei personaggi siano più platealmente gesticolanti. È inoltre da evidenziare il fatto che il motivo decorativo che incornicia sui due lati la figura stante di s. Francesco nel dossale vaticano, ricorre con una certa frequenza nella pittura toscana duecentesca. Le forme arrotate dei personaggi, alcuni dei quali si distinguono soprattutto per gli accenti singolarmente plastici e un po' rustici, potrebbero rinviare, forse, a una più generica derivazione giuntesca di area pisano-lucchese intorno o poco oltre la metà del Duecento.
Le due proposte attributive avanzate di recente da Bellosi (1998, pp. 61, 116), seppure in forma ampiamente dubitativa, non risultano convincenti dal punto di vista del riferimento diretto a G. o al suo ambito più stretto, e tuttavia contribuiscono a chiarire il contesto critico più ampio nel quale operò l'artista e i riflessi della sua arte. L'intenso e ben noto dittico di Chicago (n. 1933.1035: Lloyd, 1993) non spetta certamente a G. ma vale a sottolineare la profondità e l'importanza essenziale del suo legame con la produzione artistica del Regno latino di Gerusalemme, cui esso appartiene senza dubbio, opportunamente evidenziata da Bellosi (1998): e appare davvero plausibile che G. abbia potuto raggiungere le terre dei crociati a bordo di una nave pisana. Per quanto riguarda poi la piccola Madonna col Bambino in trono della Galleria di Dresda, proposta con dubbio come opera di scuola (ibid.), che fu classificata da Garrison (1949, p. 99 n. 250) come opera veneziana del primo Trecento, appare sì connessa con G. nel senso che potrebbe rivelarsi, a parere dello scrivente, un'interessante aggiunta al suo più esplicito seguace fiorentino, vale a dire il menzionato Maestro di S. Maria Primerana. Ma della trattazione relativa a G., nell'ambito della monografia dedicata a Cimabue di Bellosi, occorre in primo luogo sottolineare proprio la riconferma critica del ruolo primario giocato dall'arte giuntesca nella formazione del caposcuola fiorentino (Bellosi, 1998, pp. 30-34).
Tralasciando qui altre attribuzioni a G. avanzate in passato (per cui si rimanda a Tartuferi, 1991, p. 18), merita soffermarsi ancora sul fenomeno davvero rilevante della diffusione non superficiale della cultura giuntesca in diverse realtà locali dell'Italia centrosettentrionale. Appare più probabile l'ipotesi che G. si sia temporaneamente inserito di persona in queste diverse realtà (Bologna, Assisi, Roma, forse anche a Firenze, alla luce dell'attività del Maestro di S. Maria Primerana), anziché inviare le opere dalla sua bottega in Pisa. Più complesso appare oggi il rapporto effettivo con la cultura giuntesca dei principali artisti umbri attivi nel terzo quarto del secolo, che secondo studi di anni recenti sembrerebbe da riconsiderare e circoscrivere in maniera più precisa (ibid., pp. 24-28). Il maggior seguace umbro di G. era ritenuto in passato il cosiddetto Maestro di S. Francesco. Tuttavia, negli affreschi nella navata della chiesa inferiore di S. Francesco in Assisi con Storie della vita di Cristo e di s. Francesco, databili intorno al 1260, egli denota in effetti una certa interpretazione del patetismo giuntesco ma, rispetto allo studiato e lucente plasticismo del Crocifisso di S. Maria degli Angeli, non vorrà - o non saprà - mai discostarsi da un linguaggio sostanzialmente grafico, arricchito da sottili scansioni ritmico-lineari e cromatiche. Di gran lunga più importante, soprattutto per l'originalità e la rilevanza qualitativa, appare invece l'interpretazione della cultura giuntesca attuata dal Maestro dei Crocifissi Blu, uno dei massimi artisti del Duecento italiano, la cui attività sembra dividersi tra l'Umbria e l'Emilia nel corso del terzo quarto del secolo (si rimanda ancora alle note riepilogative contenute ibid., pp. 27 s.). Tuttavia, già da lungo tempo ormai, gli studi di storia dell'arte hanno spesso indicato in Cimabue uno degli eredi più legittimi di G. (Brandi, 1936, p. 91; Boskovits, 1979, p. 538), e tale indicazione critica fondamentale risulterà certamente corroborata dal restauro, avviato nel 1998, della grande Croce dipinta della chiesa di S. Domenico ad Arezzo, unanimemente riconosciuta come l'opera più antica del maestro fiorentino giunta fino a noi. Nel capolavoro aretino sono soprattutto le bellissime figure dei dolenti a documentarci un rapporto di discendenza diretta dalla fase più intensamente neoellenistica di G.; tuttavia, in termini più generali, è stato già sottolineato (Tartuferi, 1991, p. 29) come dal grande collega pisano Cimabue abbia derivato la capacità di rappresentare il dramma della Crocifissione in modo indicibilmente sospeso tra dolorosa evidenza reale e astratta, atemporale sintesi di norme iconografiche e formali già codificate. La poderosa sintesi interpretativa degli stimoli culturali di fonte bizantina operata da G., segnata da altissima originalità, contribuì in maniera decisiva a rinnovare profondamente il linguaggio figurativo di vaste aree dell'Italia centrale (Boskovits, 1973, p. 339), costituendo inoltre un fattore storico di aggregazione e omogeneizzazione culturale, in anticipo di alcuni decenni rispetto alle analoghe operazioni "nazionali" condotte da Cimabue e da Giotto, sempre con il tramite significativo dell'Ordine francescano. Alla luce di questi concetti ci appare ancora oggi in tutta la sua pregnanza critica l'antica e lapidaria conclusione riassuntiva di Cesare Brandi (1936, p. 91): "Nessun pittore è più grande di lui in Italia, prima di Cimabue e di Duccio".
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