Giurisdizionalismo
Georges De Lagarde, per descrivere i "Prodromi dello Stato moderno", ha tracciato il profilo di cinque diversi modelli secondo cui si sviluppò l'organizzazione delle società europee negli ultimi secoli del Medioevo. Dovunque "innumerevoli piccoli movimenti granulari", nel loro moto vorticoso, si andavano agglomerando "attorno ad invisibili calamite"; ma soltanto in tre casi quelle forze gravitazionali riuscirono a far nascere strutture politiche e giuridiche territoriali di dimensione ampia, quindi competitiva. "Il più chiaro esempio" di questo processo "ci è offerto dall'Italia del sud". In quelle terre, infatti, di recente liberate da longobardi, bizantini e arabi, e perciò (in teoria) meno condizionate da strutture anteriori, Federico II preferì realizzare il suo esperimento. "Abbandonò la Germania ai suoi prìncipi e la Lombardia alle sue città, e dotò il suo regno prediletto di una vera e propria amministrazione, che concentrava nelle sue mani la direzione totale del paese". Si è assistito così alla "creazione, per atto volontario, del primo Stato amministrativo" (De Lagarde, 1961, p. 176).
In altri due Regni, in Francia e in Inghilterra, si svilupparono analoghi processi. Oltralpe Luigi IX realizzò la concentrazione dei poteri regi senza inimicarsi i papi, tanto che ventisette anni dopo la sua morte, nel 1297, Bonifacio VIII lo canonizzò. Tuttavia, proprio allora (tra il 1296 e il 1303) un diretto nipote del re santo, Filippo IV il Bello, entrò in palese e radicale conflitto con lo stesso pontefice; ma la fase d'accentramento era ormai compiuta. Nelle chiese il clero si schierò contro il papa e dalla parte del re, che parlava "del suo fisco come un imperatore d'altri tempi". Il suo segreto fu di creare a proprio sostegno un "movimento di solidarietà degli stati", ossia dei ceti (ibid., p. 182). Nacquero così le linee di una grande impresa pubblica cooperativa, fonte dei futuri successi. L'immaginario collettivo vide la monarchia quale autorità stabile, assoluta, eppure rappresentativa. Sul piano ideale e sentimentale se ne ebbero coesione e vantaggi simili a quelli prodotti dalla futura democrazia.
Sviluppo analogo, e anche più palese, subì l'organizzazione istituzionale d'oltremanica, che assunse sin dalle origini un carattere particolare, poi adottato dagli stati moderni in tutto il mondo, nella loro fase più evoluta: "il bene comune fu dato dalla conciliazione contrattuale dei diversi beni particolari", tanto che "l'ideale inglese" dello stato fu, "secondo un'espressione di Sainte-Beuve, 'l'equilibrio di certi poteri, che emanavano da fonti differenti'" (ibid., p. 184).
In Germania e nel resto d'Italia il fenomeno di un'agglomerazione sociale sufficientemente ampia non ebbe neanche avvio. Nelle regioni dello Stivale, quando il tentativo fridericiano fu stroncato sul nascere, si verificò la ripresa delle condizioni d'instabilità, che erano durate oltre sei secoli e si protrassero per altrettanto tempo. Volendo richiamare l'immagine usata prima, si può dire che nell'immaginario collettivo italiano l'autorità pubblica non riuscì a essere né stabile né assoluta né rappresentativa, e quindi non coinvolse la società neanche in una parvenza d'impresa comune. In conseguenza la legalità, che non può esser mai soltanto coazione, fu oggetto di culto formale e di scetticismo sostanziale, ossia rimase inefficiente e fittizia. La culla dov'era nato il diritto era e rimase invasa da sterpi. A metter ordine non venne nessuno.
Perciò gli ultimi due "esempi" o "modelli", che De Lagarde indica in ordine decrescente d'importanza, ossia i principati germanici e i comuni italiani, ebbero influenza molto modesta nel quadro degli sviluppi storici successivi, quando solo le grandi strutture politiche furono capaci d'incidere sulle sorti dell'umanità. In effetti, in un pulviscolo di realtà anguste, ciascuna di quelle società continuò a vivere "nel ristretto ambito del suo minuscolo dominio". Si può aggiungere che l'andamento seguente della storia europea confermò la validità della 'legge' storica indicata da Machiavelli nel secondo libro dei Discorsi: solo gli stati di grandi dimensioni sono in grado di migliorarsi. Questa norma si è imposta durante l'intera età moderna, e vige ancora. Al contrario, torbidi umori, nati dalla servitù e fonti d'incoerenze, mistificazioni e dispersioni, fermentarono in seno alle comunità italiane che non avevano saputo organizzarsi per difendere la loro autonomia. Soltanto l'individuale edonismo artistico valse a nascondere la profonda crisi di un'intera civiltà.
Il riferimento al quadro europeo complessivo, qui sommariamente tratteggiato utilizzando l'opera di uno storico capace di fornire diagnosi limpide in merito a problemi gravi e molto intricati, serve a mettere in luce una palese contraddizione, che si riscontra esaminando i temi del costituzionalismo medievale-moderno e del giurisdizionalismo. Lo stato fridericiano fu la prima e la più eminente delle forme assunte dalle organizzazioni accentrate; ma perse subito d'importanza, tanto che quel modello non raggiunse una posizione di rilievo nella letteratura che si occupa del giurisdizionalismo, ossia del sistema dei rapporti tra gli stati e le Chiese. Nel ricostruire queste tematiche, la storiografia ha seguito altri percorsi rispetto all'esempio fridericiano, e sostanzialmente lo ha trascurato. Si può dire che, fin dall'inizio, i teorici che scrissero a sostegno delle giurisdizioni regie ostentarono disinteresse nei confronti della politica e delle opere dell'imperatore svevo. La differenza di dimensioni tra i due fenomeni è tale da porsi come un problema storiografico.
Il nome di Federico II è assente nella splendida opera di Ugo Grozio De imperio summarum potestatum circa sacra, il libro che maggiormente influì nel formarsi e diffondersi del giurisdizionalismo europeo. Questo Commentarius posthumus fu dato alle stampe a Parigi nel 1647, privo d'indicazioni tipografiche, in 24o (pp. XXVI + 392 + XX), in base all'autografo, composto dieci anni prima. Fin dall'inizio il florilegio delle citazioni spazia a largo raggio, da Omero ad Aristotele, da Platone a Plutarco, da Livio a Virgilio, dalla Bibbia alla Patristica, da s. Agostino a s. Tommaso, da Marsilio da Padova a Niccolò Cusano, non senza aver riconosciuto che, nella trattazione di quei temi, fu Melchior Goldast ‒ lo storico svizzero morto nel 1635 ‒ a ottenere "merito suo palmam". Grozio cita largamente i legislatori, antichi e moderni; ma, in tutto il libro, i riferimenti più frequenti e largamente privilegiati riguardano l'area inglese, e in parte quella francese, ma non è trascurata la Spagna dei concili toledani (p. 291). Sia pure in un rapido accenno, l'autore (stranamente) mostra di dar fede (p. 12) alla mitologica notizia, tratta dal Liber pontificalis, secondo cui fin dall'epoca di papa Eleuterio (fine sec. II) una lettera pontificia "vocat" il re dei britanni (Lucio) "Vicarium Dei in regno suo". Questo vicariato primigenio divenne poi struttura costante della Chiesa anglicana, che arrivò a prevedere la scomunica contro chi si azzardasse a negare, nelle controversie ecclesiastiche, l'assoluta autorità del re inglese, secondo un uso già ebraico (ibid., pp. 13 e 222).
Grozio cercava di retrodatare, e quindi nobilitare, i tentativi che gli stati avevano compiuto per affrancarsi dalla tutela ecclesiastica. La norma antica acquistava autorità in base al principio espresso da Tertulliano (autore più volte citato nel De imperio), secondo cui "quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est, hoc teneatur". La legislazione fridericiana sfuggiva a questa regola. Il consensus gentium, criterio umanistico di verità che il filosofo arminiano riformulò e cercò di rafforzare, era canone ancora saldo: mentre le radicali critiche di Montaigne, Charron, Bacon tardavano a prevalere, la figura di Federico era circondata da vaghe fantasie letterarie, che sfumavano nelle nebbie del Medioevo, che lasciavano intravedere un'immagine satanica di "Anticristo", come l'aveva definito Gregorio IX. All'imperatore svevo e ad Averroè ‒ il filosofo arabo-musulmano di Cordova che era vissuto mezzo secolo prima ‒ fu attribuita la paternità del mitologico trattato Dei tre impostori (Berti, 1994, pp. 24-55). Quest'accusa circolò in Europa, tanto che ‒ come riferisce Francesco D'Andrea attingendo alle storie di Luigi IX ‒ Federico II sentì il bisogno di smentirla "bastantemente presso [quel] re", con cui era in buoni rapporti (D'Andrea [1682], 1993, p. 211). Da quei tempi lontani spiravano, ancora nel Seicento, venti torbidi, e dissuadevano chiunque ardisse issare vele fridericiane. Intanto, invece, procedeva spedito il vascello inglese che, concreto, ben equilibrato, si avviava a diventare, con la sua rapida navigazione, il modello della razionalità politica, fondata sui risultati della rivoluzione scientifica.
Autorevole sostenitore dell'influenza inglese sul giurisdizionalismo italiano è stato Arturo Carlo Jemolo che, trascurando la mediazione di Grozio, ha indicato un'altra via di tramissione, il De Republica ecclesiastica di Marco Antonio De Dominis. Anche questi libri, dedicati a Giacomo I e pubblicati a Londra nel 1617, s'ispiravano decisamente al modello d'oltremanica (Jemolo, 19722, p. 25). L'autore, un filosofo dalmata, era legato a Sarpi, di cui tradusse in latino la Storia del concilio tridentino: opera in cui il nome di Federico II è citato solo tre volte, a proposito delle ostilità dei papi, indicate senza approvarle né criticarle. Le stesse cautele il frate veneziano usò verso Filippo IV il Bello. Ebbe, invece, come punto di riferimento l'esempio rappresentato da Giacomo I. Quel re incarnava per lui, come scrisse in una lettera del 1610, il "re savissimo", anzi "l'ideale di un principe, cui [tuttavia] forse niuno si conformò nei secoli trascorsi" (ibid.). Quest'ultimo riferimento conferma che Sarpi, per quei problemi, riteneva inutile, forse pericoloso, risalire più indietro del Seicento.
Il De imperio di Grozio, pubblicato circa tre lustri dopo la Storia di Sarpi e protetto dalla forma inedita (ma certamente destinata alla pubblicazione), fu assai più libero: utilizzò, tra innumerevoli testi, anche il Tractatus de potestate regia et papali di Giovanni da Parigi, secondo cui, per la magistratura regia, è doveroso respingere ogni "abusum gladii spiritualis" che colpisca la Respublica dall'esterno, altrimenti il re "gladium sine causa portat" (U. Grozio, De imperio, pp. 21-22). I dieci libri dell'opera del De Dominis, pur pubblicati trent'anni prima, non potevano certo competere, sul piano della diffusione, con il De imperio, un libro agile e sintetico, di un autore in assoluto tra i più letti in quei decenni. Due principi sostenevano l'intera costruzione dell'opera: "non possunt in una republica duo esse legislatores aeque summi" (ibid., p. 193) e, in ogni caso, il primato tocca alla società civile sulla ecclesiastica, perché anche se nello stato naturale i sacerdoti ebbero giurisdizione, "eam non habuerunt ut sacerdotes, sed ut magistratus" (ibid., p. 201).
La forza del pensiero groziano veniva dalla "tendenza irenica umanistica, che credeva ad una soluzione del conflitto cattolico-protestante", sfociato allora, di recente, in stragi barbare. A quest'impulso si aggiunse presto la nuova "fiducia nella ragione comune o universale", tanto che "la razionalità", su cui puntava il cartesianismo, "divenne la caratteristica di tutta la cultura" europea. Lo juris fundamentum fu posto nella ratio (Mastellone, 1969, pp. 42-43), intesa non come vaga astrazione, ma quale concreta e positiva organizzazione statale. Si può dire, pertanto, che il riferimento all'imperatore svevo, assente nel De imperio, fu rivalutato nella fase razionalistica, in armonia con l'altra opera di Grozio, il De jure belli ac pacis. Non a caso il pensiero del filosofo olandese influì largamente sia sul cartesiano D'Andrea, sia sull'anticartesiano Vico.
Nel Mezzogiorno d'Italia, per ovvie ragioni, la figura di Federico II aveva mantenuto sempre notevole rilievo. Fin dall'epoca angioina, due contrapposte tradizioni di studi, rappresentate all'origine da Marino da Caramanico e da Andrea d'Isernia, avevano discusso l'attività legislativa fridericiana. Sul piano giuridico tecnico e nei limiti di specifiche questioni di diritto, quei precedenti non potevano essere ignorati: ad esempio, a proposito dei criteri di successione feudale more langobardorum o francorum (Cernigliaro, 1983, pp. 674-680). Marino aveva considerato anche formalmente valide le Costituzioni, perché promulgate prima della sconfessione. Per i detrattori, in particolare per il giurista guelfo d'Isernia, propugnatore di un "sistema che i costituzionalisti moderni chiamano teocratico" (Palumbo, 1887, p. 220), le leggi sveve non facevano testo, perché l'imperatore era stato deposto e sconfitto. Anche prescindendo da questo epilogo, "Federicus Imperator" sarebbe stato un tiranno, e "facta tyranni revocentur". In ogni caso, le sue Costituzioni "nihil valent, imo sunt cassae et irritae, quia sunt contra personas ecclesiasticas et ecclesiasticam libertatem" (ibid., pp. 194-195).
Solo nel 1723 uno storico e avvocato, Pietro Giannone, prendendo spunto dalla Disputatio an fratres di Francesco D'Andrea, ebbe il coraggio di andare nettamente oltre la diagnosi giuridico-formale: osservò che il criterio usato da Marino per giustificare la validità delle Costituzioni, pur lodevole, era tuttavia "leggiero", ossia conciliativo e inaccettabile. Bisognava, invece, recisamente invalidare le scomuniche e affermare che quelle censure "non hanno niente a che fare colla potestà, che tengono i principi, in istabilire le leggi", così come non possono "disumanare gli uomini" e strapparli alla "società civile, e molto meno i Prìncipi da' loro Reami" (Giannone, 1770, VII, pp. 416-417, lib. XVI, cap. 8). Lo storico-giurista, sempre riferendosi all'opera di D'Andrea, condannò l'"animo esasperato" del commentatore d'Isernia, il suo modo opportunistico di comportarsi nei confronti dei re angioini, e si diffuse, con compiacimento, a raccogliere testimonianze sulla sua morte violenta, subita per vendetta, nel 1353 (ibid., X, pp. 98-101).
Naturalmente, sia nelle fonti archivistiche giurisdizionali e diplomatiche del Cinquecento e del Seicento ‒ si pensi ai dibattiti nel Collaterale all'epoca del viceré Granvelle, e all'inedito De iurisdictione di G.F. De Ponte (Zotta, 1987, p. 347) ‒ sia in molte opere giuridiche e storiografiche del Mezzogiorno, il Giurisdizionalismo (detto poi) pregiannoniano era già presente. Questo è il titolo di un'ampia rassegna di fonti, pubblicata nel 1974 da Agostino Lauro, che tuttavia del fenomeno "tralascia le radici antiche e meno antiche, innestate sul 'laicismo' di Federico II e nel ghibellinismo di Manfredi" (Lauro, 1974, p. 133).
Che in modo "totalmente diverso" dovessero esser regolate "la società civile e l'ecclesiastica" era tesi formulata da Giuseppe Valletta e condivisa dai giuristi laici. Ne discendeva l'impossibilità di conciliare i due poteri, e quindi la necessità di tener distinte le due giurisdizioni, "del Principe e del Pontefice". Affermazione cui si collegava una differenza che coinvolgeva la figura di Federico II e la fortuna della sua legislazione: la severità delle pene. Valletta distinse nettamente le leggi "del rigore, che sono del principe", e quelle "della pietà, che sono della chiesa" (De Giovanni, 1958, p. 165). La commistione dei due metodi, come precisò Paolo Mattia Doria, si era rivelata deleteria. Il problema era molto sentito: il pensiero critico, spinto da esigenze di concretezza e dal bisogno di adottare modelli europei di efficiente organizzazione statale, chiedeva severità; ma il giusnaturalismo avanzante veniva a rafforzare lo spirito cattolico di misericordia e faceva apparire troppo dure le pene comminate da Federico II per reati anche lievi. Il modello svevo ritornava in auge ad opera dei riformatori, per indicare il rimedio 'moderno' alla paralisi delle pubbliche autorità, bloccate dallo scontro tra le giurisdizioni. Valletta, contro la tesi di Accursio, giustificò il rigore fridericiano ricorrendo al metodo storiografico, suggeritogli da Grozio, e dimostrò che la severità delle leggi duecentesche era giusta, in quanto commisurata a somme che erano elevate nel Duecento, ma allora, alla fine del Seicento, essendo indicate con la stessa cifra, erano divenute lievi per effetto dell'inflazione (Comparato, 1970, p. 71).
Il conflitto tra versione statale ed ecclesiastica si riproduceva continuamente in tema di Sant'Uffizio. La costituzione fridericiana Inconsutilem stabiliva che "gli eretici fossero perseguitati dagli ufficiali regi". Queste norme, secondo Serafino Biscardi, Pietro De Fusco, Gaetano Argento e altri, dimostravano che l'Inquisizione delegata, organismo operante "attraverso giudici deputati dal pontefice", non era stata accettata da Federico II, almeno nel Regno (Luongo, 1993, p. 35).
L'inserimento di Federico II al centro di un'interpretazione laica della storia meridionale e italiana fu opera di Francesco D'Andrea, il massimo restauratore del pensiero critico nel Mezzogiorno d'Italia. Bisognava cercare di ricostruire la serie dei fatti liberandola dalle tesi ecclesiastiche, che avevano prodotto, nei secoli del dominio temporale pontificio, profonde deformazioni della vita e della storia. La linea interpretativa fu delineata la prima volta in un'inedita Risposta, che il giurista di Ravello stese nel 1682 contro la rivendicazione dei diritti di Luigi XIV nella successione a Carlo II, ed è rimasta inedita fino al 1993. Le ragioni francesi erano state sostenute in un'opera di Pierre Dupuy, e il compito di smentirle fu affidato a D'Andrea dal viceré Fernando Fajardo, marchese de los Vélez. Questi aveva profonda stima del giurista, lo indicava come "gran personaggio" e lo elesse come suo costante collaboratore culturale (Mastellone, 1969, p. 63; García Marín, 2003, passim). La Risposta contiene un incisivo profilo della storia del Regno, diretto a demolire la legittimazione giuridica della conquista angioina e a rivalutare nettamente il governo di Federico II. A questo proposito D'Andrea formula una serie di giudizi molto netti: nega la legittimità delle scomuniche comminate dai papi all'imperatore; afferma che esse nascevano da un insieme "totalmente temporale" di motivi; qualifica "ingiusta la [...] privazione" del trono a carico dello Svevo e "altrettanto ingiusta l'investitura in persona di Carlo I"; descrive con toni risentiti le "crudeltà" usate dalle parti papale e angioina contro i figli e la moglie dell'imperatore dopo la sua morte. Furono "atti d'inumanità" che "ne men tra le nazioni più barbare si sarebbon" verificati, ed erano fondati soltanto sulla "ragion di Stato". In appunti autografi D'Andrea ribadì queste sue tesi, dimostrando i buoni rapporti tra l'imperatore e Luigi IX mediante rinvii alla storiografia francese e configurando un programma di ricerche in quella direzione (D'Andrea [1682], 1993, pp. 192 e 212).
Gaetano Argento e Giannone svilupparono quelle tesi in modo fedele, puntuale, aggiungendovi una serie di dettagli. Il primo concluse un'ampia trattazione di quel problema soffermandosi sullo sterminio della famiglia di Federico II, "azione che [...] da tutti i principi del mondo fu stimata sì barbara, che finché viveranno l'istorie, non lasceranno [...] di averne un perpetuo orrore, con eterna infamia del [...] nome" di chi le realizzò (Luongo, 2001, p. 259). L'apoteosi della personalità fridericiana comportava avversione per la dinastia angioina (ibid., p. 244), che aveva demolito le "solide basi" su cui "Federico II, resistendo alle pretese ecclesiastiche, aveva impostato i rapporti tra lo Stato meridionale e la Chiesa romana" (ibid., p. 609). Argento dimostrò illegittima la sottomissione feudale del Regno ai pontefici. Essi cercarono spesso di realizzare le pretese teocratiche di Gregorio VII, che sempre avevano provocato "funesti accidenti alla Chiesa" ed "eccitarono in Europa tante sanguinose tragedie" (ibid., pp. 612-639). Com'è evidente, si delineava così un'ampia linea interpretativa, la cui concretezza era da Argento collaudata mediante l'esame di ben precise e dolenti questioni di diritto positivo. Era un iter storiografico che, per la sua estensione e carica polemica, non aveva precedenti nella cultura cattolica e che si poneva in una posizione più obiettiva, o almeno meno partigiana, della critica storica protestante, fondata e sviluppata nel Cinquecento dai Centuriatori di Magdeburgo.
Giannone formulò in modo esteso, appassionato e ordinato questo profilo storiografico ed ebbe il coraggio di prepararlo per la stampa, fidando nella congiuntura favorevole, che vedeva Argento leader del ministero togato e Carlo VI costante nel dare spazio ai giuristi critici, e in genere alla cultura moderna. Nel 1723 fu costretto ad affrettare la pubblicazione della sua Istoria civile quando si accorse che il momento propizio stava cambiando, perché l'imperatore, desiderando mettere in sesto la sua posizione dinastica, era disposto a cedere non poco alla corte romana. La nomina a viceré del cardinal d'Althann fu la conseguenza di quella politica viennese: ma gradualmente le anacronistiche pretese di restaurazione curialesca furono demolite. La precarietà era un aspetto delle esterne e interne difficoltà di esprimersi in cui si trovava il pensiero critico nel Mezzogiorno. Una serie di opere tecniche indispensabili alla ricostruzione storica dei rapporti tra stati e Chiesa ‒ ad esempio lo Ius ecclesiasticum universum di Zeger Bernard van Espen ‒ erano poste all'indice, e Giannone le utilizzò rischiando. Perciò meno ardita è la critica giannoniana di Gregorio VII, che era stato canonizzato santo nel 1606 da Paolo V, e delle cui idee e iniziative teocratiche s'invaghì agli inizi del 1729 Benedetto XIII, suscitando tuttavia la reazione dei giurisdizionalisti italiani. Quanto ai teologi tedeschi, essi ‒ così scrisse Giannone ‒ collocano quel papa in "una sede gloriosa quanto quella di Lucifero" (12 febbraio 1729; Giannone, 1983, p. 600): ossia lo condannano duramente.
Eduard Fueter scrisse che la Storia di Sarpi, troppo legata alla congiuntura politica, "non poteva fare scuola"; affermò invece che l'Istoria civile "ha introdotto nuova materia nel campo della storiografia", ne ha ampliato il contenuto in direzione sociale e istituzionale, tanto che Giannone si può dire sia stato il "fondatore della storia giuridica e costituzionale" (Fueter, 1970, pp. 355-356). La sua opera fu anche e appieno una storia politica: le disgrazie dell'imperatore svevo furono descritte come il segno e il punto di partenza del ciclone che da allora travolse il Sud d'Italia. L'etnia meridionale, grazie anche a quei libri e al sacrificio personale del loro autore, si avviò a diventare ‒ come poi alla fine del secolo si scrisse ‒ la 'nazione napoletana'.
La complessiva rivalutazione della personalità di Federico II, compiuta da Argento e da Giannone, si trasferì, riveduta e corretta, in Antonio Genovesi. È importante notare in lui lo spostarsi della critica dell'esistente oltre la sfera giurisdizionale e verso i problemi della paralisi economica. La diagnosi genovesiana acquistò un mordente ancora più acuto e profondo, in relazione a una valutazione generale delle vicende sociali del Mezzogiorno. L'abate salernitano guardava al re svevo non soltanto per la difesa che quell'"ammirabile sovrano" aveva fatto della giurisdizione regia, ma specialmente per la sua capacità di 'costruire' un modello di stato che potesse stare al pari con gli altri, ormai pervenuti a un punto elevato di maturazione, e il cui recupero diventava difficile in Italia: qui, per un rapido sviluppo dell'economia e dell'organizzazione statale, si erano logorate e non esistevano più le condizioni di base nella psicologia sociale, o ‒ come oggi si direbbe ‒ nella sociologia culturale. Genovesi, polemicamente, ammirava il carattere rigoroso che "il più gran Principe de' più infelici tempi" aveva impresso alla sua legislazione e che, dopo di lui, era andato disperso.
Un coordinamento efficiente dei poteri, delle autorità, delle istituzioni è la premessa di ogni produttività. Un aspetto rilevante dello sfascio in cui versava l'azienda pubblica borbonica era il prevalere costante dello spirito di compromesso, che Genovesi indica come "legge di misericordia". Egli ricorda che già s. Agostino aveva condannato la "misericordia crudele", ossia la "crudeltà misericordiosa". Aggiunge che un teorico dello stato, come Charles-Irénée Castel, abbé de Saint-Pierre, "chiamerebbe" la severità delle pene adottata da Federico II "capo d'opera di Politica" (Genovesi, 1791, p. 124). Il professore di Meccanica e commercio avvertiva molto vicine al proprio modo di sentire le teorie del 'cartesiano' abate francese, secondo cui "il commercio è la fonte principale della ricchezza di uno Stato, [...] l'obiettivo ultimo della politica è la felicità intesa come benessere generale" (Bottaro Palumbo, 1983, p. 232).
Come si è notato prima, l'esigenza che la repressione penale e tutti i meccanismi gestiti dallo stato fossero efficaci e uguali per tutti era un problema già esaminato, proprio in rapporto alle costituzioni sveve, da Giuseppe Valletta. La crisi dei meccanismi giudiziari da allora si era aggravata. Paolo Mattia Doria, nella Relazione del 1709, aveva scritto che "l'autorità [ecclesiastica] lega in tutto le mani alla giustizia laica e rende affatto inutili i tribunali civili, dalla qual cosa ne avviene che la Chiesa, difendendo la vita de' delinquenti, si fa rea del sangue degl'innocenti" (Doria, 1973, p. 168). Genovesi precisa che la condanna del lassismo giuridico prevalente ai suoi tempi nasceva in lui dal "solo amore della giustizia, della sicurtà civile, dell'umanità", e non certo "per ferocia d'animo". Il nuovo concetto dell'interesse generale imponeva severità nei confronti dei singoli. Nella bilancia con cui si valutavano le regole della vita comunitaria, era cambiato il punto d'equilibrio: il fulcro si era spostato dalla morale individuale al benessere sociale. Questo fu il segno più evidente della transizione verso l'Illuminismo. Inoltre, diveniva sempre più chiaro e grave in Italia il peso della debolezza internazionale che fin dal 1494 aveva posto i singoli stati della penisola in totale balia delle grandi potenze.
Il nuovo interesse per la figura storica di Federico II fu animato da questi motivi, che andavano ben oltre il modello di vigore e di severità rappresentato dalla sua opera legislativa in campo giurisdizionale e giudiziario. Il cartesianismo solo negli anni Ottanta del Settecento incominciò in Italia a sentire il flusso delle ventate romantiche: che non riuscirono a spazzar via il bisogno di ordine al servizio della produttività e du bonheur. Perciò il topos del re efficiente si ramificò e diffuse nella letteratura meridionale.
Un florilegio delle testimonianze farebbe largamente traboccare fuori dei limiti consentiti il presente sommario profilo. Basti dire che la figura, poco prima quasi diabolica, del principe svevo fu esaltata fino ad assumere un significato opposto a quello che ne aveva impedito la fortuna. A essere celebrata fu la sua "anima", che giuristi critici e intelligenti indicarono come "santa" (Pallante, 1996, p. 190) o, almeno, come "grande" (Valletta, 2001, p. 250). Giuseppe Maria Galanti, in Testamento forense, pose la disciplina giuridica fridericiana quasi in tutti i campi a confronto con la crisi dell'antico regime. E altrove a disdoro di Andrea d'Isernia, che era stato celebrato come "l'Evangelista delle leggi feudali", citò un "aneddoto": "il ridicolo evangelista" aveva scritto "che Federico Quiescit in pice et non in pace". Questo ‒ aggiunse Galanti ‒ "spiega a meraviglia lo spirito del tempo. La ragione umana è meno la facoltà libera della natura, che l'opera meccanica delle opinioni dominanti" (2003, p. 358). La critica illuministica delle faziosità portava, tra l'altro, a rivalutare l'opera del perseguitato imperatore.
fonti e bibliografia
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