MARINO DA CARAMANICO
È noto principalmente per la sua glossa alle Costituzioni federiciane. Già altri, prima di lui, avevano provveduto ad annotare il Liber Augustalis, ma quello di M. fu senza dubbio l'apparato più apprezzato e, fin dal suo apparire, si impose subito come 'ordinario'. M. nacque secondo ogni probabilità nella cittadina abruzzese dalla quale prende il nome.
Gennaro Maria Monti (1936, p. 101), rilevando come la medesima cittadina sia analogamente eponima anche di altri giudici del Regno attivi più o meno negli stessi anni, ha supposto che appartenessero tutti, compreso M., ad un'unica famiglia di giuristi.
La sua data di nascita ci è ignota. Bartolomeo Capasso (1871, p. 364) ‒ che in base alla glossa "causa custodiae" della cost. Rei vendicatione (Const. I, 104) lo credette allievo di Azzone ‒ ritenne che M. dovesse essere nato intorno al 1210 e che, appunto negli anni Trenta, frequentasse le scuole bolognesi. La glossa citata appartiene però, quasi certamente, a quelle che M. attinse dall'apparato precedente. In ogni caso, la supposizione di Capasso appare difficilmente conciliabile con le poche date sicure della biografia di M., che inducono invece a crederlo nato intorno al 1240. È comunque assai probabile che M. abbia studiato diritto presso i maestri bolognesi delle generazioni successive: ad essi, in alcune delle sue glosse, fa riferimento chiamandoli doctores nostri.
Correggendo Capasso e Monti, A. Kiesewetter (in Studi per Marcello Gigante, Bologna 2003, pp. 351-354) ha individuato nell'atto di nomina di M. a giudice d'appello della Magna Curia (7 maggio 1284) la prima indicazione biografica certa. Dal marzo 1282 lo troviamo inserito in pianta stabile tra i giudici della stessa Curia con uno stipendio mensile di 5 once d'oro. Tale ufficio ricopriva di sicuro ancora nel 1285. A metà circa di quell'anno, M. dovette tuttavia dimettersi anzitempo da ogni carica pubblica. Al giugno 1285 risale infatti la concessione fatta da Roberto II d'Artois al giudice e ai suoi eredi a titolo di remunerazione per i servizi resi in precedenza dallo stesso M.: si tratta di proprietà e feudi in Abruzzo per una rendita annua pari a 60 once d'oro. Come quella di nascita, ignoriamo anche la data della morte di M., che tuttavia deve collocarsi tra l'estate 1285 e l'autunno 1287 (ibid., pp. 362 e 365-369).
M. fu dunque essenzialmente un pratico: un giudice colto ma pur sempre un giudice e non un professore. Contrariamente a quanto si è pensato, un suo insegnamento nello Studium napoletano è infatti quasi certamente da escludere.
In passato, Francesco Calasso (1954, pp. 550 s.; 19573, pp. 158-160) lo aveva invece creduto titolare di un insegnamento nello Studio di Napoli soprattutto in considerazione del fatto che M., in talune sue glosse, ricorda i propri discenti (socii). Alla luce di altri casi del genere, una simile evocazione si dimostra tuttavia nient'affatto probante mentre, contro la convinzione di Calasso (fatta propria successivamente anche da Colliva, 1964, e da Bellomo, 19936), pesano in maniera determinante sia la regola generale che limitava i programmi scolastici al solo diritto giustinianeo escludendo i corsi sui diritti locali, sia i documenti superstiti. I registri angioini, in particolare, se sono solitamente precisi nell'attribuire la qualifica di professore a tutti coloro che avevano tenuto cattedra anche quando fossero successivamente passati ad altri incarichi, menzionano al contrario il solo M. sempre come iudex e mai come professor (D'Amelio, 1972; Cortese, 19962).
È tuttavia ben possibile ‒ anzi è assai probabile ‒ che egli abbia svolto privatamente qualche forma di insegnamento di diritto regio. Insegnamento che possiamo presumere indirizzato ai giovani avviati a intraprendere la carriera di giudici ‒ e quindi tenuto in limine all'attività del tribunale ‒ e al quale possiamo facilmente ricollegare l'elaborazione stessa delle sue glosse. Tale supposizione si accorda peraltro con i risultati cui sono giunti Monti e Vallone circa la datazione dell'apparato al Liber Augustalis. La sua stesura può ora infatti collocarsi con ragionevole sicurezza proprio in quel medesimo torno di anni ‒ tra il 1278 e il 1285 ‒ in cui si è visto M. attivo come giudice della Magna Curia (nelle sue glosse M. considera sempre tra i vivi Carlo I, che morì nel gennaio del 1285; in un'occasione M. dà poi ad intendere di scrivere essendo già trascorso un cinquantennio dal 1231). Certamente successivo al 1278 fu, in ogni caso, il famoso Proemio che M. premise al suo commento.
Come accennato, il suo non è il più antico apparato di glosse al Liber Augustalis e si presenta come novus rispetto a un apparatus vetus formato principalmente dalle glosse del misterioso G. o Gui. e di Andrea Bonello (v. Scienza giuridica, Regno di Sicilia, l'età di Federico II). Alla maniera di Accursio, M. attinse ampiamente dai precedenti glossatori, dei quali spesso conserva la sigla mantenendone l'attribuzione. In verità, la reale consistenza dell'opera genuina di M. rimane una questione aperta, anche se è probabile che la gran massa delle glosse presenti nel suo apparato sia comunque frutto del suo personale ingegno. Il commento delle singole costituzioni è di solito preceduto da una breve summa che ne riassume il contenuto. Segue quindi l'illustrazione dei singoli passaggi. M. ha cura talvolta di distinguere le costituzioni di Melfi da quelle aggiuntevi successivamente e dimostra anche qualche attenzione di tipo filologico. In più di un'occasione, si sofferma a porre in rilievo le diverse lezioni presenti nei manoscritti da lui utilizzati e, se del caso, segnala la littera da preferire. Tiene poi a sottolineare differenze e concordanze del ius Regni col diritto romano, canonico e longobardo.
Le fonti normative richiamate con maggior frequenza sono ovviamente le varie parti del Corpus giustinianeo. Subito dopo, per numero di citazioni, vengono quelle canonistiche (Decretum e Decretali), la Lombarda, i Libri feudorum e altre componenti della X collatio. Tra le opere dottrinarie, troviamo spesso citate la Glossa accursiana all'intero Corpus iuris, il commentario di Carlo di Tocco alla Lombarda e diversi apparati canonistici. Sono poi più volte richiamati la Summa Codicis di Azzone, i lavori di Goffredo da Trani sui feudi e sul Liber X, i Libelli di Roffredo Beneventano. Sporadicamente vengono infine menzionati anche Giovanni Bassiano e il Piacentino, ma questi ultimi ‒ è da credere ‒ soprattutto per via indiretta, cioè per il tramite delle glosse più antiche. Conosciuti e citati da M. sono pure parecchi 'classici' latini (Capasso, 1871, pp. 367 e ss.).
Abbastanza di frequente la soluzione di questioni via via emergenti e relative sia al merito che alla procedura viene fornita sulla base del rinvio generico all'autorità dei giuristi bolognesi (nostri doctores) ovvero, e più spesso, richiamando precedenti decisioni della Magna Curia. Emerge da quest'ultima annotazione l'inclinazione principalmente pratica dell'opera di M., inclinazione che, del resto, lo stesso glossatore non aveva mancato di esplicitare già nel proemio laddove, verso la fine, lamenta le interpretazioni maliziosamente oscure suggerite nei tribunali da 'qualche giurisperito' in dispregio alla chiarezza del dettato normativo. Richiamandosi all'esempio di Modestino, M. si propone di offrire invece soluzioni "in quotidiano causarum usu utiles" e capaci di ricondurre a perfetta consonanza quanto nella prassi veniva troppo spesso presentato come oscuro e ambiguo (Proem. XXIII, in Calasso, 19573, pp. 207 e ss.).
Proprio il Proemio è senz'altro la parte più apprezzata e studiata dell'intera opera del giurista abruzzese. Calasso, che ne ha anche fornito un'edizione moderna in appendice al suo volume su I glossatori e la teoria della sovranità, lo ha giudicato tra i monumenti più insigni della letteratura dei glossatori e "primo esempio maturo di monografia giuridica" (Calasso, 1954, p. 550). Esso è soprattutto incentrato sui delicati problemi relativi alla sovranità del rex Siciliae e alle sue connessioni giuridiche con le due autorità universali dell'Occidente medievale. M. si dimostra ancora profondamente permeato dello spirito e degli ideali dell'età sveva. Nel perseguire il suo obiettivo primario, quello di esaltare la dignità della monarchia meridionale e la sua effettiva autonomia dall'Impero come dal papato, M. si segnala per l'acutezza e l'originalità delle sue idee.
Particolarmente suggestiva è, ad esempio, la teoria in base alla quale M. ritiene di circoscrivere fortemente i diritti feudali che il papa vantava sul Regnum sin dai tempi di Leone IX e Roberto il Guiscardo (1057): l'infeudazione papale avrebbe infatti riguardato il Regno inteso astrattamente come universitas. Sui singula corpora che quella universitas componevano (città, castelli, villae) il pontefice non poteva invece vantare alcuna superiorità feudale e la temporalis iurisdictio spettava senz'altro al rex Siciliae nella sua interezza (Proem. XII-XVI, in Calasso, 19573, pp. 193-200). La persistenza del vincolo feudale con la Santa Sede finiva in questo modo per essere avvertita come un problema separato e sostanzialmente incidente sul solo piano privatistico e non su quello eminentemente pubblicistico rappresentato dal trasferimento della iurisdictio al re di Sicilia. Quest'ultima per M. sarebbe stata conseguentemente piena ed esclusiva (Cortese, 1966, pp. 40 e ss.).
Nel disegnare il quadro giuridico entro cui si svolgono i rapporti del monarca siciliano con l'imperatore, M. si rivela al tempo stesso moderno nell'ispirazione di fondo ma anche altrettanto ben radicato nel Medioevo in taluni suoi spunti particolari. La rivendicazione delle libertà nazionali e l'equiparazione del re di Sicilia all'imperatore è condotta accogliendo la famosa formula della sovranità che sin dall'inizio del Trecento si era andata ampiamente diffondendo nella dottrina giuridica medievale. Il discorso viene però portato avanti in maniera così decisa e stringente da assumere significati del tutto nuovi e persino più avanzati di quelli che vi andavano contemporaneamente riconnettendo i dotti operanti presso le principali monarchie europee (Calasso, 19573; Cortese, 1966, pp. 15 e ss.). La sua 'moderna' inclinazione verso una concezione assolutistica del potere regio si rivela del resto con chiarezza nel suo motivare la persistente vigenza nel Regno del diritto giustinianeo con l'autorizzazione espressa dei monarchi stessi (Calasso, 19573, p. 142) e nel suo non essere per nulla legato alle tradizioni municipalistiche sino a escludere ogni tendenza 'cittadina', eventualmente tesa a salvaguardare i diritti delle città dal pesante intervento statuale (Colliva, 1964). Tutto medievale, al contrario, è il corollario della connotazione sacrale della sovranità del rex siciliano che M. fa discendere dal riconoscimento della pienezza di poteri di quest'ultimo e dalla sua equiparazione all'imperatore e che si concreta nella nota affermazione di Proem. IX, 189, secondo cui "reges enim non sunt mere laici" (Cortese, 1966, pp. 52-55).
Fonti e Bibl.: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, mss. Reg. Lat. 1948 e Vat. Lat. 1437; Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 4624; Valencia, Biblioteca de la Universitat, ms. Lat. 417. Editio princeps: De legibus et consuetudinibus aliis antiquatis quae dicitur constitutio, a cura di S. Riessinger-F. del Tuppo, Neapoli 1475. L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del regno di Napoli, I, ivi 1787 (Bologna 1970), pp. 212-214; B. Capasso, Sulla storia esterna delle Costituzioni del Regno di Sicilia promulgate da Federico II, ivi 1871, pp. 193-200, 207 e ss., 379-502; G.M. Monti, Intorno a Marino da Caramanico e alla formula 'rex est imperator in regno suo', in Id., Dai Normanni agli Aragonesi, Trani 1936, pp. 99-114; F. Calasso, Medio evo del diritto, I, Le fonti, Milano 1954, pp. 549-555; Id., I glossatori e la teoria della sovranità, ivi 19573, pp. 130 e ss., 142-148, 158-160, 193-200; P. Colliva, Ricerche sul principio di legalità nell'amministrazione del Regno di Sicilia al tempo di Federico II, I, Gli organi centrali e regionali, ivi 1964, pp. 70-75; E. Cortese, Il problema della sovranità nel pensiero giuridico medioevale, Roma 1966, pp. 4, 5, 36-70 e passim; G. D'Amelio, Indagini sulla transazione nella dottrina intermedia, con un'appendice sulla scuola di Napoli, Milano 1972, pp. 39 n. 45 e 160-164; G. Vallone, Iurisdictio domini. Introduzione a Matteo d'Afflitto ed alla cultura giuridica meridionale tra Quattro e Cinquecento, Lecce 1985, pp. 177-182; M. Bellomo, Società e istituzioni dal medioevo agli inizi dell'età moderna, Roma 19936, pp. 399, 421; E. Cortese, Il diritto nella storia d'Europa, II, ivi 1995, pp. 336-337; Id., Il rinascimento giuridico, ivi 19962, p. 96 n. 300.