ABBA, Giuseppe Cesare
Nato a Cairo Montenotte (Genova) il 6 ottobre 1838; morto a Brescia il 6 novembre 1910. Fu uno dei Mille di Marsala. Sul finire del 1862, dopo "le colpevoli impazienze" di Aspromonte, l'A. si ridusse a vivere a Pisa, "per vaghezza di studî", come egli lasciò scritto, "e per vivere coi giovani amici, già compagni d'armi e tornati studenti in quella università gioconda e pensosa". Allora un diario, scritto alla giornata nella stagione siciliana del 1860, gli servì da canovaccio, e l'A. ne trasse fuori il poemetto romantico in cinque canti, Arrigo, da Quarto al Volturno, racconto drappeggiato nell'appariscente maestà del verso sciolto, tutto ricco di prosopopee di eroi e rappresentazioni di battaglie, luoghi topici e cadenze ritmiche della poesia di moda. L'ideale della poesia laureata per un momento mortificava l'umile cronista in camicia rossa. Ritiratosi più tardi a Cairo Montenotte, nella solitudine della vita domestica e tra le cure e le beghe della politica municipale, l'A. non rinunziava ancora al suo sogno letterario, e, manzoniano fervente e ammiratore delle Confessioni di un ottuagenario del Nievo, si provò in un romanzo che vide la luce nel 1875, col titolo Le rive della Bormida nel 1794. Faticoso il titolo, e faticoso il racconto, condotto con tutte le cure dell'arte letteraria, ma dove si respira l'atmosfera lenta di quella vita da borgo e del chiuso dello studiolo domestico, pur vigilato da uno sguardo dolce di donna, ma non più vivificato dagli entusiasmi e dalle speranze, vissute tra una campagna e l'altra di guerra, della prima giovinezza.
Ma il diario estemporaneo della campagna del 1860 doveva costituire per l'A. il più schietto destino letterario e la sua rivelazione di artista. Scritto allora, nel 1860, sotto l'influenza stilistica del Viaggio sentimentale dello Sterne, nella traduzione del Foscolo, fu, per tutto un ventennio dopo, l'oggetto amoroso delle cure dello scrittore che, scaltrito nell'arte, affinato nel senso storico dai recenti avvenimenti, tornava, a periodi, su quei poveri appunti, animato forse da una vaga e tacita speranza che un giorno potessero servire a qualche cosa, ma intanto preso lo stesso dalla dolcezza dell'indugio su quelle pagine del suo passato. Fu proprio un suo vecchio amico garibaldino, lo Sclavo, che lo mise, attorno al 1880, in relazione col Carducci, il quale pensava di scrivere una vita di Garibaldi, e ricercava intanto note e memorie delle imprese garibaldine, chiedendone ai superstiti protagonisti. Anche l'Abba, sollecitato, si affrettò a mandare le sue Noterelle, ma "con grande tremore"; il Carducci non tardò a rispondere che egli non sapeva se avrebbe mai scritto la vita di Garibaldi, ma che intanto quelle Noterelle erano una "meraviglia", e che le passava a Zanichelli per la stampa. Di lì a poco, nel 1880, veniva fuori un volumetto elzeviriano, col titolo Noterelle di uno dei Mille edite dopo vent'anni; poco noto era il nome dell'autore. In una successiva edizione (1882), si ebbe il titolo Da Quarto al Faro. Noterelle d'uno dei Mille edite dopo vent'anni, con aggiunte, finché, nel 1891, venne fuori il titolo definitivo: Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille. Così nacque il capolavoro della nostra letteratura garibaldina. L'A., diventato famoso, fu chiamato a insegnare lettere nel Liceo di Faenza, dove dimorò quattro anni; poi, "per antico amore a Brescia", concorse al posto di professore nell'Istituto tecnico di quella città, da dove non si mosse più, e vi stette preside fino all'anno della morte.
Le Noterelle sono una cronaca, scritta giorno per giorno con grande semplicità di stile, in una lingua che, pur frequente di ricordi letterarî, ha una sua casta fisonomia, come di eloquio purificato dalla schiettezza stessa dell'accento parlato: in una prosa che, senza bravure descrittive, pur tutta guizzi e tocchi e scorci, riesce ad una immediata ed espressiva rappresentazione degli uomini e delle cose. Un libro, che, dedicato all'impresa garibaldina per eccellenza, non abbonda di grandi nomi. Un grande nome, Garibaldi: il Generale vi è ricordato qua e là, ma senza insistenza, e la sua figura non vi è mai colorita direttamente; un cenno fugace, qualche motto, un breve dialogo, e il Generale si trasfigura in una visione. E nel timore verso l'Uomo che guida le sorti e i miracoli di quell'impresa, ancora un'altra nota di pudore: il narratore non vi parla mai di sé, o, se ne parla, pare che il discorso non lo tocchi: in quella specie di devota adeguazione di tutti al sogno, alla forza, al genio di un solo, non c'è posto per le prosopopee individuali, né per le confidenze soggettive, né per gli stati d'animo particolari. L'Abba racconta di sé solo negli altri. Egli scrive per tutti e in nome di tutti: le sue sono le noterelle di "uno dei Mille". Ciò che conferma l'ispirazione mistica di quelle sue noterelle, che ben si possono chiamare, come sono state chiamate, i Fioretti di Garibaldi.
Altre opere dell'A. restano inferiori alle Noterelle. Scarso valore artistico hanno i suoi versi di Romagna (Faenza 1887) e di altre raccoltine. Anche le novelle di Cose vedute (1887) si riallacciano alle Rive della Bormida. Ma le sue Cose Garibaldine (1907) e i tre volumi delle Pagine di storia, raccolti postumi, a cura di G. Castellini, hanno una loro soave suggestione, e per quel che di nuovo in esse si racconta e si osserva, e per il riecheggiamento nostalgico del piccolo mondo antico delle Noterelle. Bella è la vita di Nino Bixio (Torino 1905), atteggiata un poco, con grazioso vezzo letterario, secondo la tecnica espositiva cara ad alcuni nostri storici cinquecentisti; e la Storia dei Mille, scritta per i giovinetti, è un libro indovinato per l'adolescenza, perché può esser letto con eguale interesse dagli adulti.
Bibl.: L. Russo, L'opera di Abba e la letteratura garibaldina, saggio premesso a un'edizione delle Notarelle, Firenze 1925.