Giuseppe Ferrari
Filosofo della rivoluzione, filosofo del federalismo, filosofo delle antinomie, filosofo isolato sono i termini con i quali la storiografia suole definire e classificare Giuseppe Ferrari. Questa polifonia di definizioni è il segno dell’interesse suscitato nella cultura italiana ed europea (soprattutto in quella francese) dalle teorie e dai ragionamenti del più sottile interprete della scuola romagnosiana, che possiamo riassumere nel continuo tentativo di conciliare scienza e rivoluzione e di delineare una filosofia civile della storia.
Nato a Milano il 7 marzo 1811, Giuseppe Ferrari dopo aver frequentato il liceo ginnasio Sant’Alessandro si iscrive nel 1827 alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Pavia, ove si sarebbe laureato il 9 giugno 1832.
Tra la fine di quell’anno e i primi mesi del successivo entra in contatto con la scuola romagnosiana, della quale fanno parte, tra gli altri, Carlo Cattaneo, Cesare Cantù, Cesare Correnti, e collabora con le principali riviste milanesi del tempo. Nello stesso 1833 appare su «Il Nuovo ricoglitore» il suo primo scritto, che è una corposa recensione alla Philosophie du droit di Jean-Louis-Eugène Lerminier (1803-1857), ove anticipa una delle sue concezioni guida: il diritto deve essere collegato alla scienza sociale.
Nel 1835, dopo la morte di Gian Domenico Romagnosi, pubblica sulla «Biblioteca italiana» la prima analisi delle dottrine del maestro e, nello stesso tempo, inizia la pubblicazione delle opere di Giambattista Vico, alle quali avrebbe premesso nel 1837 il saggio La mente di Vico, definito genio isolato nella sua epoca quantunque avesse fatto della storia una scienza. Non avendo ottenuto da parte del governo austriaco la licenza di pubblicare una rivista «di scienze filosofiche e storiche», per la quale aveva chiesto a Cattaneo di collaborare, decide di abbandonare Milano e il Lombardo-Veneto.
Esule a Parigi dal gennaio 1838, entra in contatto con Victor Cousin (1792-1867), con i seguaci di Claude-Henri de Rouvroy de Saint-Simon e di François-Marie-Charles Fourier e frequenta il salotto di casa Belgiojoso. Scrive sulla «Revue des deux mondes» un saggio, titolato De la littérature populaire en Italie e dedicato a dimostrare la prevalenza dei dialetti sulla lingua nazionale, che, assieme alle opere su Vico, lo rende noto, letto e discusso anche in Francia. Il 29 agosto 1840 consegue il dottorato in lettere con due tesi riguardanti le concezioni religiose di Tommaso Campanella e il concetto di errore.
Il 26 maggio 1841 ottiene il domicilio francese e nell’ottobre dello stesso anno la supplenza della cattedra di filosofia nella facoltà di Lettere di Strasburgo. Nel febbraio dell’anno dopo, per le lamentele del vescovo di Strasburgo a causa del suo insegnamento giudicato troppo laico e blasfemo, si vede sospendere il corso dopo aver tenuto appena diciotto lezioni. A parziale risarcimento gli viene assegnata un’indennità di ricerca nell’ambito delle scienze e delle lettere.
Due anni dopo diventa professore aggregato, ma non ottiene insegnamenti. È il periodo nel quale si dedica alla questione italiana, che con i suoi scritti, in primo luogo La révolution et les réformes en Italie (1848), diventa oggetto di discussioni e interventi sia a Parigi sia a Londra.
Nel settembre 1849 pubblica Les philosophes salariés, un pamphlet contro gli intellettuali dipendenti della corrente filogovernativa francese e i cousiniani. Quasi contemporaneamente rompe i rapporti con Giuseppe Mazzini e si avvicina sempre più a Pierre-Joseph Proudhon. Nello stesso anno, il 1851, escono, a Capolago in Canton Ticino, le sue opere teoriche più importanti: la Filosofia della rivoluzione e la Federazione republicana. Nel 1858 pubblica a Parigi l’Histoire des révolutions d’Italie, ou Guelfes et Gibelins.
Rientra in Italia poiché è candidato al Parlamento per i mandamenti di Luino e Angera sul Lago Maggiore nel marzo del 1860. Nello stesso 1860 esce l’Histoire de la raison d’État, che con il successivo Corso sugli scrittori politici italiani e stranieri (1862) rappresenta la prima storia generale delle dottrine politiche nella storiografia nazionale.
Eletto, rimarrà deputato sino al 15 maggio 1876 quando viene nominato senatore. In questi anni vi è una sola breve parentesi, tra il febbraio 1866 e il marzo 1867, quando è costretto a dare le dimissioni per l’incompatibilità con la carica di membro del Consiglio superiore dell’istruzione pubblica e di professore di filosofia all’Istituto superiore di Firenze.
Nel 1865 pubblica Il governo a Firenze, come lettera aperta agli elettori e agli amici sui sei anni di vita parlamentare. Due anni dopo fa uscire a Parigi La Chine et l’Europe, leur histoire et leurs traditions comparées con il fine di giustificare la sua teoria su di una tendenziale fusione dei popoli.
Nel 1874 appare a Milano per i tipi di Hoepli la Teoria dei periodi politici, il suo scritto di scienza politica per eccellenza, frutto, come scrive, delle meditazioni conseguenti alle sue opere storiche e agli avvenimenti politici a lui coevi. Il 2 luglio 1876 muore a Roma; le sue spoglie vengono sepolte al Cimitero monumentale di Milano il 15 luglio seguente. Nel ricordarne la figura «L’illustrazione italiana» del 9 luglio 1876 poneva in risalto che
in Parlamento non improvvisò mai nessun discorso politico […]. Avuta la parola, le parole uscivano come razzi; pareva che avesse applicato all’eloquenza tutti i segreti della pirotecnica, andava a sbalzi, accumulava concetti su concetti.
Da questo ritratto emerge come egli fosse un trascinatore, ma non sempre in grado di convincere.
Al pari di Romagnosi e di Cattaneo, Ferrari è assertore di una rivoluzione del sapere filosofico che deve avere come oggetto lo studio dell’uomo nei suoi rapporti con la natura e con la società ricorrendo al metodo delle scienze sperimentali. Da ciò l’interesse per il divenire storico, mutuato da Vico, per l’economia, la letteratura, il diritto delle genti e la religione, retaggi della scuola romagnosiana, e per il ruolo positivo e trainante del genio o mente, come soleva dire lo stesso Ferrari. Attenendosi a questi presupposti confuta i sistemi metafisici di René Descartes, Gottfried Wilhelm von Leibniz e le dottrine kantiane ricorrendo allo scetticismo di David Hume e all’esperienza, unica concreta fonte del filosofare. Solo così si potrà attingere una «rivelazione scientifica» che sostituisca quella religiosa e stabilire il primato della scienza e dell’uguaglianza tra gli uomini. È una forma mentis che avrebbe portato Giovanni Gentile a scrivere in Le origini della filosofia contemporanea in Italia (1917) che «il critico viene oggi a trovarsi tra Hegel e Ferrari» poiché il bisogno della scienza è un continuo tormento dello spirito.
Se, pertanto, è indubbio che il filosofo milanese non ebbe allievi diretti e fu un isolato nella cultura coeva, è altrettanto certo che le sue opere e le sue teorie sono presenti, più o meno velatamente, in tutta la successiva filosofia politica (e non solo) italiana. Basti qui rimandare ai numerosi richiami nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci e nelle lezioni universitarie a Torino, Milano, Roma e negli scritti teorici e storici di Gaetano Mosca.
Nel primo scritto edito a noi giunto (la recensione alla Philosophie du droit di Eugène Lerminier) e apparso nel 1833 su «Il Nuovo ricoglitore» di Milano Ferrari, sostenendo che la storia della filosofia è divisa fra le due scuole della ragione e dell’esperienza, indica già quale sia il fine della propria speculazione e cita direttamente le proprie fonti ideologiche: Vico, Romagnosi e Jeremy Bentham.
È la conferma che gli anni milanesi sono decisivi per orientare la formazione del suo pensiero filosofico e politico; formazione che sarebbe poi stata completata, ma non stravolta, negli anni del soggiorno francese dal 1838 al 1860, salvo brevi ritorni in Italia e soggiorni altrettanto brevi in Svizzera e «obbligati» in Belgio. Difatti quello italiano è il periodo nel quale, come dimostrano gli scritti sulla mente di Romagnosi, sulla mente di Vico, la cura dell’Opera omnia del Napoletano e le riflessioni sulla filosofia umana e civile di Cataldo Jannelli (1781-1841), tracciano le prospettive della storia umana e civile secondo i canoni già tracciati dal Vico e dal Romagnosi come unica scienza in grado di collegare teoria e pratica (per lui ragione ed esperienza) e di delineare un diritto mirante a ricercare le necessità naturali dell’uomo in società e trasformarle in legge.
Ancora più chiaramente, Ferrari scrive che occorre incorporare la giurisprudenza nella scienza sociale e questo è «il vivo bisogno» che la filosofia civile italiana instaurata dal Vico e rafforzata dalla scuola romagnosiana consegna all’Ottocento, il secolo dell’incivilimento, cioè della società in continuo movimento.
Di conseguenza l’incessante, quasi ossessivo sottolineare l’importanza della ricerca di una filosofia che si identifichi con la scienza attraverso la storia positiva e civile lo spinge ad attenersi ai fatti e alla realtà delle cose. In questa veste di filosofo concreto scopre l’importanza e il ruolo delle antinomie o – come scrive Ernesto Sestan nell’Introduzione alle Opere (1957) di Giandomenico Romagnosi, Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari – dei grandi principi accoppiati, binari, in certo senso immanenti come unità e varietà, libertà e uguaglianza, privato e pubblico, interesse e fraternità, rivoluzione e saggezza, forza e virtù, conservazione e progresso, Chiesa e Stato, aristocrazia e democrazia.
Antinomie che lo portano a un netto rifiuto dell’apriorismo e all’abbandono della metafisica e della religione e a costruire un pensiero fondato sulla storia del passato e del presente. Leggiamo, difatti, nella recensione alla Philosophie du droit di Lerminier che
la civiltà non promuove la moralità voluta dalla religione e comandata dal cuore, non sviluppa né il disinteresse, né l’umiltà che è il fondamento di tutte le virtù cristiane, ma costringe gli uomini a simulare una virtù vanagloriosa e interessata, e nel fatto fomenta una folla multiforme di passioni per alimentare le arti, l’industria, il commercio, e in una parola la ricchezza e la prosperità delle nazioni (G. Ferrari, Philosophie du droit par E. Lerminier, «Il Nuovo ricoglitore», 1833, 9, p. 650).
Occorre quindi costruire una filosofia «liberatrice» che, rivolgendosi alla storia, innesti nei fatti e nella loro conoscenza le potenzialità e le capacità del pensiero.
Il rifiuto della componente astorica e idealistica della filosofia, unito alla conoscenza e alla frequenza diretta con i principali attori del dibattito culturale in Francia su questi temi, porta il pensatore milanese ad approfondire nelle lezioni al corso di filosofia alla facoltà di Lettere di Strasburgo il legame tra filosofia, storia delle idee e storia sociale partendo dall’età rinascimentale, ove le grandi scoperte geografiche e scientifiche originano nuove dottrine, rappresentate sul terreno teologico da Niccolò da Cusa, da Paracelso e da Giulio Cesare Vanini, su quello logico da Giovanni Duns Scoto e Raimondo Lullo, sul piano della fisica da Giordano Bruno e Campanella, nell’ambito politico da Niccolò Machiavelli e sistematizzate da Francesco Bacone e Descartes (cfr. Rota Ghibaudi 1969, p. 87).
La civiltà del Rinascimento viene vista come simbolo dell’autonomia e dell’emancipazione della vita umana che è duplice come l’uomo e formata di spirito e materia. Leggiamo così all’inizio delle Idee sulla politica di Platone e d’Aristotele (1842), che sono il sunto delle ultime quattro lezioni universitarie
Se si prescinde dalla materia e si trascura l’elemento sensibile, si sopprime la forza degli interessi, si rinnega la famiglia, si riprova la proprietà […]. Se viceversa si prescinde dalle idee, si mutila l’uomo in altro modo; si commette la società al cieco scontro degl’interessi, dei sensi, del piacere, del dolore.
La filosofia italiana ha il merito di aver tentato di superare questa antinomia con il sistema di Vico e la sua Scienza nuova, che però «non è un’opera definitiva», ma consente di studiare il passato e di correre verso l’avvenire. Per fare ciò, occorre una rivoluzione della filosofia e del sapere anche alla luce della questione italiana. Così accanto a opere sistematiche e teoriche come l’Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l’histoire appaiono scritti storico politici, che suscitano aspre polemiche non solo in Italia: si tratta di La philosophie catholique en Italie (1844) – ove conia e definisce il concetto di neoguelfo –, La révolution et les révolutionnaires en Italie (1848), La révolution et les réformes en Italie e Machiavel juge des révolutions de notre temps (1849).
Dunque, mentre costruisce una teoria dei periodi politici come quadro scientifico di riferimento per l’analisi dei fenomeni politici, non limitata solo all’aspetto descrittivo e interpretativo, ma tendente a formulare delle previsioni, recupera il ruolo delle utopie. Ne esalta, difatti, la funzione di critica in negativo delle istituzioni e delle società esistenti e di modello di quell’idea di perfezione o di Stato che rappresenta l’obiettivo dell’azione pratica e consente di collegare l’oggi con il domani superando quei condizionamenti sociali che, senza un’idea di futuro, trasformano l’uomo libero in uomo macchina.
Ed è questa la forma mentis che gli fa da guida e da metodo nello studiare, nel progettare soluzioni per le vicende italiane e per quello spirito di libertà e indipendenza che aleggia nella penisola e che lo porta ad aprire la trattazione de La federazione repubblicana (1851) con la breve, ma estremamente chiara e tranchante affermazione: «L’insurrezione del 1848 fu indarno; i principi, li uomini, il disegno, lo scopo, tutto è mancato». Altrettanto chiaro, anche se meno crudo, è l’incipit della Filosofia della rivoluzione. Vi si afferma che:
La rivoluzione è il trionfo della filosofia chiamata a governare l’umanità. Fuori della filosofia non v’ha rivoluzione; la ragione non è libera, la scienza non è padrona; il culto regna sulla società, domina la ragione, detta le leggi e governa l’umanità (Filosofia della rivoluzione, in Id., Scritti politici, a cura di S. Rota Ghibaudi, 1973, p. 409).
Si tratta, di conseguenza, di tracciare una filosofia che «riconquisti il fatto» attraverso i dettami della storia e partendo dall’asserto che per rivoluzione si intende «il gran moto per cui la Francia destava tutti i popoli dell’Europa» (p. 409).
La Filosofia della rivoluzione, completata nel settembre 1850 e pubblicata nell’autunno del 1851, vuol essere la risposta al quesito su come ritornare alla centralità del fatto. Pertanto il libro è diviso in tre parti. Nella prima, dal titolo Critica dell’evidenza, Ferrari illustra la critica filosofica che rovescia ogni fatto e lo riduce a un’unica formula. Nella seconda, Della rivoluzione naturale, ristabilisce il regno dei fatti per poter procedere con l’umanità del buon senso. Nella terza e ultima parte, Il sistema dell’umanità, dimostra come la rivoluzione, libera sulla via dei fatti, possa scorrere verso il regno della scienza e dell’eguaglianza.
In altri termini, con il concetto di rivoluzione il pensatore milanese intende sottolineare la stretta correlazione tra filosofia e storia che lo porta a privilegiare l’esperienza della vita e la concretezza delle azioni umane sulle quali si innestano le riflessioni e le potenzialità del pensare umano. È l’unica strada che la filosofia può percorrere per non cadere in astrazioni e in chimere dogmatiche. Richiamandosi allo scetticismo di Hume e alla filosofia liberatrice della gnoseologia di John Locke, vivifica le indubbie influenze vichiane e supera la tentazione di dare una logica e delle leggi fisse alla storia. Il risultato non può essere quel filosofo salariato, cioè al servizio di questa o quella autorità, a cui ha dedicato, al di là dell’aspra polemica con il «ministeriale» Victor Cousin e della rottura con il mondo accademico francese, un’opera, Les philosophes salariés (1849).
In questo scritto manifesta apertamente la propria avversione all’eclettismo, corrente filosofica senza dogmi, senza idee e legata al successo e al quieto vivere che porta il popolo alla moderazione e alla soggezione e sudditanza verso la Chiesa e i suoi dogmi. Ciò significa che il vero e unico compito della scienza diventa costruire la figura di un filosofo militante o socialista. Il filosofo per essere degno di tale nome, deve sempre saper collegare passato, presente e futuro e fare una scelta di vita militante che colleghi pensiero e azione, che per Ferrari vuol dire collegare filosofia e storia nello studio della «positività» del divenire umano e sociale.
Già nella Mente di Vico aveva sostenuto che la filosofia della storia come studio della storia delle idee o dei sistemi ideali è fondamentale per la conoscenza delle tappe dell’evolversi dell’umanità e del ruolo dei geni come interpreti dei bisogni e delle aspirazioni delle diverse società. Si vedano in questo senso le opere dedicate a Platone, Aristotele, Machiavelli, Campanella, Pietro Giannone, Vico, Romagnosi, Fourier e Proudhon. Questa conoscenza di idee e fatti porta a cogliere l’insieme dei momenti in cui opera e si realizza, o tenta di realizzarsi, il disegno di raggiungere l’ideale, cioè il futuro programmato. E sta in ciò il senso della militanza concreta del filosofo. Sicché il pensiero è lotta sia contro gli errori riconosciuti sia contro sistemi ideali in contraddizione con il proprio nel cercare di definire quel diritto di necessità che è alla base della vita dei popoli.
Necessità che lo porta a identificare la scienza con la riflessione della società sui problemi concreti dei suoi membri e la politica come scienza del governare che costruisce leggi in grado di applicare nella pratica quotidiana i principi o concetti identificanti la collettività. Sta proprio in ciò il senso del filosofo militante della società, cioè socialista in quanto impegnato a trovare soluzioni legislative, quindi riconosciute dalla maggioranza, alle necessità popolari. Quell’ansia di liberazione, per usare una felice intuizione di Eugenio Garin, che anima la ricerca di Ferrari sulle ali degli uomini del 1789 e dei sentimentalisti inglesi, porta al primato dell’uomo di natura sul cittadino e alla continua ricerca di quel nesso tra libertà ed eguaglianza che Voltaire e Jean-Jacques Rousseau hanno teoricamente tracciato e i movimenti nazionalisti e indipendentisti europei, in primo luogo quelli italiani, tradotto in azione culturale e politica.
Nella prospettiva del Ferrari maturo (quello del post 1848) il sistema delle scienze umane mutuato da Vico e aggiornato con le teorie illuministiche inglesi e francesi si arricchisce con lo studio del diritto delle genti, per la parte teorica mutuato da Romagnosi, e diventa storia delle nazioni, insieme territoriale e ideologico di tutte le componenti della vita civile. In una simile ottica, come leggiamo nell’undicesimo capitolo di La federazione repubblicana, dal titolo La rivoluzione sociale, ecco che il nuovo soggetto della storia dell’umanità non è più il sovrano e nemmeno il papa o la ricca borghesia ma «la lotta contro il trono e l’altare, contro la proprietà e la religione» (in Id., Scritti politici, cit., p. 383) personificata dal «povero» e concretizzata dalla rivoluzione sociale o socialismo.
Come ogni rivoluzione il socialismo si distingue per un’idea e per un interesse. L’idea è che la vera guida di ogni uomo in società è la sua sola ragione. L’interesse, invece,
è la rivoluzione del povero, reclamata dal povero, è la revisione del patto sociale, il nuovo riparto delle ricchezze, inguisa che il cieco diritto dell’ereditarietà non signoreggi più la società e che la concorrenza sia libera veramente (p. 383).
Questa rivoluzione per essere efficace anche per la complessa e multiforme realtà italiana deve portare all’irreligione e alla legge agraria, cioè a sostituire la metafisica con la scienza e a limitare nella realtà la proprietà privata con la necessità di combattere contro lo strapotere dei pochi ricchi mentre «l’immensa maggioranza del genere umano è rosa dalla fame» (p. 396).
In ambito economico occorre sostituire l’ereditarietà con il lavoro e l’istruzione che sono i mezzi che trasformano l’idea di eguaglianza da principio teorico a fatto reale. Riprendendo le teorie di Fourier sull’istruzione popolare, propone il mantenimento pubblico dei figli dei poveri, il previlegiare l’insegnamento tecnico e professionale rispetto al lusso del greco e del latino e contro la sterile erudizione delle università.
Sul piano politico e istituzionale la rivoluzione sociale, tenendo conto degli errori del 1848 in Italia, dei nuovi assetti europei e del ruolo guida della Francia riassunto nella frase «la nuova Roma è in Francia», deve partire dall’organizzazione di un partito sociale che sia democratico, repubblicano, federalista e socialista. Sociale deve essere inteso come specchio delle diverse anime della comunità. Democratico è un organismo basato su libere, pluralistiche e pubbliche discussioni attorno ai temi e modi dello stare assieme. Repubblicano significa pluralista e paritario nella ascesa e nella gestione del potere. Federalista è il corollario di repubblicano in quanto garantisce giuridicamente il pluralismo e l’eguaglianza democratica fra le diverse realtà presenti nel territorio o Stato di pertinenza. Socialista significa in continuo movimento e adattamento dei principi comuni alle idee e alle aspirazioni degli interessi comuni.
Anche se l’analisi riguarda la situazione italiana, Ferrari indica in queste le idee politiche generali valide per ogni comunità che voglia risolvere i suoi problemi di identità nazionale, di indipendenza e di eguaglianza.
La storia europea, poi, dimostra – e il nostro Autore lo ribadisce più volte in diverse opere, da La federazione repubblicana, a L’Italia dopo il colpo di Stato del 2 dicembre 1851 (1852), all’Histoire de la raison d’État a Il governo a Firenze – che l’unità di uno Stato non è determinata dalla semplice sovrapposizione di più popoli uniti da un medesimo interesse, ma ha bisogno, accanto alla rivoluzione sociale e ai filosofi liberi, di un cuore comune, rappresentato dalla città capitale. Capitale che deve essere vista e difesa come centro vitale e di identità di un popolo. Se Parigi è il centro della cultura, della lingua, del carattere, delle identità francesi e dunque ne è l’unica capitale naturale, ciò non vale per l’Italia delle cento città e delle otto capitali. Infatti «abbiamo le capitali d’Italia, Milano, Venezia, Firenze, Napoli, Torino, Parma, Modena […] e le loro città rivali da Brescia a Palermo, a Catania» (in Id., Scritti politici, cit., p. 337).
Di conseguenza Ferrari deduce che le nazioni nascono federali o unitarie a seconda che nascano con una o più città centro delle comunità che la compongono. La forma di Stato quindi non la si stabilisce a tavolino o seguendo le proprie tendenze politiche, ma è frutto della naturale convivenza dei popoli, che solo la filosofia legata alla storia può rendere manifesta.
Quindi, e qui riesce la legge delle antinomie, il federalismo o il centralismo non sono valori assoluti e forme politiche universalmente valide, ma oscillano a seconda dei dati geografici, storici e sociali di ciascun popolo. Così, come avrebbe ribadito nell’intervento alla Camera dei deputati a Torino nella seduta dell’8 ottobre 1860, per l’Italia l’unica forma possibile di Stato non avrebbe potuto che essere quella federale, stante che in Italia l’unità è anomalia, dominata dalla regia barbarie.
Anche quando tratta di questioni politiche coeve e di possibili scenari per l’Italia e l’Europa, Ferrari rimane sempre ancorato al suo metodo di storico della filosofia. Come leggiamo nei suoi scritti maturi, quelli concepiti dopo il 1851, per ogni argomento preso in considerazione narra le teorie e le riflessioni di autori precedenti e o contemporanei sulle quali innesta le proprie ipotesi.
Una simile impostazione lo porta a ribadire spesso nelle sue opere che ogni pensiero o sistema dipende dalla sensazione causata dal mondo esterno, dal sentimento frutto di questa sensazione e dalla ragione sintesi di ambedue. Ed è questo tipo di rigida ricerca di risposte concrete alla necessità umana che spinge gli «uomini grandi» o geni a delineare i sistemi dominanti nella storia in quanto sanno capire ed esprimere, talvolta in anticipo, i bisogni e le aspirazioni dei loro contemporanei e i caratteri salienti del mutamento dello svilupparsi delle comunità.
Come sottolinea efficacemente e con dovizia di avvenimenti storici nell’Histoire de la raison d’État, ogni fase di questo mutamento è dominata dalla lotta tra conservatori e innovatori che genera un cambiamento della scena politica secondo lo schema che si ripete nel tempo, rivolgimento o novità, reazione, soluzione. È il ritorno in chiave politica della legge delle antinomie e di quella teoria della fatalità nella storia del genere umano, già tratteggiata nella Filosofia della rivoluzione come «dea di tutte le rivoluzioni».
La fatalità viene definita «una natura egualmente indifferente a Dio e a Satana che spiega la libertà, la servitù, le guerre e le rivoluzioni» (Histoire de la raison d’État, 1860, p. V) e diviene una norma o legge fissa del processo storico ove la natura è ordine necessario che guida quella contraddizione tra positivo e negativo che segna ogni azione e ogni fatto.
Legge delle antinomie, fatalità e genio sono i fondamenti della determinazione di ogni teoria dei periodi politici che si fonda sulla generazione, cioè «uomini che nascono, vivono e muoiono nei medesimi anni e, amici o nemici, appartengono alla stessa società» (Teoria dei periodi politici, 1874, p. 7). Senza addentrarci nei labirinti della ricerca dei numeri fissi della storia (dai trenta anni di ogni generazione, ai centoventicinque di ogni periodo storico, diviso in quattro tempi) retaggio della sua formazione filosofico-giuridica tendente a cercare leggi generali del cambiamento e a costruire paradigmi pedagogici attorno ai fatti storici, notiamo come con la Teoria dei periodi politici Ferrari tenda a ripercorrere i diversi momenti significativi della dialettica nella storia dell’umanità tra l’uomo che ragiona, l’uomo dell’interesse e l’uomo che urla e inveisce, l’uomo del dovere. Ragione e dovere che sono le tendenze generali della psicologia umana in ogni tempo e luogo.
Ne ricava che ogni età «politica», cioè regolata (o tendente a darsi) dalle leggi comuni, è caratterizzata da quattro momenti distinti. Il primo è quello della preparazione intellettuale o costruzione dei sistemi teorici atti a cambiare lo status politico. Il secondo segna l’affermarsi del mutamento politico con l’intervento, accanto ai pensatori, degli uomini d’azione. La terza fase è il ripensamento critico di quanto fatto e segna, spesso, il tentativo di ritorno al periodo precedente. La quarta e ultima è l’età della soluzione, nella quale le idee rivoluzionarie della prima sono ormai mentalità comune e hanno perso gran parte della novità innovatrice iniziale.
Questa teoria, che è prettamente politica, è corredata da Ferrari da riferimenti storici, da rimandi ideologici ai principali pensatori politici moderni da Vico a Georg Wilhelm Friedrich Hegel ed Emmanuel-Joseph Sieyès, da numerose e noiose tabelle statistiche e numeriche come documentazione sperimentale del suo ragionare e che rivelano una cauta adesione ai dettami del positivismo, poiché la storia è piena di «fatti imprevisti» che smentiscono i «migliori disegni, dove si cammina in mezzo a vittorie o a sconfitte inopinate» (Teoria dei periodi politici, cit., pp. 109-10 e segg.).
Però, essendo la teoria dei periodi politici un canone di analisi e di interpretazione della storia, essa mantiene la funzione di strumento atto a formulare previsioni se riesce a individuare e determinare in che fase delle quattro di ogni età politica si sta vivendo. Ciò lo spinge a non illudersi di poter cambiare l’evolversi degli accadimenti, ma a ricercare quelle linee costanti del corso della storia umana che lo possono aiutare a trovare e capire i vari momenti del mutamento, le ragioni dei contrasti e i fini delle forze in campo.
Il suo è il tentativo di delineare dopo una filosofia rivoluzionaria una statistica storica, che unita a quest’ultima sappia costruire una scienza politica operativa, che vada al di là degli enunciati teorici e delle definizioni rigide attorno ai concetti fondamentali del vivere insieme da quello di libertà a quelli di legge, di uguaglianza, di forma di Stato, di fratellanza, per raggiungere quello scopo che le è assegnato dai tempi: eguagliare le fortune degli uomini. Evidenti le assonanze con il suo maestro Romagnosi che parlava di equa distribuzione delle ricchezze.
Nella sua continua e quasi ossessiva ricerca delle leggi costanti delle riflessioni sulla politica Ferrari analizza le dottrine e le teorie politiche dai tempi antichi all’età a lui contemporanea. Lo scopo non è solo di erudizione o di conoscenza delle radici e dell’evolversi delle concezioni qualificanti una comunità, ma tende a individuare i meccanismi e le costanti delle variazioni dei concetti teorici fondamentali del pensiero politico e delle più o meno conseguenti ricadute nella realtà. In altri termini lo studio degli autori e delle loro dottrine viene attualizzato con il cercare e il sottolineare quegli aspetti che uniscono all’età contemporanea e ne sono un’utile lezione o guida per affrontare i temi e i nodi del presente.
Ne escono delle costanti che vengono da Ferrari riassunte in cinque punti. Il primo è che ogni teoria è conseguenza della lotta per cambiare o modificare i principi politici regolanti la società. La seconda costante è la connessione fra dibattito teorico e realtà attraverso il ruolo sociale del filosofo, che, di fatto, è intellettuale organico a un sistema politico. Il terzo punto è che le influenze delle teorie sulla realtà sono sempre limitate e si diffondono con grande lentezza. Il quarto rimanda a quel principio di contraddizione fra innovazione e conservazione, che con la legge delle antinomie segna tutto il pensiero ferrariano. Infine, l’ultima costante è data dal riconoscimento delle vie per giungere al progresso con la consapevolezza che si tratta di una tendenza perfettibile e continuamente oscillante tra positività e negatività.
Cinque punti che rafforzano in lui l’idea dell’imponderabilità della fatalità della storia umana, quantunque queste costanti ne riducano la portata. Ne nasce la concezione che la politica sia sempre
il segno di un moto più profondo, le sue forme sono i caratteri visibili del moto invisibile delle idee, e le sue categorie devono essere da noi studiate come l’alfabeto del grande libro della storia (Corso sugli scrittori politici italiani e stranieri, 1862, p. 18).
Con l’Histoire de la raison d’État il nostro Autore si propone di individuare lo spirito della politica nel senso inteso dei grandi e fissi canoni che regolano lo stare assieme e trova nella ragione di Stato la nascita della scienza moderna che studia e indica i meccanismi della macchina politica. Il fine è quello di dimostrare, come avrebbe più apertamente detto nel Corso sugli scrittori politici italiani e stranieri,
il torto delle scuole italiane, il torto di tutte le scuole, dai tempi i più remoti fino a Locke, a Montesquieu, ai politici contemporanei [che] è stato di confinare la scienza nell’idea di uno Stato isolato come se dovesse essere solo sulla terra (p. 594).
Pertanto, come si premura di sottolineare nella prima lezione del Corso, la politica va studiata emendata dalle passioni e da una visione assoluta e chimerica della verità e ricorrendo ai risultati dell’esperienza e della scienza storica secondo i dettami teorici di Vico. Il Vico che scopre la tendenza dei plebei a voler cambiare gli Stati e quella dei nobili a mantenerli e che le trasforma in una teoria politica ciclica a cui Ferrari aggiunge la verifica della realtà dei fatti, che sottolinea come la politica sia nel contempo lotta fra diverse fazioni e ricerca di modelli dello stare assieme.
Nel passare in rassegna e nell’analizzare sei secoli di storia attraverso le opere e il pensiero di centinaia di scrittori, si sofferma, oltre che sul prediletto Vico, sui classici Platone e Aristotele, su Machiavelli e Campanella e su Fourier e Proudhon, al quale avrebbe dedicato uno dei suoi ultimi scritti. Utopie e ideali che fanno da guida ai tentativi di mutamento politico. Aristotele è il grande artefice di tipologie di forma di governo ricavate dalla realtà che Ferrari, come Machiavelli, riduce a due: principato e repubblica. Ma è il Segretario fiorentino, al quale ha già dedicato un saggio nel 1849, il vero novatore della politica e come tale gli dedica ben tre delle sue lezioni in quanto
rimane solo nel mezzo di un mondo metà magico, metà astrologico […] e si presenta adunque come il maestro dell’arte di raggiungere le diverse mete della politica offrendo i suoi precetti indifferentemente ai principi, ai repubblicani, ai profeti, ai capitani, ai condottieri (Corso sugli scrittori politici italiani e stranieri, cit., pp. 195-96).
Senza dimenticare di sottolineare la sua debolezza di storico e di uomo d’azione ne esalta la funzione di legislatore della politica che trasforma le sue idee in «congegni e temi che sfidano la mobilità delle opinioni e afferrano con forza irresistibile tutti i casi, tutte le versioni dell’eterna fortuna» (p. 373).
Le pagine dedicate a Campanella, su cui ha già indagato nel 1840 nella sua tesi di dottorato in Francia, sono il riconoscimento tributato all’autore di La città del Sole come pensatore utopico che diffonde l’idea rivoluzionaria di un governo mondiale, nemico dei particolarismi, delle singole lotte intestine fra comunità e dei continui contrasti fra i poteri degli Stati e quelli delle Chiese.
Fourier, di contro, viene dipinto come il rappresentante moderno del platonismo in quanto formulatore di ideali e acuto critico della società a lui coeva. Proudhon, definito l’Emilio che esce dalla fabbrica, è dall’amico Ferrari considerato il pensatore simbolo della Francia degli anni centrali dell’Ottocento. È il rappresentante di quegli ideali di giustizia e libertà che, diffusi dalla Rivoluzione del 1789, sono i fondamenti della costruzione di una società nemica di ogni utopia e tendente a un avvenire ove la Terra diventa il vero paradiso.
L’attenzione dedicata alla teoria politica è inserita nel più vasto ambito dello studio della filosofia della storia e delle scienze umane nel quale l’antinomia fra teoria e pratica trova una dimensione in continuo divenire che si chiama incivilimento. Fermamente convinto che per arrivare a definire un insieme di costanti o di leggi storiche del divenire umano sia indispensabile esaminare un buon numero di menti o geni, come già fece in gioventù con Romagnosi e Vico, trova nel primo il fondatore teorico di quella filosofia civile che è la base metodologica del collegamento tra filosofia e storia e della figura del genio civile o «temosforo».
Il genio del Romagnosi e del Ferrari, che potremmo identificare con la figura dell’intellettuale militante, non si propone di creare società segrete, gruppi di pochi eletti oppure opinion makers, ma tende a costruire una coscienza popolare e un’opinione pubblica che siano il centro vitale dello Stato, definito da Romagnosi monarchia nazionale rappresentativa e da Ferrari federazione repubblicana. In questo quadro ogni avvenimento deve essere analizzato studiando la realtà e misurandola con i dati dell’insegnamento delle matematiche e con l’aritmetica della storia. Ma non basta. I risultati conseguiti devono essere inseriti in un più ampio e generale punto di vista che è quello del modello di società da perseguire. Solo così i concetti teorici che caratterizzano l’incivilimento, cioè la giustizia sociale, la necessità o interesse, la scienza o la coscienza popolare, possono divenire i fondamenti e le idee guida che permeano di sé le idee sociali e le trasformano in leggi politiche e in istituzioni che trasformano il suddito in cittadino.
Pertanto la storia del pensiero politico diventa lo strumento necessario per far sì che la storia acquisti accanto al suo tradizionale valore descrittivo degli avvenimenti quel compito di bussola concreta nell’individuare i percorsi atti a trasformare le teorie in azione tendente a perseguire quel fine di benessere e di progresso
in cui l’operaio non sarà più il servo del feudalesimo industriale, in cui la stampa avrà sparso il lume in tutte le capanne, in cui il castello sarà un assurdo, in cui l’industria non sarà più salariata dall’ozio, il genio e la capacità non saranno più incatenati ai capitali trasmessi agli inabili dal caso dell’eredità (La mente di Vico, 1837, p. 214).
Conseguentemente la storia del pensiero politico non si limita a conoscere, ordinare e classificare, ma indica come riconoscere quelle costanti nei mutamenti teorici ai quali si correlano i mutamenti della realtà.
E ancora, nella lettera a Proudhon datata Milano 3 gennaio 1860 e riportata da Franco Della Peruta nel suo intervento al convegno dedicato a Giuseppe Ferrari e il nuovo Stato italiano, ben riassume il senso dato alla sua attività e alle sue ricerche. Difatti vi leggiamo che
poiché il fato volle che altro mezzo di essere utile alla nazione non mi sia concesso se non il pensiero esatto, la precisione dei termini e la severità della scienza inseparabile da uno studio indipendente, lasciatemi a me stesso; il mio consiglio vi riuscirà più salutare in un labirinto di questioni in cui tutto cambia ad ogni tratto, in cui i nemici mutano ad ogni instante tesi, concetti, forme e alleanze e dove infine conviene ad ogni costo quella libertà individuale che creava Campanella, Vico e Romagnosi (Giuseppe Ferrari e il nuovo Stato italiano, 1992, p. 381).
Senza forzature, queste parole possono essere considerate l’essenza del suo testamento filosofico e politico e della sua attività di isolato novatore del legame tra teoria e azione, filosofia e scienza.
La mente di Giandomenico Romagnosi, Milano 1835.
Opere di Giambattista Vico, ordinate ed illustrate coll’analisi storica della mente di Vico in relazione alla scienza della civiltà da Giuseppe Ferrari, 6 voll., Milano 1835-1836.
La mente di Giambattista Vico, Milano 1837.
Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l’histoire, Paris 1843.
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La federazione repubblicana, Londra [ma Capolago] 1851.
Filosofia della rivoluzione, Londra [ma Capolago] 1851.
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Histoire de la raison d’État, Paris 1860.
Corso sugli scrittori politici italiani e stranieri, Milano 1862.
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La mente di Pietro Giannone, Milano 1868.
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