Ferrari, Giuseppe
Filosofo e uomo politico (Milano 1811 - Roma 1876). Laureato in giurisprudenza, si dedicò poi completamente agli studi filosofici. Ebbe in Gian Domenico Romagnosi il proprio maestro e in Giambattista Vico l’ideale ispiratore. Nel 1838 si trasferì in Francia, dove trovò un ambiente intellettuale più congeniale. Fu durante il periodo trascorso a Parigi che realizzò alcune delle sue opere più importanti. Nel Saggio sul principio e sui limiti della filosofia della storia (1843) e in Filosofia della rivoluzione (1851) criticò la filosofia della storia di Hegel, in nome delle contraddizioni irresolubili della vita, approdando a una concezione attivistica. Sull’onda della rivoluzione del 1848 si dedicò alla riflessione sui caratteri che avrebbe dovuto assumere la rivoluzione italiana. La via del cambiamento graduale, a suo dire, non aveva sbocco, perché le riforme sarebbero servite soltanto a rafforzare l’assolutismo. Per risolvere la questione italiana e fare dell’Italia divisa e demoralizzata una nazione bisognava invece intraprendere la strada della rivoluzione. Sostenitore di un indirizzo democratico-socialista, in parte debitore delle teorie di Proudhon, affermò a più riprese l’inscindibilità della rivoluzione politica da quella sociale. Sul piano istituzionale la rivoluzione sociale avrebbe dovuto dar vita a un assetto federale. La necessità di tener conto delle singole istanze rivoluzionarie lo portò infatti a sostenere un federalismo repubblicano e democratico; non quindi «la repubblica», ma «le repubbliche» dei singoli Stati, ognuna con una sua costituzione, una sua assemblea, un suo governo e con un’assemblea nazionale formata dai rappresentanti delle repubbliche federate, con funzioni limitate agli affari internazionali e militari. Convinto che l’Italia non avrebbe potuto raggiungere da sola l’unità, si espresse a favore dell’intervento della Francia. Tornato in Italia nel 1859, nel marzo successivo fu eletto deputato al primo Parlamento dell’Italia in via di unificazione. Sedette alla Camera, sui banchi della Sinistra, ininterrottamente fino al 1876. Nel momento della formazione dello Stato unitario sostenne una coerente battaglia per il federalismo e per il decentramento, e a quei principi rimase fedele per tutto il corso della sua attività di parlamentare, trovandosi però isolato dal resto della Sinistra. Fu inoltre sostenitore di una piena emancipazione dello Stato italiano da ogni legame religioso. Nel 1876 venne nominato senatore. I suoi meriti scientifici ottennero ampi riconoscimenti ufficiali: ebbe una cattedra universitaria a Milano, tenne corsi liberi a Torino e a Pisa e nel 1876 fu nominato socio nazionale dei Lincei. Tra i suoi scritti sono da ricordare anche Histoire des révolutions d’Italie (1856-58), in cui reinterpretò l’intera storia d’Italia, considerata un susseguirsi di rivoluzioni al cui culmine si sarebbe posto il Risorgimento, e il Corso sugli scrittori politici italiani (1862).