Garibaldi, Giuseppe
L'eroe dei due mondi
Dei quattro grandi artefici del Risorgimento italiano, Giuseppe Garibaldi è stato, in Italia, il più popolare e amato e, nel mondo, il più conosciuto e ammirato. L'apostolato di Mazzini, l'iniziativa regia di Vittorio Emanuele II, la superlativa intelligenza politica e la straordinaria abilità diplomatica di Cavour furono noti, specie fuori d'Italia, soprattutto a ceti dirigenti ed élite intellettuali. Tuttavia, per le fasce più popolari dell'opinione pubblica, il Risorgimento italiano si identificò eminentemente con lui, l'eroe senza macchia e senza paura, pronto a sacrificare tutto per la patria, capace di conquistare con un pugno di volontari un Regno antico di secoli e di consegnarlo al re della nascente Italia
Garibaldi nacque a Nizza nel 1807. Il padre avrebbe voluto che il figlio facesse l'avvocato o il medico, ma Giuseppe ‒ prestanza fisica straordinaria e vitalità incontenibile ‒ assai più degli studi amava il mare e l'azione. A 15 anni scelse la vita da marinaio e s'imbarcò come mozzo su una nave diretta a Odessa. Durante ripetuti viaggi in Levante venne a contatto con un affiliato alla Giovine Italia e con alcuni seguaci di Claude-Henri Saint-Simon, considerato l'iniziatore del socialismo moderno. Fu affascinato dal progetto patriottico, democratico, repubblicano e rivoluzionario dell'uno; e avvinto dagli ideali socialisti e umanitari degli altri. Democrazia, umanitarismo, socialismo, patriottismo furono gli ideali ai quali restò fedele per tutta la vita.
Conobbe personalmente Mazzini nel 1833 a Marsiglia, quando questi stava organizzando il moto rivoluzionario in Savoia. Decise di collaborare e cercò di organizzare un moto a Genova. L'iniziativa fallì: fu condannato a morte in contumacia e nel 1835 emigrò in Brasile.
In America Garibaldi fece vari mestieri, dal marinaio al commerciante, al sensale. A stretto contatto con la folta colonia di emigrati liguri, fra cui molti militanti mazziniani, consolidò la sua formazione politica. Comprese che la libertà della patria era un valore universale, da difendere sempre, anche quando era in gioco non la propria vita ma quella degli altri. Dal 1837 partecipò alla guerra a fianco della provincia brasiliana ribelle di Rio Grande do Sul. Nel 1841 passò a Montevideo dove, dopo un periodo di non fortunata attività commerciale, ritornò all'uso delle armi nella guerra che l'Uruguay combatté contro l'Argentina del dittatore J.M. de Rosas. Nel 1843 creò la Legione italiana, che vestì la camicia rossa. Nel 1847 gli fu affidato il comando generale della difesa di Montevideo.
Fu in quegli anni che nacque il mito dell'eroe dei due mondi, ingigantito dall'eco di una serie di fatti d'arme tutti a rischio personale elevatissimo, spesso della stessa vita. Coraggioso sino alla temerarietà, in America Garibaldi conobbe prigione e tortura. Da semplice combattente divenne comandante per mare e per terra dotato di trascinante carisma e doti strategiche di alto valore. In America conobbe anche la donna della sua vita: Anita, al secolo Anna Maria Ribeiro da Silva, che abbandonò il marito per seguirlo. La sposò nel 1842, dopo la morte del marito. Fu un amore smisurato e travolgente; un'unione che solo la morte divise. Anita lo seguì ovunque, anche in battaglia. Condivisero tutto: ideali e passioni, sconfitte e vittorie, prigionia e gloria. Nell'aprile del 1848, quando con una sessantina di seguaci fece ritorno in Italia, Anita lo seguì con i tre figli che nel frattempo avevano avuto.
Il rapporto con la monarchia sabauda. Sbarcato a Nizza, proseguì per Genova e, senza l'accordo di Mazzini, chiese a Carlo Alberto di poter entrare nell'esercito sardo con la sua Legione di volontari, che erano saliti a circa 200. Fu questa la prima manifestazione di una divergenza tra i due, sul rapporto con la monarchia sabauda, che in seguito sarebbe divenuta dissidio mai ricomposto.
Mazzini e i maggiori esponenti del movimento democratico, Carlo Cattaneo in testa, non intendevano riconoscere un ruolo egemone a Casa Savoia, perché ciò avrebbe impresso un carattere conservatore al processo unitario, conferendo il potere decisionale ai vertici e lasciando ai margini la base, con il rinvio a tempo indeterminato dell'instaurazione della repubblica. Garibaldi invece, pur di conseguire l'obiettivo primario dell'unità e dell'indipendenza, era disposto a transigere sulla pregiudiziale repubblicana. Da esperto uomo d'armi valutò subito che il movimento democratico, senza l'appoggio di almeno uno degli Stati italiani, non aveva la forza militare per realizzare il proprio programma politico.
Carlo Alberto, comunque, rifiutò l'arruolamento della Legione garibaldina e il chiarimento con Mazzini fu per il momento rinviato. Garibaldi fu invece accolto dal governo provvisorio di Milano, che lo pose al comando di un corpo di volontari, male armato e peggio equipaggiato. Nonostante ciò, condusse ugualmente un'energica e brillante campagna militare contro gli austriaci.
La difesa di Roma. Proclamata con Mazzini la Repubblica Romana nel febbraio del 1849, gli fu affidata la difesa di Roma. Sconfisse ripetutamente francesi e borbonici, prima di essere costretto ad arrendersi alla superiore potenza di fuoco dell'armamento francese. Garibaldi lasciò Roma con 4.000 uomini nell'intento di recarsi a Venezia, dove la repubblica di Daniele Manin ancora resisteva. Braccato da tre eserciti, a San Marino fu costretto, al termine di una marcia entrata nella leggenda, a sciogliere la sua colonna. Qualche giorno dopo morì Anita, che, come sempre, lo aveva seguito, nonostante fosse incinta. Riuscì poi a eludere la caccia della polizia austriaca, pontificia e toscana, e a espatriare nuovamente.
Dalla prova del 1848-49 il movimento nazionale uscì sconfitto, la fama di Garibaldi valoroso combattente e grande condottiero risultò invece confermata ed enormemente rafforzata.
All'estero fu ancora marinaio, operaio, commerciante in giro per il mondo: Africa, America, Cina, Inghilterra. Nel 1852 tornò a Nizza e vi riprese l'attività di cabotaggio, trasporto di merci per mare.
Nel 1854 si dissociò apertamente dalla strategia politica di Mazzini, giudicando velleitari e improduttivi i suoi tentativi rivoluzionari. Era ormai orientato a sostenere la monarchia sabauda, purché questa avesse fatta propria la causa italiana.
Nel 1857 si ritirò a Caprera, dove aveva acquistato terreni e dove si diede all'agricoltura, alla pastorizia e a un modesto commercio di legname. Ma in quello stesso anno fu costituita a Torino la Società Nazionale col programma 'Italia e Vittorio Emanuele'. Daniele Manin ne fu il presidente, Giuseppe La Farina il segretario; Garibaldi fu nominato vicepresidente. Il distacco da Mazzini era consumato. Idealmente, Garibaldi restava democratico e socialista; politicamente, invece, lasciava cadere la pregiudiziale repubblicana e diveniva fautore di una monarchia costituzionale affidata a Vittorio Emanuele II sulla base di una legittimazione dal basso, sancita dall'apporto del popolo in armi guidato dallo stesso Garibaldi. Tra il 1858 e il 1859 si incontrò con Cavour e con il re. In vista della guerra all'Austria fu costituito il corpo di 3.000 volontari dei Cacciatori delle Alpi, posto ai suoi ordini, quale generale dell'esercito sardo. Non mancarono frizioni con i comandi militari piemontesi e ciò limitò anche la portata dei brillanti successi che comunque i volontari garibaldini conseguirono.
Una situazione di stallo. Dopo l'armistizio di Villafranca Garibaldi per non restare inattivo si dimise da generale dell'esercito sardo e si recò nell'Italia centrale al servizio dei governi insorti. Il suo obiettivo dichiarato fu Roma, ma lo stesso Vittorio Emanuele per il momento riuscì a dissuaderlo.
Tuttavia, una volta annesse al Piemonte la Lombardia, l'Emilia, la Toscana e la Romagna, l'iniziativa moderata segnava, irrimediabilmente, il passo. La Francia, ormai più dell'Austria, chiudeva il varco a qualunque azione contro Roma. L'Inghilterra non aveva interesse a promuovere un ulteriore ingrandimento piemontese. Lo stesso Cavour sembrava non avere più frecce nel suo arco. Vedeva tempi lunghi per la soluzione sia del problema romano sia di quello meridionale. Fu allora che la ripresa di iniziativa da parte di Garibaldi rimise in moto il processo di unificazione, traendolo fuori dalla situazione di stallo in cui era entrato.
La spedizione. Giuntagli notizia della rivolta scoppiata a Palermo, si pose a capo della spedizione dei Mille che partì da Quarto (Genova) nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860. Tappe dell'impresa furono: lo sbarco a Marsala, la battaglia di Calatafimi, la presa di Palermo, la battaglia di Milazzo, il passaggio dello Stretto e la marcia attraverso la Calabria fino all'ingresso a Napoli. Seguì quindi la battaglia del Volturno e l'incontro a Teano con il re, assieme al quale entrò a Napoli il 7 novembre. L'impresa dei Mille, che univa il Mezzogiorno al Piemonte per formare l'anno successivo il Regno d'Italia, resta in assoluto una delle mosse più produttive e geniali dell'intero processo di unificazione, nonché il maggior risultato politico dell'intera vita dell'eroe dei due mondi.
A proposito di questa impresa è stato sottolineato che Garibaldi collocava l'invasione del regno borbonico in una visione non troppo realistica dei rapporti internazionali. In effetti egli riteneva che l'impresa meridionale si sarebbe potuta concludere senza troppi problemi con la presa di Roma. Tale errata convinzione lo avrebbe portato più tardi a ritentare la presa di Roma, trovando due cocenti delusioni: in Aspromonte (dove fu fermato e ferito dall'esercito italiano) nel 1862 e a Mentana nel 1867 (quando fu costretto alla ritirata dalle truppe francesi e pontificie). Tuttavia, se questa sua visione avrebbe poi pesato negativamente per Roma, non fu altrettanto per il Regno delle Due Sicilie. Qui meglio degli altri egli intuì quanto poi avvenne, e cioè che nessuna potenza europea riteneva che valesse la pena rischiare un conflitto con chicchessia per salvare il regime borbonico.
A Garibaldi, dunque, va non solo la gloria di avere condotto con l'impresa dei Mille la maggiore campagna militare del Risorgimento realizzata da forze esclusivamente italiane, e di avere inanellato, da Calatafimi, a Palermo, a Milazzo, a Messina, al Volturno, una serie di vittorie strepitose contro forze militari numericamente sempre superiori alle sue; ma a lui va anche ascritto il merito tutto politico di avere portato l'attacco al regno borbonico, quando i moderati e lo stesso Cavour non lo ritenevano ancora possibile.
Fu lui a restituire al popolo italiano, con l'azione concreta e non solo con le parole, la dignità e l'immagine, trascurate da secoli, di un popolo che sapeva battersi con le armi per la propria libertà e per la propria indipendenza.
Quel che avvenne dopo il 1860 aggiunse ancora qualcosa ai suoi meriti militari. La campagna condotta in Trentino durante la guerra del 1866, pur non ripetendo le gesta del 1860, fu l'unica vittoriosa da parte italiana, anche se i territori occupati dovettero essere restituiti all'Austria in forza del trattato di pace. La sua opera di sostegno ai movimenti nazionali polacchi, ungheresi, romeni e slavi nei primi anni Sessanta e l'aiuto offerto alla Francia nel 1870-71 con la difesa di Digione furono prove ulteriori della sua grande generosità e del valore universale che egli attribuiva al concetto di patria. Nel 1882, quando morì, il peso e il significato storico della sua figura restavano strettamente legati a quanto aveva realizzato prima del 1860.