socialismo
In lotta contro le disuguaglianze sociali
Il socialismo è una teoria politica finalizzata alla costruzione di una forma di società fondata sulla solidarietà tra gli uomini e diretta ad assicurare l’eguaglianza economica, abolendo o quanto meno sottoponendo al controllo pubblico la proprietà privata. I socialisti, almeno sino alla prima metà del Novecento, hanno visto infatti nella proprietà privata la causa primaria dei conflitti politici e sociali e dei contrasti tra gli Stati. Il comunismo può essere considerato come l’ala più radicale del socialismo
Le radici del socialismo sono da ricondursi alle utopie sociali di Platone, del taoismo cinese, del cristianesimo primitivo, le quali – pur nella varietà dei motivi e delle situazioni storiche – esaltavano la comunità dei beni materiali come condizione di una vita migliore, anche sul piano spirituale. Nel Medioevo fecero la loro comparsa movimenti ereticali che condannavano la ricerca della ricchezza individuale come anticristiana e fonte di corruzione.
Una continuità di ispirazione con questi movimenti ebbero nel Cinquecento varie correnti comunistiche comparse nel mondo protestante in Germania. Esperimenti comunisti furono messi in atto nel 17° secolo in Paraguay dai gesuiti in comunità indigene da essi guidate, e da correnti radicali durante la rivoluzione inglese. I primi teorici moderni del comunismo furono nel Cinquecento l’inglese Tommaso Moro, nel Seicento l’italiano Tommaso Campanella e nel Settecento i francesi Jean Meslier, Gabriel Bonnot de Mably e Morelly.
A fine Settecento la rivoluzione industriale in Inghilterra e quella politica che nel 1789 abbatté l’antico regime in Francia mutarono profondamente gli assetti sociali. La prima rese evidente che era possibile aumentare enormemente la ricchezza materiale; la seconda diffuse una nuova ansia di solidarietà umana e di eguaglianza.
Entrambe, tuttavia, generarono un profondo senso di delusione negli strati sociali più umili e in quanti restavano esclusi dal benessere e vedevano gli strati superiori della società perpetuare i loro privilegi. Sorse così una grande questione sociale che contribuì a rafforzare il socialismo il quale, promosso da minoranze intellettuali e politiche, si proponeva di mettere il progresso industriale ed economico al servizio di tutta la società.
I maggiori esponenti del socialismo tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento si divisero tra comunisti e socialisti. Tra i primi, tutti fautori della mobilitazione rivoluzionaria delle masse, vanno ricordati il francese François-Noël Babeuf (sostenitore della dittatura del Quarto Stato, cioè degli strati inferiori della società), il tedesco Wilhelm Weitling e il francese Étienne Cabet (che teorizzavano l’avvento del millennio dell’eguaglianza comunista), il francese Louis-Auguste Blanqui (infaticabile cospiratore).
Tra i socialisti – che generalmente erano favorevoli alle riforme graduali, ma si caratterizzarono per l’elaborazione di progetti di società utopiche – i più importanti furono l’industriale inglese Robert Owen, che giunse a istituire una ‘colonia’ fondata sulla proprietà comune in America; il francese Claude-Henry de Saint-Simon, che concepì il socialismo come un «nuovo cristianesimo» fondato sullo spirito scientifico, la tecnica e l’industria moderna; il francese Charles Fourier, teorico dei falansteri, complessi produttivi autosufficienti volti a promuovere l’armonia e la libertà creatrice. Dal canto suo il francese Louis Blanc si fece fautore di un intervento attivo dello Stato nella produzione e del diritto di tutti al lavoro. Un altro francese, Pierre J. Proudhon, uno dei padri dell’anarchismo – avverso alla dittatura del proletariato e alla proprietà statale, che a suo parere avrebbero prodotto la degenerazione burocratica del socialismo e il soffocamento delle libertà –, auspicava una società fondata sul federalismo, sul decentramento, sulla cooperazione libera e concorrenziale.
Nella prima metà dell’Ottocento il socialismo diventò un movimento che influenzò sempre più le masse lavoratrici, decise a condurre una lotta di classe per più alti salari e per il diritto a votare e a costituire sindacati legali. Il più importante movimento degli operai in quel periodo fu il cartismo inglese – così denominato dalla Carta del popolo presentata nel 1838 al Parlamento, nella quale si chiedeva il suffragio universale maschile –, il quale però subì nel 1848 una sconfitta da cui non si riprese più.
Nel febbraio di quello stesso anno gli operai parigini, scoppiata la rivoluzione che abbatté la monarchia ‘borghese’ di Luigi Filippo, salirono sulle barricate. Ottennero dal ministro socialista Louis Blanc le ‘fabbriche nazionali’, che però, poco efficienti e sabotate dalle forze conservatrici, vennero chiuse. Il grave disagio degli operai francesi era già sfociato nel ventennio precedente in una serie di insurrezioni, in cui aveva avuto un ruolo direttivo Blanqui, la cui dottrina – il blanquismo – poggiava sull’idea che spettasse a una élite di rivoluzionari educare le masse e aprire con la propria dittatura la via alla nuova società.
La lotta di classe. Tra gli anni Quaranta e Sessanta dell’Ottocento andò imponendosi una nuova corrente a opera di due grandi intellettuali tedeschi, Karl Marx e Friedrich Engels, che – per il ruolo dominante del primo – venne denominata marxismo. I testi più emblematici di questa corrente – destinata ad avere nella storia del Novecento un’influenza immensa a livello mondiale – furono il Manifesto del Partito comunista (1848) e Il capitale (il cui primo volume apparve nel 1867). Le tesi centrali del marxismo, che si presentò come «socialismo scientifico» in polemica con le precedenti correnti socialiste criticate in quanto inadeguate o decisamente utopistiche, erano le seguenti. Tutta la storia delle società civili è stata segnata dalla lotta tra le classi nel corso della quale quelle emergenti hanno soppiantato quelle declinanti e dall’uso dello Stato come mezzo usato dalla classe dominante per opprimere la classe subalterna. Nell’era presente domina il capitalismo, frutto della rivoluzione industriale diretta dalla borghesia, il quale arricchisce una minoranza e lascia nella povertà e nello sfruttamento la grande maggioranza. Tra borghesi e proletari vi è un incomponibile contrasto di interessi.
La dittatura del proletariato. Compito dei comunisti, i quali costituiscono la componente più consapevole e radicale del socialismo internazionale, è di fondare – passando attraverso il socialismo come tappa intermedia – la società comunista: senza proprietà e senza Stato, basata sull’eguaglianza integrale e sull’auto-amministrazione di tutti, liberata dai conflitti tra le classi e gli Stati. Il progresso industriale aumenta incessantemente le file degli operai, mette in una crisi irreversibile i ceti medi legati a forme e tecniche produttive obsolete, concentra – in un quadro di generale proletarizzazione – la produzione in unità industriali giganti nelle mani di una minoranza sempre più ristretta di padroni.
La vittoria del proletariato seguita alla crisi generale del capitalismo porterà a una dittatura del proletariato e alla proprietà collettiva dei mezzi di produzione organizzata dallo Stato socialista. Dopo la fase socialista avrà inizio la costruzione del comunismo.
L’anarchismo. La maggiore sfida a Marx venne portata dall’anarchico russo Michail A. Bakunin (anarchismo), il quale sostenne che la forza più rivoluzionaria non era il proletariato di fabbrica – destinato a integrarsi nel sistema capitalistico – ma il corpo composito dei veri emarginati della terra: i contadini più poveri, i braccianti, i disoccupati, i sottoproletari urbani.
Il vero scopo del socialismo era non uno Stato collettivista oppressore, ma una società basata sulla federazione universale dei liberi comuni.
Il socialismo cominciò a diventare una forza politica caratterizzata da un peso crescente con la costituzione dei partiti e dei sindacati socialisti e di organizzazioni internazionali volte a coordinare le energie comuni (il che avvenne soprattutto in Europa). Nel 1864 venne fondata a Londra la Prima Internazionale, nella quale confluirono marxisti, anarchici, esponenti dei sindacati inglesi (Trade unions) e anche democratici come Giuseppe Mazzini che, pur non essendo socialisti, ritenevano necessario organizzare e difendere le masse lavoratrici.
Tra il marzo e il maggio 1871 prese vita a Parigi un governo rivoluzionario represso sanguinosamente: la Comune. Esso si fondò sulla democrazia diretta e sull’eguaglianza delle retribuzioni, e venne esaltato da Marx come il primo esempio moderno di governo socialista. La Prima Internazionale finì per essere travolta dai contrasti tra marxisti e anarchici nel 1872, ma venne sciolta formalmente soltanto nel 1876.
Nel 1875 fu creato il Partito socialdemocratico tedesco che, conquistato al marxismo, divenne il maggiore dei partiti socialisti europei. Partiti socialisti sorsero via via in pressoché tutti gli altri paesi. Nel 1892 nacque il Partito socialista italiano e nel 1906 in Gran Bretagna il Partito laburista. Nel 1889 venne fondata la Seconda Internazionale, da cui nel 1896 furono esclusi gli anarchici. Tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale la vita interna dei partiti socialisti fu segnata dalla divisione tra le correnti rivoluzionarie tese primariamente all’abbattimento del capitalismo e quelle riformistiche che ritenevano necessario anzitutto impegnarsi nell’azione graduale, e cioè nelle lotte per l’allargamento dei diritti politici e sociali anche mediante intese elettorali e parlamentari, in stretto contatto con i sindacati e nel quadro delle istituzioni degli Stati nazionali.
La dottrina marxista venne criticata in maniera radicale dal tedesco Eduard Bernstein, il quale tra la fine del 19° secolo e gli inizi del 20° diede origine alla revisione del marxismo (revisionismo), sostenendo che era vana l’attesa di una crisi generale del capitalismo e che scopo primario dei socialisti era non già di aspettare la mitica rivoluzione mondiale, ma di allargare le frontiere della democrazia e di migliorare le condizioni dei lavoratori mediante riforme politiche e sociali nei singoli paesi. Le teorie di Bernstein diedero origine a una grande controversia nel seno del socialismo internazionale, la quale mostrò quanto ormai profonde fossero le differenze al suo interno.
Una posizione diametralmente opposta a quella di Bernstein venne assunta dai rivoluzionari intransigenti e marxisti ortodossi europei, tra cui emerse in Russia Vladimir Il´ič Lenin. In questo paese nel 1898 i marxisti avevano fondato il Partito operaio socialdemocratico russo, che nel 1903 si scisse in menscevichi («minoritari») e bolscevichi («maggioritari»). Capo incontrastato di questi ultimi, Lenin sostenne che nel dispotico Impero zarista bisognava formare un partito fedele alla dottrina rivoluzionaria di Marx, organizzato su base centralistica e diretto in maniera autoritaria da rivoluzionari di professione, in grado di mobilitare le masse operaie e i contadini poveri trasmettendo loro dall’alto la coscienza socialista. I bolscevichi si costituirono in un partito di fatto autonomo nel 1912. Dopo l’insuccesso della rivoluzione del 1905, in Russia l’onda rivoluzionaria venne immensamente ingrossata dagli effetti della Prima guerra mondiale (rivoluzioni russe).
La Prima guerra mondiale. Lo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914 divise profondamente la Seconda Internazionale e ne determinò la crisi. La grande maggioranza dei partiti socialisti – le maggiori eccezioni furono il partito russo e poi nel 1915 quello italiano – appoggiò i governi dei propri Stati in guerra, ma tutti si divisero in correnti contrastanti. La leadership dell’opposizione internazionale alla guerra fu assunta da Lenin, il quale teorizzò che il conflitto costituiva la prova della crisi epocale del capitalismo giunto alla sua ultima fase e della piena attualità della rivoluzione socialista mondiale. Lenin sostenne altresì che i socialisti postisi al servizio dei loro governi erano dei traditori; che occorreva dare vita a una nuova Internazionale rivoluzionaria; che la guida della imminente rivoluzione proletaria spettava ai comunisti e alle altre correnti rivoluzionarie del socialismo.
Nell’ottobre del 1917, crollato lo zarismo, i bolscevichi presero il potere in Russia, imposero la dittatura del loro partito distruggendo ogni germe di democrazia, denunciarono la socialdemocrazia come capitolazione e asservimento al capitalismo, e invitarono i loro seguaci in tutto il mondo a dar vita a partiti comunisti e ad aderire alla Terza Internazionale fondata nel 1919. La frattura nel socialismo internazionale era così consumata. I socialisti che concepivano il socialismo un fine da perseguirsi attraverso la democrazia parlamentare e la difesa delle libertà politiche e civili considerarono per parte loro la dittatura sovietica come una nuova inaccettabile forma di dispotismo che opprimeva in primo luogo le masse lavoratrici.
Socialdemocratici e comunisti. Il piano di rivoluzione mondiale dei comunisti non ebbe successo, poiché tanto la profonda crisi del dopoguerra quanto quella causata dalla crisi economica del 1929 lasciarono la Russia isolata e si risolsero con la ripresa del capitalismo, la sconfitta delle correnti rivoluzionarie e la costituzione in un numero crescente di paesi del vecchio continente di regimi autoritari di destra.
Tra le due guerre mondiali in Europa i rapporti tra i socialisti democratici per un verso e i comunisti e i socialisti filocomunisti per l’altro furono improntati a una forte conflittualità che favorì le destre autoritarie. Di fronte al pericolo estremo del fascismo internazionale nel 1935 furono bensì costituiti i Fronti popolari, che nel 1936 vinsero le elezioni in Spagna e Francia, ma essi non riuscirono a fermare nella prima la vittoria del generale Franco e nella seconda la progressiva crisi della repubblica democratica.
Nell’Europa occidentale il contributo più significativo alle politiche di governo venne dato dalle socialdemocrazie in quei paesi dell’Europa del Nord nei quali esse si trovarono al potere negli anni Trenta e Quaranta, facendo fronte agli effetti devastanti provocati prima dalla crisi economica scoppiata nel 1929 e poi dalla Seconda guerra mondiale.
Venne lanciata la politica del Welfare State o Stato del benessere, diretta a costituire una rete di protezione sociale generalizzata a opera dello Stato, che ebbe le sue maggiori applicazioni in Svezia, in Gran Bretagna e nella Germania occidentale.
A metà Novecento, con l’eccezione del laburismo inglese che non si era mai convertito al marxismo, nei partiti socialisti e socialdemocratici – salvo che in quelli soggetti all’egemonia comunista – erano ancora prevalenti l’aspirazione a creare una società socialista e l’influenza del marxismo, sia pure recepito in maniera divergente rispetto all’interpretazione di esso data dai partiti comunisti che erano al potere nell’Europa dell’Est o in Asia. Sennonché la loro cultura e le loro strategie politiche avevano ormai il loro saldo fondamento nel riformismo e nella democrazia pluralistica. Una svolta fu rappresentata dal congresso di Bad Godesberg del 1959, in cui il Partito socialdemocratico tedesco recise ufficialmente ogni legame con l’ideologia marxista.
Dopo l’aspro confronto negli anni più acuti della guerra fredda – che vide i socialdemocratici appoggiare il campo occidentale e i comunisti il campo degli Stati in cui questi erano al potere –, a partire dagli anni Settanta è andata acutizzandosi la crisi del comunismo, che è precipitata alla fine degli anni Ottanta con il crollo dei regimi dell’Europa dell’Est, cui ha fatto seguito il disfacimento dell’Unione Sovietica. L’effetto è stato tale da portare alla vittoria della socialdemocrazia sul suo antagonista comunista. Ormai da tempo il fine dei partiti socialdemocratici era non già abbattere il capitalismo, ma difendere e allargare le frontiere della democrazia e dell’equità sociale.