Moro, Tommaso
Il padre dell’utopia
Sebbene la Chiesa cattolica abbia proclamato santo Tommaso Moro a causa della sua opposizione allo scisma anglicano del 1534, opposizione che pagò con la condanna a morte, l’umanista inglese deve in realtà la sua fama all’invenzione di una piccola parola destinata a un grande futuro. Egli scrisse infatti un romanzo nel quale si racconta di un’isola lontana, sulla quale è stata realizzata una società perfetta: il nome dell’isola, e dello stesso romanzo, era Utopia
Nato nel 1478 a Londra, dove fu giustiziato nel 1535, Tommaso Moro fu un importante uomo politico (arrivò a ricoprire la carica di cancelliere d’Inghilterra) e un fine umanista. Ed è alla sua conoscenza della lingua greca che si deve l’invenzione della parola utopia, derivata da òu («non») e tòpos («luogo»). Utopia è quindi il «luogo che non c’è». Ma probabilmente Moro giocò sul fatto che u poteva derivare anche da èu («bene»), nel qual caso utopia sarebbe il «luogo buono». Da allora utopia conservò questo duplice significato: qualcosa che non c’è, ma che sarebbe bello se ci fosse.
Se la parola era nuova, l’idea – quella di una società perfettamente giusta – era senz’altro antica: non a caso nell’opera di Moro troviamo un aperto elogio di Platone, nonché molte idee simili alle sue (in primo luogo, l’abolizione della proprietà privata).
La cosa singolare è che soltanto tre anni prima di Utopia (1516) era apparso il Principe, nel quale Niccolò Machiavelli aveva criticato tutti coloro i quali, a partire da Platone, si erano «immaginati repubbliche» inesistenti. Contro questo atteggiamento Machiavelli aveva affermato che in politica conta soltanto la realtà effettuale, ossia le cose come sono e non come dovrebbero essere (secondo i nostri desideri o i nostri ideali). Moro scelse la prospettiva opposta: alla società del suo tempo – che, così com’era, gli appariva profondamente ingiusta – egli contrappose una società ideale, un modello al quale gli uomini potevano ispirarsi al fine di modificare la realtà.
Così, per una di quelle singolari coincidenze di cui è disseminata la storia delle idee, all’inizio dell’età moderna apparvero quasi contemporaneamente due opere che sarebbero divenute il modello di due modi opposti di concepire la politica: il realismo e l’utopismo.
Nella prima parte del romanzo Moro traccia un quadro drammatico delle condizioni socioeconomiche dell’Inghilterra del tempo, attribuendolo essenzialmente alle enclosures, le recinzioni con le quali i proprietari terrieri avevano trasformato i terreni destinati alla coltivazione comune in più redditizi pascoli per le pecore. Molti contadini avevano perso il lavoro e a volte anche la casa: di qui il diffondersi del vagabondaggio e della delinquenza. Ciò dipendeva, secondo Moro, da un assetto sociale sbagliato: là dove esiste la proprietà privata e «tutto si misura col denaro non è possibile che la vita dello Stato si svolga giusta e prospera».
La controprova stava in ciò che il navigatore Raffaele Itlodeo aveva visto in uno dei suoi viaggi oceanici, quando era finito sull’isola di Utopia, regno della perfetta felicità. A Utopia – la cui descrizione occupa la seconda parte del romanzo – non esiste proprietà privata: in tutte le città esiste una piazza centrale dove ogni famiglia deposita ciò che ha prodotto e prende ciò di cui ha bisogno, senza necessità di denaro. Le leggi sono poche e semplici e le cariche politiche sono elettive. Tutti lavorano, praticando l’agricoltura e l’artigianato, il che permette di ridurre l’orario di lavoro a sole sei ore. Il resto della giornata è minutamente scandito, inclusi gli orari in cui riposare e dormire. Ognuno può usare il tempo libero come meglio crede, ma è vietato oziare. Lo stile di vita degli Utopiani è sobrio: niente lussi, niente beni superflui, vestiti uguali per tutti. Essi diffidano degli stranieri, ma se si tratta di scienziati li accolgono cordialmente.
Gli Utopiani, infine, detestano la guerra e praticano la tolleranza religiosa. Le differenti religioni hanno alcune credenze in comune: la fede in un Dio buono e provvidente, nell’immortalità dell’anima e in un aldilà in cui si viene giudicati. Gli atei non vengono perseguitati, ma non possono ricoprire cariche pubbliche e sono circondati dal generale discredito.