Marx, Karl
Il teorico del materialismo storico e del comunismo
Marx fu un uomo di formidabili passioni intellettuali e politiche, che si alimentavano a vicenda. Egli fu al tempo stesso un filosofo, un sociologo, un economista e un rivoluzionario. Tutti questi aspetti sono fusi nella sua opera, in una originale sintesi teorico-pratica, che ha esercitato un influsso tanto potente quanto controverso sulla storia del Novecento
Nato nel 1818 a Treviri (in Germania) da una famiglia di origini ebraiche, Marx ricevette un’educazione di impronta illuministica e liberale. A 17 anni intraprese gli studi di giurisprudenza, ma ben presto si volse alla filosofia, affascinato dal pensiero di Hegel e dal suo intento di «cercare l’Idea nella realtà stessa».
All’Università di Berlino si legò ai giovani hegeliani ed entrò in rapporto con Feuerbach, che in polemica con l’idealismo di Hegel propugnava una filosofia fondata sul materialismo. Dopo la laurea, Marx rinunciò alla carriera accademica a causa del clima politico sfavorevole e si diede al giornalismo, divenendo redattore capo della Gazzetta renana (un giornale di ispirazione democratica che nel 1843 venne soppresso dal governo prussiano).
Trasferitosi a Parigi, tra il 1843 e il 1845 Marx fece i conti con il suo passato filosofico (Hegel, sinistra hegeliana, Feuerbach) ed elaborò insieme a Friedrich Engels – destinato a diventare il suo amico e collaboratore più fidato – la concezione materialistica della storia. Sempre in quegli anni Marx si avvicinò alla Lega dei giusti (un’organizzazione comunista segreta) e iniziò a frequentare gli esponenti del movimento socialista.
Nel giugno del 1847 la Lega comunista affidò a Marx ed Engels la stesura del Manifesto del partito comunista, che apparve nel febbraio del 1848. Un mese dopo scoppiò la rivoluzione in Francia e in Germania. Marx allora tornò in Germania e fondò la Nuova gazzetta renana, impegnandovi tutte le sue risorse economiche. Fallita la rivoluzione, venne espulso dalla Germania, riparò a Parigi e infine a Londra, dove rimase sino alla sua morte, avvenuta nel 1883.
Nella capitale inglese Marx lavorò instancabilmente – nonostante le difficoltà economiche e familiari – alla stesura di varie opere economiche, la più celebre delle quali è Il Capitale. Egli divenne anche un esponente di primo piano del movimento socialista (dal 1864 al 1872 diresse la Prima Internazionale), sul quale impose la propria egemonia culturale e politica.
Il presupposto del materialismo storico è che non sia possibile determinare in astratto e una volta per tutte l’essenza dell’uomo.
Tale errore è stato commesso, secondo Marx, tanto dall’idealismo di Hegel (che vede nell’uomo soltanto il suo lato attivo, ossia la sua capacità di intervenire nella realtà e di trasformarla), quanto dal materialismo di Feuerbach (che vede nell’uomo soltanto il suo lato passivo, concependolo come un qualsiasi altro elemento della natura). In realtà la natura dell’uomo è la sua storia, ossia il rapporto attivo e mutevole che egli stabilisce con la natura e con gli altri uomini.
Tale rapporto dà luogo a forme storicamente determinate di lavoro e produzione – cioè a un insieme di rapporti economici e sociali – che rappresentano le vere matrici della personalità umana. L’insieme di questi rapporti costruisce la struttura della società, sulla quale si eleva una sovrastruttura composta dalle istituzioni giuridiche e politiche, nonché dalle convinzioni morali, religiose e filosofiche. Ed è la prima che determina la seconda, non viceversa. «Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere – afferma Marx – ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza».
Tale impostazione ha due importantissime conseguenze. La prima è che una concezione scientifica della storia non spiega la realtà partendo dalle idee, come fanno gli ideologi (ideologia), ma spiega la formazione di queste ultime partendo dalla realtà sociale. La seconda è che per superare determinate idee non basta criticarle sul piano intellettuale, ma occorre trasformare i rapporti sociali: la forza motrice della storia non è dunque la critica, ma la rivoluzione.
Ma quando avvengono le rivoluzioni? Quando le condizioni storiche sono mature, ossia quando le forze produttive (gli uomini, i mezzi e le conoscenze che servono a produrre) raggiungono un tale grado di sviluppo che i rapporti sociali esistenti (le forme giuridiche e politiche) divengono una camicia di forza che le soffoca. Allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.
Il testo in cui si può vedere nel modo più chiaro l’applicazione alla realtà del materialismo storico è il Manifesto del partito comunista. In esso Marx esalta la funzione storica della borghesia: questa classe, egli scrive, ha modificato la faccia della Terra in una misura che non ha precedenti nella storia. Essa ha realizzato per la prima volta l’unificazione del genere umano: agevolando le comunicazioni e trascinando nella civiltà tutti i paesi è riuscita costruire un mercato mondiale e a porre le basi per un reale cosmopolitismo. Tuttavia, come uno stregone che non riesce più a dominare le forze da lui evocate, la borghesia è destinata a soccombere nella lotta di classe con il proletariato.
Nel Manifesto Marx analizza anche i vari tipi di socialismo, criticando il socialismo reazionario (che attacca il capitalismo nel nome del passato, guardando cioè alla società precapitalistica), il socialismo borghese (che vorrebbe eliminare soltanto gli aspetti negativi del capitalismo e ottenere miglioramenti della condizione operaia per via legale) e il socialismo critico-utopistico, che pur avendo compreso come la società moderna sia caratterizzata dalla lotta di classe fra capitalisti e proletari, non ha però colto la funzione storica autonoma del proletariato e la necessità di una sua azione rivoluzionaria. A questo socialismo – generoso, ma utopistico e astratto – Marx contrappone il proprio socialismo scientifico, basato su un’analisi critica della società capitalistica e sull’individuazione del proletariato come forza rivoluzionaria.
La teoria del plusvalore. Nel Capitale (pubblicato tra il 1867 e il 1894) Marx espone la sua analisi socioeconomica del capitalismo. Il nucleo teorico è rappresentato dalla dottrina del valore/lavoro (ripresa dagli economisti inglesi del 18° e del 19° secolo), secondo la quale il valore di una merce è uguale al lavoro necessario per produrla: ne consegue che le merci vengono scambiate, sul mercato, attraverso la reciproca commisurazione del lavoro occorso per produrle. Ma il lavoro – si chiede Marx – che cos’è? Nella società capitalistica, esso è una merce come tutte le altre, sottoposta quindi alla compravendita: a vendere la capacità di lavorare (la forza-lavoro) sono i proletari, i quali non dispongono di nessun altro bene; a comprarla sono i capitalisti, che la pagano con un salario. Il valore della forza-lavoro si determina come in tutti gli altri casi, tramite la quantità di lavoro necessario per produrla: in altre parole, il salario equivarrà al valore dei mezzi di sussistenza che consentono all’operaio di vivere e lavorare.
A differenza delle altre merci, però, la forza-lavoro – oltre ad avere un proprio valore – è in grado di creare un valore superiore. Facciamo un esempio: un operaio lavora per 10 ore e quindi crea prodotti per un valore uguale a 10. Nelle prime 6 ore egli produce un valore pari a quello del suo salario; ma nelle restanti 4 egli produce un plusvalore, che viene trattenuto dal capitalista e va a costituire il suo profitto. Nella prospettiva di Marx il profitto è quindi un’espropriazione compiuta ai danni del lavoratore (mentre secondo gli economisti liberali è la giusta remunerazione del rischio che l’imprenditore assume investendo i suoi capitali in un’impresa dal risultato incerto).
Il crollo del capitalismo. Secondo Marx, la società capitalistica è destinata a crollare sotto il peso delle sue contraddizioni. Afflitto da crisi cicliche e minato dalla progressiva diminuzione dei profitti (perché i capitalisti, per aumentare la produttività, saranno costretti sempre più a sostituire il lavoro, dal quale deriva il profitto, con le macchine), il capitalismo porterà alla formazione di una classe di proprietari sempre più ristretta e più ricca e di una classe proletaria sempre più numerosa e più povera. In tal modo la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali raggiungerà il culmine, conducendo alla rivoluzione comunista, la quale instaurerà per un certo periodo la dittatura del proletariato. Quest’ultima dovrà abolire progressivamente la proprietà privata, sopprimere le differenze di classe e quindi i conflitti sociali.
Ciò permetterà infine di abolire lo Stato e di instaurare una democrazia dei produttori.