PAGANO, Giuseppe
PAGANO (Pogatschnig), Giuseppe. – Nacque a Parenzo (oggi Poreč), piccolo agglomerato urbano della costa istriana, il 20 agosto 1896, da Antonio Pogatschnig e Giovanna Cernivani.
Il padre, amministratore dell’autonoma giunta provinciale dell’Istria, era un uomo di profonda cultura – saggista, storico, archeologo – e un patriota animato da vivido spirito irredentista che prese parte alla fondazione del Partito nazionale italiano, una formazione clandestina di ispirazione risorgimentale.
Giuseppe cominciò a frequentare il ginnasio a Capodistria, per poi trasferirsi, nel 1909, a Trieste, città cosmopolita e straordinario insieme di microcosmi ricchi di fermenti politici, artistici e letterari.
Il capoluogo giuliano ebbe un ruolo chiave nel determinare lo sviluppo della sua attitudine progettuale. Contrario a ogni capricciosa divagazione decorativa, Pagano notava come a Trieste «la necessità stessa di provvedere le case di finestre veramente funzionali contro le ire della bora, il rigore e la serietà di una legislazione molto cauta, le ottime scuole professionali della regione e le influenze benefiche della Accademia di Vienna impedirono […] eccessi culturalistici e […] libidini liberty» (Architetti a Trieste, in Casabella, aprile 1935, n. 88, p. 16). Di qui la sua impostazione culturale e il suo atteggiamento progettuale: il rifiuto di ogni intenzione autoriale che potesse travalicare la stretta razionalità e l’attinenza severa ai problemi reali.
Deflagrato il primo conflitto mondiale, agli inizi del 1915 dette prova di quel temperamento istintivo e combattivo che improntò sempre il suo agire, rifugiandosi a Padova, dove portò a termine gli studi. Quando l’Italia entrò in guerra, lui che per nascita era cittadino austro-ungarico, si arruolò volontario nell’esercito italiano e in quell’occasione assunse il cognome Pagano. Combatté sempre senza risparmiarsi, venendo ferito nel corso di azioni militari: durante l’assalto del monte Sabotino (1915) e in quello del monte Colombara (1916). Fatto prigioniero più volte (nel 1917 a Grazigna e nel 1918 lungo il canale della Fossalta), riuscì sempre a evadere rocambolescamente. Al termine del conflitto fece ritorno al paese natale, dove ritrovò la famiglia rimasta internata nel periodo bellico; intravedendo nei movimenti fascisti il baluardo dell’italianità, fondò con alcuni amici il Fascio di Parenzo e prese parte attiva all’impresa di Fiume.
Nel 1919 si iscrisse alla R. Scuola di ingegneria di Torino (l’attuale Politecnico), dove, oltre a stringere un profondo legame di amicizia con Edoardo Persico, ebbe modo di frequentare il corso di storia dell’arte tenuto da Lionello Venturi, dal quale derivò quello ‘orgoglio della modestia’che orientò l’intero sviluppo della sua indagine culturale e della sua ricerca architettonica.
Nel 1924, in soli quattro anni, si laureò con lode in architettura, presentando il progetto per una villa, poi realizzata con poche varianti a Parenzo. Dette inizio fin da subito all’attività professionale realizzando su incarico dei Rivetti, industriali lanieri di Biella, il restauro della loro villa. Fu questo il primo importante contatto, che lo introdusse nel mondo di una selezionata clientela gravitante attorno all’industria e all’alta finanza.
Nel 1925 vinse i concorsi per la costruzione, a Torino, lungo il fiume Po, dei ponti Vittorio Emanuele III (ora Balbis) e Principi del Piemonte (ora Sassi), testimoniando, di là da alcune reminiscenze secessioniste, uno spiccato interesse per i nuovi materiali e per le moderne tecnologie costruttive. Entrambe queste infrastrutture vennero realizzate in calcestruzzo armato, rispettivamente dall’impresa Porcheddu (che deteneva per l’Italia il brevetto Hennebique) e dall’impresa Feletti, e completate in occasione dell’apertura dell’Esposizione internazionale per il decennale della Vittoria, nel 1928.
L’anno precedente, grazie alla straordinaria rete di relazioni che fin da giovane fu abilissimo a tessere, era stato coinvolto nell’organizzazione dell’Esposizione all’interno del parco del Valentino. Nel ruolo di capo dell’ufficio tecnico dimostrò doti di abilissimo organizzatore; convinto assertore del lavoro di gruppo – quale veniva professato da Walter Gropius – riuscì a calamitare i più validi e preparati professionisti; e proprio quell’occasione rappresentò l’avvio di una prolungata e proficua collaborazione con Gino Levi-Montalcini, destinata a protrarsi lungo tutto il soggiorno sabaudo.
Variamente suggestionato da Ver Sacrum di Otto Wagner e Joseph Maria Olbrich così come dal protorazionalismo di Tony Garnier e Auguste Perret, progettò il padiglione dei Festeggiamenti e della Moda (con Levi- Montalcini), il padiglione dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica (con Levi-Montalcini ed Ettore Pittini), il padiglione delle Miniere e della Ceramica (con Paolo Perona), il padiglione della Caccia e della Pesca, il padiglione della ditta Gancia (con Antonio Pagano), il padiglione della Chimica (con Gigi Chessa) e quello della Mostra coloniale (con Ettore Pittini).
Plinio Marconi ravvisò nell’esposizione «una favorevole impressione di freschezza, talvolta un po’ nuda e secca, di giovanile vivacità, di una certa acerba spregiudicatezza» (Commento all’Esposizione di Torino 1928, in Architettura e arti decorative, I [1928-29], 4, p. 163), testimoniata anche dai feroci scontri intercorsi con Giovanni Chevalley, esponente della tradizione tardo-eclettica torinese e presidente della manifestazione.
Nel 1928 Pagano redasse, con Perona, il progetto per una casa di abitazione a Torino, che nei principî basilari (semplicità al limite dell’understatement e logica cristallina dell’impianto funzionale), come in alcuni ricorsi figurativi (le ampie finestre, il leggero aggetto lungo la mezzeria, i terrazzini ricurvi a chiudere lo sporto e ricollegarlo alla parete di fondo) fu all’origine di successive e più impegnative prove. In particolare quello studio costituì la cellula base della proposta progettuale, redatta in collaborazione con Levi-Montalcini, per il palazzo Bocca e Comoglio, dove il sintagma dello sporto era reiterato più volte a ritmare l’esteso svolgimento parietale. E venne poi concretato, a Trieste, nella soluzione angolare della casa d’abitazione Fanna-Widmer (1936).
Anche in virtù dello straordinario successo dell’Esposizione, nel 1928 ricevette da Riccardo Gualino – industriale biellese attivo nel settore tessile, nonché uno dei protagonisti della finanza italiana – l’incarico di progettare la nuova sede dei propri uffici da costruirsi su di un lotto d’angolo lungo corso Vittorio Emanuele II.
Pagano, che coinvolse ancora una volta Levi-Montalcini per curare soprattutto gli elementi d’arredo, mise a punto un solido e austero blocco edilizio, sapientemente inserito nel tessuto edilizio e connotato dalla rigida reiterazione di nette e ampie aperture, dai marcapiano sporgenti e dal ridotto aggetto lungo la mezzeria della facciata principale a marcare l’ingresso. Riformulando dalle fondamenta la specifica tipologia edilizia e travalicando consolidate consuetudini, adottò soluzioni inedite, come quella di disporre l’ufficio di presidenza all’ultimo piano invece che al piano nobile, spalancandolo attraverso un’ampia vetrata verso il parco del Valentino. Alberto Sartoris considerò l’edificio come «la figurazione più balzana di un modernismo di apparenza e mai di struttura, condito per la bocca amara del buon borghese» (Panorama dell’architettura italiana, in L’Almanacco degli artisti. Il vero Giotto, Roma 1932, p. 112); al contrario, Giò Ponti gli dedicò un numero monografico di Domus (giugno 1930), sottolineando tutti gli accorgimenti tecnologici e funzionali adottati dai progettisti.
Convinto assertore dello Zeitgeist e disinibito sperimentatore di nuovi materiali costruttivi, negli elementi d’arredo Pagano ricorse al buxus, un materiale prodotto dall’industria cartaria piemontese che garantiva grande resistenza alla tensione e plasticità di lavorazione, oltre ad avere quella particolare nitidezza che ben si adattava al gusto dei tempi moderni. E quando, nel 1930, realizzò il padiglione Italiano all’Esposizione internazionale di Liegi (con Levi-Montalcini) – annoverato dalla critica internazionale tra le opere «plus modernes» (P. Fierens, L’architecture à l’Exposition de Liège, in La Construction moderne, 21 settembre 1930, n. 51, p. 793) – dette ulteriore prova dello spiccato interesse per i materiali e la loro intrinseca natura, adoperando per il rivestimento esterno lastre di maftex (un composto di fibre ricavate dalle radici di liquirizia).
Derivando da Adolf Loos l’istanza di praticità e funzionalità, dimostrò sempre l’attitudine all’uso sincero dei materiali e il rifiuto per la decorazione sovrapposta, convinto che l’intima consistenza dell’opera architettonica dovesse prescindere da inutili virtuosismi e capricciose esteriorità ornamentali: «Una lucida lastra di marmo ben ampia e ben tagliata, una tersa impiallacciatura di radica preziosa, un’argentea lamina di metallo bianco e incorruttibile, un bel cuoio con pavimento omogeneo, soffice e colorato danno a noi vere e proprie emozioni estetiche» (La tecnica ed i materiali dell’edilizia moderna, in Edilizia moderna, aprile 1932, n. 5, p. 35).
Affrontando più ampie tematiche urbane, nel 1931 redasse (con Levi-Montalcini, Umberto Cuzzi, Ottorino Aloisio, Ettore Sottsass senior) una proposta progettuale per la definizione architettonica di via Roma, in antitesi a quella ufficiale presentata dal Comune, nella quale si proponeva di «mantenere ed esaltare il suo carattere eminentemente rappresentativo di via trionfale», «conservare e aumentare il suo carattere commerciale», «rappresentare la sintesi della Torino moderna e nello stesso tempo conservare quel carattere di intimità» che l’aveva resa «la via prediletta del centro cittadino», e, non ultimo, offrire «un buon impiego di capitali in modo da garantire una serie di costruzioni veramente signorili».
Proprio in questa occasione avviò la sua attività di instancabile polemista e promotore culturale, pubblicando una serie di scritti sulle colonne de L’Ambrosiano.
Nel 1931, su invito dell’editore Bonfiglioli, si trasferì a Milano per dirigere la rivista La Casa Bella, dove si ritrovò a collaborare con Edoardo Persico, conosciuto ai tempi della Scuola di ingegneria. Attraverso le successive denominazioni della testata – Casabella, Casabella-Costruzioni, Costruzioni-Casabella – intese sottolineare il valore che conferiva agli aspetti tecnologici e costruttivi. Valore che concretò, nel 1933, quando all’interno della V Triennale di Milano realizzò – in collaborazione con un gruppo di architetti attivi nel capoluogo lombardo: Franco Albini, Renato Camus, Giuseppe Mazzoleni, Giulio Minoletti, Giancarlo Palanti – la ‘casa a struttura di acciaio’. Si trattò del prototipo dimostrativo delle potenzialità insite nella prefabbricazione degli elementi e di un nuovo concetto statico per l’edilizia residenziale, fondato su un agile scheletro metallico, garanzia di tempi rapidi di costruzione e montaggio.
Dimostrando una genuina attenzione per il design che andava oltre la semplice definizione degli elementi d’arredo, nel 1933 (l’anno del concorso per la stazione ferroviaria di Firenze, al quale pure prese parte) progettò, con Giò Ponti, l’elettrotreno per la Breda: disegnò il vagone-tipo attenendosi alla più stringente funzionalità e conferì alla motrice di testa l’inedito e caratteristico profilo affusolato, conforme alle leggi della cinematica.
Il ruolo di leader del rinnovamento architettonico lo portò a confrontarsi con Marcello Piacentini. Il rapporto inizialmente si configurò come una ‘intesa cordiale’. Nel 1932, l’accademico d’Italia, con abile mossa strategica, conferì a Pagano l‘incarico per la realizzazione dell’istituto di fisica all’interno della città universitaria.
Convinto che fosse «preferibile la povertà alla boria, la nudità alla pompa» (Per il palazzo del Littorio. L’opinione di Casabella, in Casabella, gennaio 1934, n. 73, p. 6), Pagano concepì un edificio austero e razionale, lontano dalla compagine aulica e monumentale approntata da Piacentini. Con lo stesso atteggiamento progettuale, severamente contrario agli slanci inventivi, realizzò il convitto biellese (1935), corretto nell’impostazione e funzionale nella sua articolazione.
A partire dal 1934 tenne per un triennio la cattedra di critica artistica presso (Istituto superiore per le industrie artistiche) l’ISIA di Monza; il suo magistero didattico travalicava l’arida enunciazione dei fatti, per abbracciare con sguardo sincronico opere d’arte afferenti a epoche diverse, in un continuo e teso confronto che, oltrepassando letture fondate sulla mera analisi stilistica, metteva in risalto sostanziali affinità.
Avverso alla «bava scolastica degli imitatori» (Partenone e Partenoidi, in Domus, dicembre 1941, n. 168, p. 27), considerò con sguardo disincantato e profondo le testimonianze del passato. Già nel 1931 in Architettura moderna di venti secoli fa (La Casa Bella, novembre 1931, n. 47, p. 18) aveva notato come «quella disciplina geometrica della casa moderna, quell’ideale di chiarezza […], quell’amore per le cose essenziali» trovasse «commoventi precedenti nella casa pompeiana» e, ancora, ne L’insegnamento degli antichi (Casabella, agosto 1934, n. 80, p. 3) sottolineava come «l’architettura lineare del Trecento, tutte quelle manifestazioni di cubismo edilizio rappresentate dai palazzi del Pretorio o del Comune, le case più umili e pur così compatte di forma e d’espressione» dimostrassero «una coscienza edilizia logica sana vibrante» (ibid., p. 3).
Proprio il superamento di una visione estetizzante dei manufatti architettonici lo portò a interessarsi ai fenomeni minori della cultura popolare, all’edilizia anonima dispiegata lungo il territorio italiano, dove ravvisava la piena aderenza alle funzioni per le quali era preposta, completamente priva di sovrastrutture concettuali e orpelli figurativi. «La fisionomia di una città, di un paese, di una nazione non è data da quelle opere d’eccezione ma da quelle altre grandissime che la critica storica classifica come architettura minore, cioè arte non aulica, meno vincolata a intenti rappresentativi maggiormente sottoposta alle limitazioni economiche e alla modestia di chi non vuole né deve cedere alla qualità. Di questa architettura deve essere fatta la città, architettura modesta e soda che si adagia senza insolenza attorno ai pochi edifici rappresentativi; questa architettura corrente, così potrebbe essere definita in gergo commerciale, rappresenta la produzione formale, modestia di obiettivi e modestia di risultati, ma in compenso chiarezza, onestà, rettitudine economica e quasi sempre educazione urbanistica» (Architettura nazionale, in Casabella, gennaio 1935, n. 85, pp. 2-7).
Nel 1936, incaricato della direzione generale della VI Triennale di Milano, convogliò questo interesse per le espressioni della cultura popolare nell’organizzazione (con Guarniero Daniel) della mostra L’Architettura rurale nel bacino del Mediterraneo (della quale lui stesso curò il progetto espositivo).
Per l’occasione portò avanti una colossale campagna fotografica – per lui la camera ottica rappresentò sempre un indispensabile strumento di indagine e di studio – andando a rilevare l‘«immenso dizionario della logica costruttiva dell’uomo, creatore di forme astratte e di fantasie plastiche spiegabili con evidenti legami col suolo, col clima, con l’economia, con la tecnica» (Architettura rurale italiana, con G. Daniel: «Quaderni della Triennale», Milano 1936, p. 12). Attraverso i suoi appassionati scatti – «tra lo sbadiglio della fotografia aulica e il pericolo della volgarità da cartolina illustrata» (Un cacciatore di immagini, in Cinema, dicembre 1938, ora in G.P. fotografo, 1979, p. 156) – mise a fuoco «una Italia lontana dalla retorica e dalla esibizione, una Italia […] di orizzonti rurali ed eroici, di strani contrasti, di rivelazioni piene di moderne risonanze» (ibid.).
In occasione della VI Triennale progettò, secondo le nette linee del funzionalismo tedesco, il padiglione aggiunto al palazzo dell’Arte, deputato a ospitare mostre temporanee, all’interno del quale inserì la scala elicoidale (concepita in collaborazione con Tomaso Buzzi) che si avvitava isolata nello spazio, retroilluminata da una parete di vetrocemento, secondo il modello messo a punto da Luigi Moretti all’interno della casa della GIL (Gioventù italiana del littorio) di Trastevere, in Roma.
Gli allestimenti espositivi calamitarono la sua attenzione e in questi riversò molte delle sue energie; si interessò sia alla dimensione minima del singolo elemento – come lo stallo della litoceramica alla XIV Fiera di Milano (1933) e lo studio per ‘Elementi scomponibili per esposizioni ambulanti’ (1939)– sia alla complessità dell’organizzazione generale di interi eventi – come l’Esposizione aeronautica italiana (Milano, palazzo dell’Arte, 1934), dove curò anche il ‘saloned’onore’ la ‘sala d’Icaro’ e la ‘sala della Crociera e del Decennale’, e la Mostra leonardesca (Milano, palazzo dell’Arte, 1939), all’interno della quale progettò la ‘sala dell’anatomia’ – e fu costantemente presente nelle grandi kermesses internazionali: nel 1937 curò la sistemazione interna del padiglione italiano all’Esposizione internazionale di Parigi e nel 1939 portò attraverso varie città dell’Europa orientale (Budapest, Zagabria, Bucarest) l’Esposizione del libro italiano.
Con Giangiacomo Predaval edificò l’Università commerciale Bocconi di Milano, commissionata nel 1936 e inaugurata nel 1942, dove fece largo uso dei nuovi materiali costruttivi, come il vetrocemento e la litoceramica.
Nel 1937 tornò ad affrontare tematiche autenticamente urbane, chiamato a redigere – in collaborazione con Marcello Piacentini, Luigi Piccinato, Ettore Rossi e Luigi Vietti – uno studio preliminare per il piano regolatore dell’Esposizione universale che avrebbe dovuto svolgersi a Roma nel 1942.
Lo sviluppo della vicenda segnò il progressivo deterioramento dei rapporti con Piacentini, che volle imporre ai giovani collaboratori la sua idea. «Ad uno ad uno vedemmo precipitare nel fango della retorica o nella scolastica banalità di un vago internazionalismo stilistico i nostri sogni troppo arditi e fiduciosi. E quando, in questa babelica confusione, si volle dar vittoria alle “sacre tradizioni romane” eliminando l’aristocrazia dei più vivi, al fine di eludere ogni responsabilità si ricorse alla democratica finzione dei concorsi. In tale ipocrisia si seppellirono tutti i diritti dell’arte nuova, e “l’olimpiade della civiltà” si trasformò in un famedio da marmorino» (Occasioni perdute, in Costruzioni-Casabella, febbraio 1941, n. 158, p. 7).
Prendendo le mosse dalle speculazioni teoriche di Ludwig Hilberseimer sui grandi insediamenti residenziali intensivi e dalle sperimentazioni portate avanti da Walter Gropius e Hannes Meyer a Dessau, nel 1938 redasse – con Franco Albini, Ignazio Gardella, Giulio Minoletti, Giancarlo Palanti, Predaval, Giovanni Romano – il progetto ‘Milano verde’, «poco più che un’ordinata e […] ordinaria proposta di espansione della città nella zona della fiera» (Melograni, 1955, p. 30).
Ispirandosi ai moderni criteri di salubrità e funzionalità, definì una gerarchia tra le strade di scorrimento e quelle secondarie, orientò gli edifici residenziali secondo l’asse elio-termico ed eliminò i cortili interni ai fabbricati, aderendo a quell’orientamento disciplinare e operativo che escludeva scientificamente «il dedalo romantico e pittoresco, il vecchio colore locale» (Le case “popolarissime”, in Casabella-Costruzioni, aprile 1937, n. 112, pp. 2-5).
Nel 1939 viaggiò con Gardella in Scandinavia, dove ebbe modo di vedere la produzione del design locale, che riverberò poi negli elementi d’arredo della Bocconi, come nelle sedie del podio all’interno dell’aula magna.
Tra il 1939 e il 1940 mise a punto con Irenio Diotallevi e Franco Marescotti la ‘Città orizzontale’, il progetto per un quartiere popolare modello, dove le singole unità abitative erano servite da viuzze interne, secondo un modello insediativo che anticipò il progetto dell’unità di abitazione orizzontale concepito da Adalberto Libera per il Tuscolano III.
Nel 1940 fu nominato insieme a Massimo Bontempelli e Melchiorre Bega a capo della direzione di Domus, carica che mantenne fino al gennaio dell’anno successivo quando, volontario, venne richiamato alle armi e spedito sul fronte albanese. Congedato alla fine del 1941, fece ritorno a Milano, per riprendere l’attività professionale. Nel 1941 mise a punto lo ‘studio per un centro sportivo a Trieste con sferisterio, cinema e piscina’ e redasse una proposta per il piano regolatore di Corfù; l’anno successivo redasse il progetto della casa della Madre e del Bambino di Spalato e raccolse alcuni appunti per una organizzazione turistica della Dalmazia.
Nel dicembre 1942 rimise l’incarico di direttore della sezione artistica presso la Scuola di mistica fascista e si dimise dal partito. Arrestato nel 1943 per attività antifascista, venne incarcerato nel castello di Brescia, dove, con instancabile impegno, ebbe ancora la forza di stilare una serie di appunti per un sistema di prefabbricazione della casa (1944). Rifiutatosi di arruolarsi nell’esercito della Repubblica di Salò (cosa che gli avrebbe garantito la libertà), riuscì a evadere il 12 luglio 1944. Tornò quindi a militare tra le diverse organizzazioni della Resistenza milanese. Arrestato il 5 settembre, fu condotto a villa Triste per essere torturato; trasferito infine a Bolzano, rincontrò Raffaello Giolli, che aveva curato per Casabella la rubrica L’architettura mondiale.
Internato nel campo di concentramento di Mauthausen, morì il 22 aprile 1945 per una broncopolmonite traumatica, tredici giorni prima dell’arrivo dei russi.
A distanza di trent’anni dalla morte, di lui Bruno Zevi disse: «Non era un artista del livello di Terragni, né un critico del coraggio di Persico, ma in un’intrepida azione polemica garantì all’Italia un dialogo sistematico con la cultura europea» (Spazî dell’architettura moderna, Torino 1973, p. 326).
Opere e progetti: 1926: studio per un monumento per il duca d’Aosta a Torino (con Gino Levi-Montalcini). 1929: arredamento della sala da pranzo per la casa dell’ingegner Villa, Torino; scenografia al veglione della stampa, Torino (con Gino Levi-Montalcini e Umberto Cuzzi). 1929-31: villa Colli a Rivara, nel Canavese (con Gino Levi-Montalcini). 1930: casa Boasso (con Gino Levi-Montalcini); palazzina per gli uffici SALPA, Sesto San Giovanni (con Gino Levi-Montalcini); progetto di arredamento navale; arredamento di una camera da letto nella villa Gualino; arredamento sale amministrazione ed uffici alla Mostra triennale di Monza (con Gino Levi-Montalcini); arredamento del negozio Sambuco, Torino (con Gino Levi-Montalcini); studio di arredamento per una camera da letto (con Gino Levi-Montalcini). 1931: progetto per un convitto Don Bosco (con Gino Levi-Montalcini); sistemazione di una scuola privata di dattilografia e lingue, Torino. 1934-35: arredamenti degli uffici direzionali nella sede del Popolo d’Italia, Milano. 1935: progetto per un ponte sul Tevere, Roma. 1936: mostra dei materiali da costruzione (con Guido Frette), alla VI Triennale di Milano; progetto per una piccola casa da costruire per la campagna; progetto per il nuovo autodromo presso la mellah di Tripoli. 1937: progetto di concorso per la casa del fascio, Trieste (con Angelo Bianchetti). 1937-38: progetto di villaggio operaio in Africa Orientale. 1937-39: progetto dello stabilimento di Bertinoro della metallurgia Ossolana. 1938: progetto per un lotto residenziale per il concorso Lamaro (con Angelo Bianchetti e Cesare Pea); 1939: villa Caraccio, Biella; villa ‘Al mass’, Cortina d’Ampezzo; progetto di casa per un villaggio operaio agricolo; progetto del nuovo stabilimento di pettinatura dei Lanifici Rivetti, Biella; progetto di una villa in montagna (con Giangiacomo Predaval); 1940: casa di abitazione, Viggiù; progetto del piano regolatore di Portoscuso, nell’Iglesiente; studio per tipi di casette per minatori da costruire in Sardegna; Mostra internazionale della produzione in serie alla VII Triennale (con Irenio Diotallevi, Dante M. Ferrario, Mario Labò, Franco Marescotti, Ezio Moalli, Bruno Ravasi); 1943: studio per il restauro del teatro Puccini, Milano; studi per l’istituto sperimentale di Marina (Cagliari).
Fonti e Bibl.: Una selezione degli scritti di P. è stata raccolta da Cesare De Seta nel volume G. Pagano, Architettura e città durante il fascismo, Roma-Bari 1976 (nuova ed., Milano 2008). G. Ponti, Stile di P., in Stile, agosto-ottobre 1943, pp. 21-31; G. P., f. monografico di Costruzioni-Casabella, 1946, nn. 195-198 (rist. anast. allegata a Casabella, 2008, n. 763); G. P. Pogatschnig. Architetture e scritti, a cura di F. Albini - G. Palanti - A. Castelli, Milano 1947; C. Melograni, G. P., Milano 1955; M. F. [M. Fagiolo], P. (Pogatschnig), G., in Diz. encicl. di architettura e urbanistica, IV, Roma 1969, pp. 339-341; G. P. architetto fascista, antifascista, martire, n. speciale di Parametro, aprile 1975, n. 35; G. P. fotografo, (catal., Bologna), a cura di C. De Seta, Milano 1979; A. Saggio, L’opera di G. P. tra politica e architettura, Bari 1984; C. De Seta, Il destino dell’architettura. Persico, Giolli, P., Roma-Bari 1985; A. Bassi - L. Castagno, G. P., Roma-Bari 1994; F. Irace, P. (Pogatschnig), G. 1896/1945, in Diz. dell’architettura del XX secolo, a cura di C. Olmo, V, Torino-Londra 2001, pp. 6-11.