PALMIERI, Giuseppe
PALMIERI, Giuseppe. – Nacque a Martignano di Lecce il 5 maggio 1721, primogenito del marchese Carlo Antonio (1699-1762), da cui avrebbe ereditato il titolo, e della nobildonna Laura Venneri.
I Palmieri erano un’antica casata che si autorappresentava come discendente da un cavaliere originario di Gand, giunto nel Sud della penisola italiana intorno all’892 passando per Carcassonne e poi Roma. Dal ramo leccese della famiglia derivò quello di Monopoli, nato dall’unione di Gottofredo con la nobildonna di Ostuni Armenia Alercara. Il primo marchese di Martignano fu il barone Nicola Maria nel 1697. Carlo Antonio, terzo marchese, si unì in matrimonio nel 1720 con Laura Venneri, originaria di Gallipoli e appartenente a un antico casato che si sarebbe estinto nella seconda metà del Settecento, lasciando a Palmieri numerosi beni in dotazione. Oltre a lui, la coppia ebbe altri sette figli: Giovanni Ferdinando (1723-1768), militare; Giovanni Antonio Leonardo (1725-1814), abate dei Celestini, Tommaso Gaetano e Francesco (morto giovane), e Anna Maria, Francesca Pantalea e Colomba Irene, monache di clausura nel convento di S. Chiara di Gallipoli.
Palmieri rimase a Martignano fino al 1729, quando il padre mise in vendita il palazzo avito per trasferirsi a Lecce, in quello che tuttora è palazzo Palmieri.
Nel 1734, ancora adolescente, lasciò gli studi presso il collegio dei gesuiti di Lecce e si arruolò nel reggimento di fanteria Real Borbone, dove lo zio Pietro Pasquale Palmieri era capitano e comandante di compagnia. Il 21 giugno di quell’anno ottenne il brevetto di sottotenente della compagnia di fanteria di don Francesco Basta. Appena arruolato e nominato alfiere, partì per Messina, dove era stanziato il suo reggimento, impegnato nell’assedio della cittadella e del Forte Gonzaga, in quel momento ancora in mano agli imperiali asburgici. Partecipò così a una delle fasi finali della guerra di successione polacca, conclusasi con la resa della guarnigione della città di Messina. Rimase nell’esercito fino al 1740 riuscendo a raggiungere il grado di luogotenente, anche grazie alla stima del comandante del reggimento, don Eustachio, duca di Laviefuille.
La sua fulminea carriera militare si macchiò di un arresto «sofferto per più di un anno, a motivo di avere passivamente partecipato ad una violenza commessa dal suo reggimento» (Venturi, 1962, p. 1088).
Le difficoltà nel destreggiarsi tra studi e carriera militare gli fecero decidere di sospendere momentaneamente l’esercizio delle armi in favore del ritorno sui libri, prima a Palermo e poi a Napoli. Il 22 giugno 1740 ottenne, infatti, un lungo congedo.
Sul piano della formazione culturale gli anni che vanno dal 1740 al 1744 furono di straordinaria intensità intellettuale: approfondì gli studi di diritto, economia, matematica e le lingue francese e tedesco. Nella città partenopea divenne uno dei discepoli prediletti di monsignor Marcello Papiniano Cusani, ma soprattutto di Antonio Genovesi, di cui seguì le lezioni dapprima in forma privata e poi, a partire dal 1743, pubblicamente all’università. Genovesi influenzò la sua personalità e gli facilitò la conoscenza di alcuni fra i più importanti personaggi della vita politica e culturale della Napoli dell’epoca.
Tuttavia l’intensa dedizione agli studi ebbe ripercussioni negative sulla sua salute, tanto che i medici gli consigliarono di rientrare nell’esercito per riprendere un po’ del vigore fisico perduto. Tutto ciò, unito anche alla difficoltà di «ben intravedere dove gli studi avrebbero potuto condurlo», gli fece decidere, nei primi mesi del 1744, di tornare a militare nelle fila dell’esercito borbonico, riponendo la «divisa di causidico» per prendere quella di «geometra guerriero» (Fusco, 1979, p. 19). Il tutto avvenne con l’approvazione del padre e il fondamentale appoggio dello zio Pietro Pasquale. Quest’ultimo, infatti, si congedò in anticipo dall’esercito, rinunciando al grado di capitano per trasmetterlo al nipote mediante una vendita, operazione consentita dallo stesso re Carlo di Borbone, certamente su impulso dell’antico protettore di Palmieri, il generale duca di Laviefuille che, «in una sua relazione al Re parlò del Palmieri come di un ufficiale atto a condurre un esercito» (Blanch, 1945, III, p. 258).
Dal 1744 al 1761 militò nuovamente nelle milizie borboniche. Il 5 gennaio 1749 diventò secondo aiutante e primo tenente delle Guardie italiane, mentre nel gennaio 1752 fu nominato maggiore del reggimento di Calabria Ultra con il grado di tenente colonnello. Fu certamente presente alla battaglia di Velletri dell’11 agosto 1744, fra le truppe di Carlo di Borbone e le forze austriache, ma non si sa con quale ruolo, se di semplice testimone o di reale protagonista. Intorno al 1750 fu probabilmente incaricato da re Carlo di tradurre dal tedesco – lingua che ben conosceva – le ordinanze militari della Prussia di Federico il Grande.
Le diverse testimonianze sulla vita di Palmieri in quegli anni, restituiscono l’immagine di un uomo per nulla dedito alle occupazioni preferite dei giovani ufficiali, ovvero donne e gioco: «Non è buon ufficiale – scriveva – chi vive nella prodigalità e nel lusso e si abbandona ai vizi del bere e del gioco […] Quanto alle donne, non vi è vizio di maggior danno, di conseguenze peggiori, più funeste, più contrarie allo stato e al dovere del soldato quanto questo» (Riflessioni critiche sull’Arte della Guerra, rist. a cura di M. Proto, Manduria 1995, p. 510). Le fonti lo vogliono concentrato sugli studi, il cui frutto furono le Riflessioni critiche sull’Arte della Guerra (Napoli 1761, rist. Napoli 1816), dove già emergevano i segni del futuro riformatore illuminato e dell’economista. Palmieri cercò di diffondere l’opera in tutta Europa e molti grandi personaggi ne lodarono la forza argomentativa. Tra questi addirittura Federico il Grande di Prussia che gli scrisse una lettera di encomio oggi perduta.
Lasciò definitivamente le armi nel 1762 perché la morte del padre lo costrinse a occuparsi dei beni di famiglia. Il 7 ottobre ottenne il congedo definitivo, con il diritto però di riprendere il grado di tenente colonnello se lo avesse desiderato in futuro, conservando quindi gradi, onori e anzianità.
Sempre in quell’anno sposò Giuseppina Ghezzi – figlia del duca di Carpignano Pasquale Francesco e di Andriana Lubelli – dalla quale ebbe tre maschi e tre femmine. Il primogenito Saverio (1766-1854) ereditò a sua volta il titolo marchionale.
Dal 1762 al 1783 si dedicò con costanza e impegno alla cura delle proprie terre apportandovi numerose migliorie, ma senza abbandonare i suoi studi. In questi anni in cui visse la vita del gentiluomo di campagna divenne intimo del vescovo di Lecce Alfonso Sozy Carafa. Nel 1775 si fece anche promotore di cultura, tentando di trasformare la leccese Accademia degli Speculatori, nata nel 1683, in una società agraria i cui iscritti, in possesso di una solida base culturale incentrata sullo studio delle scienze naturali, mostrassero anche uno spiccato interesse per le industrie e per le arti.
L’Accademia fu convocata a Lecce il 26 dicembre 1775 nella chiesa del Buon Consiglio, allo scopo di impostare un’organizzazione interna divisa in una pluralità di settori, ciascuno di competenza di persone differenti. Palmieri propose una riflessione sull’ulivocultura. All’Accademia si iscrissero molti agronomi e studiosi, tra questi anche Gaetano Filangieri nel 1783. Essa rallentò progressivamente la propria attività, soprattutto dopo la chiamata di Palmieri a Napoli presso il Supremo Consiglio delle Finanze. Si sciolse definitivamente nel 1799, in seguito all’arresto di molti suoi membri.
Tra gli amici più intimi di quegli anni, vi furono Filippo Briganti, giusperito e letterato, e Giovanni Presta, medico e agronomo di una certa fama, oltre a Ignazio Maria Marrese che avrebbe sostituito Palmieri nella carica di amministratore delle dogane di Lecce. Presta, in particolare, offrì un importante apporto al dibattitto sull’ulivocoltura che si sviluppò in Terra d’Otranto nel XVIII secolo. Nella sua opera Memoria intorno a i sessantadue saggi diversi di olio … (1788) descrisse l’eccellente qualità dell’olio prodotto nei poderi di Palmieri, denominato ‘Palmieri angelica’, e la coltivazione di una oliva rarissima detta la ‘Palmierina’.
La vita di Palmieri subì una svolta improvvisa il 15 luglio 1783, quando, durante la reggenza di Ferdinando di Borbone, su proposta di Donato Reale, avvocato fiscale dell’Udienza di Lecce, e in sostituzione di Salvatore Aprile, momentaneamente assente, fu incaricato di dirigere le dogane in Terra d’Otranto, le più importanti e ricche di quelle pugliesi.
Fu certamente scelto per le sue competenze, ma dovette avere peso anche la ragnatela di relazioni costruita a Napoli durante gli anni Quaranta, a cui si aggiunsero l’estrazione sociale e il cursus honorum, necessari per ambire a certe cariche. Suo diretto superiore era il marchese Ferdinando Corradini da cui Palmieri dipendeva in toto, anche se cominciò subito a crearsi intorno una rete di collaboratori fedeli; tale operazione fu resa possibile dal fatto che le sue proposte di nomine erano avallate dal Supremo consiglio delle finanze senza alcuna ingerenza.
Il quadro dell’economia salentina era scoraggiante, a causa della pervasività e pesantezza del sistema feudale locale, dei numerosi vincoli feudali che gravavano sulle terre e degli ostacoli che inibivano il commercio, ma egli si dimostrò un abile amministratore e si impegnò moltissimo, per esempio, nel facilitare l’esportazione dell’olio salentino.
L’amministrazione generale delle dogane delle Terre d’Otranto gli venne conferita in via definitiva nell’agosto 1784, dopo la morte di Aprile a Napoli. Nel 1786, su precisa richiesta del Supremo consiglio delle finanze, compì una sorta di ricognizione alle Regie dogane e ai fondaci dei sali della provincia, cercando di elaborare una timida proposta di riforma doganale che successivamente fallì.
Il 24 febbraio 1787 fu contattato dal ministro John Acton per essere nominato tra i membri nel Supremo consiglio delle finanze del Regno di Napoli. Il contatto avvenne inizialmente in via riservata per capire quale fosse la reale disponibilità di Palmieri a trasferirsi nella capitale. L’intenzione del governo era quella di affidargli il comparto delle Finanze. Dopo qualche tentennamento, più di forma che di sostanza, accettò la proposta e partì alla volta di Napoli il 20 aprile 1787, lasciando l’amministrazione delle Terre d’Otranto a don Andrea Costantini, già avvocato delle Regie dogane. A Napoli si trovò a collaborare con personaggi di primo piano come Gaetano Filangieri, Carlo de Marco, Ferdinando Corradini, Filippo Mazzocchi, Nicola Codronchi, Domenico di Gennaro duca di Cantalupo: in sostanza tutta l’élite del diritto e dell’economia della Napoli del tempo. Lavorò con Codronchi e con Vicenzo Pecorari, amministratore generale delle dogane, alla Tariffa doganale del 1788, la quale fu però pubblicata il 28 febbraio 1790. Il 6 settembre 1791 un dispaccio di Acton gli comunicò la nomina a direttore generale delle finanze del Regno di Napoli, succedendo a Corradini passato a dirigere le materie ecclesiastiche.
In questo humus culturale pubblicò la prima edizione delle Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli (Napoli 1787, senza firma, e 1788). L’obiettivo della ‘pubblica felicità’ nel senso di una migliore distribuzione del reddito e di una più razionale utilizzazione delle risorse venne affrontato in quest’opera con l’approccio dell’economista. Da qui la propensione di Palmieri a promuovere il ruolo primario dell’agricoltura nella diffusione del benessere sociale non solo dei singoli, ma dell’intera collettività. E proprio allo sviluppo dell’agricoltura dedicò molto del suo impegno di economista e di uomo di Stato, ponendo l’accento sul problema che solo adeguati mezzi e capitali potevano garantire sviluppo e progresso del comparto agricolo. Non si fermò solo alla diagnosi delle difficoltà, ma elaborò proposte concrete, come la progettazione di una riforma finanziaria mirata a indebolire tutti quei vincoli negativi che ostacolavano l’agricoltura. Oltre al settore primario, anche il commercio e le manifatture rientravano nella sua riflessione economica, in una sorta di connessione organica che presupponeva ‘naturalmente’ una nuova politica economica e finanziaria, elaborata all’interno di una riforma dell’amministrazione.
Gli anni napoletani nel Supremo consiglio delle finanze videro Palmieri impegnato a preparare la legge per la divisione delle terre demaniali, emanata alla fine del 1791 e resa esecutiva il 23 febbraio 1792; farsi promotore della realizzazione delle strade di Sora, degli Abruzzi, del Sannio e delle Calabrie; favorire l’abolizione del monopolio delle sete e dello zafferano; sopprimere il tribunale della ‘Grascià’ in Abruzzo; riformare le tariffe daziarie e realizzare un catasto delle terre.
Dopo la pubblicazione delle Riflessioni sulla pubblica felicità, costante in quegli anni di travagliata attività politico-amministrativa rimase anche la sua attività di pubblicista; infatti mandò alle stampe i Pensieri economici relativi al Regno di Napoli (Napoli 1789), le Osservazioni su varj articoli riguardanti la pubblica economia (ibid. 1790) e Della ricchezza nazionale (ibid. 1792). Opere, queste, che gli valsero l’encomio postumo di Eleonora Fonseca Pimentel che lo definì «il Colbert del Reame di Napoli» (G. Galasso, Il Mezzogiorno nella storia d’Italia, Firenze 1984, p. 368).
Morì nel febbraio 1793, dopo una lunga malattia.
Il figlio Saverio incaricò Antonio Canova di scolpire un busto del padre che poi fu donato alla Società Agraria locale, sorta dalle ceneri dell’Accademia degli Speculatori, e che oggi è conservato presso il Museo Provinciale Sigismondo Castromediano di Lecce.
Fonti e Bibl.: Napoli, Biblioteca Nazionale, Carte Salfi, Ms. XX-57: Notizie e documenti per l’elogio del Marchese Palmieri (la famiglia Palmieri consegnò a Francesco Saverio Salfi un complesso di carte utili alla stesura della sua biografia, ma esso venne disperso dopo il 1799. La Biblioteca Nazionale di Napoli ne conserva una parte); P. Napoli-Signorelli, Vicende della coltura nelle Due Sicilie, VII, Napoli 1811, pp. 113 s.; Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli… compilata da diversi letterati nazionali, a cura di D. Martuscelli, I, Napoli 1813, s.n.p.; G. Pecchio, G. P., in Id., Storia della economia pubblica in Italia, Lugano 1829, pp. 252-256; L. Bianchini, Dellastoria delle finanze del Regno di Napoli libri sette, III, Napoli 1835, passim; N. Prato, G. P., in E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo XVIII, Venezia 1837, pp. 430-437; L. 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