Giuseppe Palmieri
Sono, in non piccola misura, le pessime condizioni economiche in cui il Napoletano versava intorno alla seconda metà del Settecento a spiegare perché, fra gli illuministi del Meridione, ci siano stati tanti economisti impegnati a proporsi in veste di consiglieri di un «principe» che si voleva «illuminato». E a illuminarlo essi erano appunto dediti, attraverso «analisi» dirette a intendere la natura delle problematiche che affliggevano il Regno, debitamente accompagnate da «consigli» ritenuti atti a favorirne la soluzione. La testimonianza a tal proposito offerta da Giuseppe Palmieri è per più versi significativa, e dunque meritevole di venire qui richiamata e meditata.
Vide la luce a Martignano di Lecce, figlio di Carlo e di Laura Veneri, il 5 maggio 1721 e chiuse gli occhi a Napoli il 1° febbraio 1793. Da segnalare che non mancano, in special modo per quel che riguarda mese e giorno di nascita e di morte, voci discordi, non suffragate però da prove che ne giustifichino, sembrerebbe, l’accoglimento.
Quella di Palmieri era un’antica casata, originaria forse di Gand, nelle Fiandre, approdata con il tempo in Italia. Entrato ancora adolescente nell’esercito (1734), ne percorse lentamente la scala gerarchica: si congedò poco più che quarantenne. Avendo beneficiato, però, di lunghe licenze, aveva potuto completare a Napoli, dove fu allievo di Antonio Genovesi, gli studi iniziati a Lecce presso il collegio dei gesuiti di quella città.
Sembra che gli sia stato affidato dal sovrano, Carlo di Borbone, il compito di tradurre dal tedesco le ordinanze militari di un Paese, la Prussia, in cui l’arte militare era tenuta, certo per impulso di quel re guerriero che fu Federico il Grande, in particolare considerazione. Nacquero da questi stimoli le sue Riflessioni critiche sull’arte della guerra (1761).
Gradualmente si fece strada in lui il convincimento che una vita condotta fra le rassicuranti pareti domestiche è di gran lunga più appetibile di quella consumata in grigie caserme o remote guarnigioni. Lasciò la divisa nel 1762. Concorse a determinare una simile scelta la decisione di prender moglie e, più ancora, la necessità di occuparsi con continuità della gestione dei beni aviti, che la sopravvenuta morte del padre rendeva indifferibile. E per più di vent’anni, dal 1762 al 1783, a essa infatti si dedicò con impegno, dividendo le sue operose giornate fra la costante cura delle proprie terre, fatte oggetto di migliorie varie, e le intense letture quotidianamente compiute nella ricca biblioteca di famiglia.
La vita da tranquillo gentiluomo di campagna, che da più lustri conduceva, avrebbe però subìto inaspettatamente una svolta: quando fu chiamato a ricoprire l’incarico di amministratore delle dogane in Terra d’Otranto (1783). Ma fu il successivo trasferimento a Napoli, reso indispensabile dalla nomina, prima a membro del Supremo consiglio delle finanze (1787), poi a direttore delle Finanze (1791), ad allontanarlo dalle sue terre, alla cui gestione ormai da tempo con passione si dedicava. Si allontanò dalle terre, non però dagli studi. L’impegno, certo gravoso, sul piano dell’azione politico-amministrativa non gli impedì di dare infatti alla luce, in rapida successione, ben quattro volumi: le Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli (1787 e 1788), i Pensieri economici relativi al Regno di Napoli (1789), le Osservazioni su varj articoli riguardanti la pubblica economia (1790) e infine, quasi sul limitare della vita, l’ultimo, Della ricchezza nazionale (1792). Sono le opere alle quali restano consegnati i suoi apporti di economista e di riformatore.
Palmieri, che fu uomo di vaste letture, trasse da esse alimento per cimentarsi con penna, carta e inchiostro, come non senza enfasi ha scritto un suo biografo (De Rinaldis 1850, p. 32).
Egli si lasciò a tutta prima tentare da libri che di guerra e di condotta delle guerre si occupavano. Lo testimoniano i due grossi volumi in quarto nei quali discorre appunto di «arte della guerra», volumi che riflettono una cultura «solida ma arcaica» (Venturi 1962, p. 1088), il suo argomentare essendo il frutto di puntuali ripensamenti del contenuto di una molteplicità di testi classici.
In quell’opera, mette conto ricordare, era alla ragione, pur non essendo Palmieri un fanatico dell’astrazione, che veniva affidato il compito di porre le necessarie premesse per poter saggiamente operare. Una ragione sostanzialmente vista come strumento di liberazione dai preconcetti e dal peso dell’autorità, nonché come tramite per valutare i pro e i contro di tradizioni che andavano non meramente «ereditate», ma «conquistate», riflettendo attentamente sul loro significato e sugli insegnamenti che da esse potevano discendere: si era insomma in presenza di una ragione prospettata come veicolo per giungere faticosamente al possesso del «vero». Certo, nella sua visione, anche l’esperienza aveva una qualche parte da sostenere, ma restando per così dire più nell’ombra o, se si preferisce, in posizione pressoché ancillare: essa era infatti chiamata a preparare il terreno sul quale si sarebbe poi esercitato l’intelletto e a verificare se mai la fondatezza della fiducia che l’uomo riponeva nella possibilità di approdare a una comprensione razionale del mondo circostante. E anche per questo, forse, l’esperienza era da Palmieri vista come qualcosa che andava molto al di là della pratica che il singolo realizza nell’azione d’ogni giorno: era da lui vista, in breve, come qualcosa che si offriva nei più ampi termini di esperienza «storica».
Nessuna pratica, tuttavia, né la stessa ragione, potevano porre del tutto al riparo dall’errore. Di qui un alternarsi di atteggiamenti che rischiano di apparire, a prima vista, contraddittori: da un lato, infatti, vi è in lui la speranza, alimentata dalla fiducia nelle possibilità, offerte dalla ragione, di poter incidere su uomini e cose; dall’altro, invece, vi è la consapevolezza, foriera di disincantato distacco, di chi scopre ardui e, se mai, vani i tentativi di rinnovamento.
Discende proprio da tale consapevolezza il suo realismo, su cui tante volte è stato posto l’accento: un realismo che non nasce da sfiducia nella ragione, ma dalla coscienza di quanto impervia e lunga sia la strada che dalla «teoria» dovrebbe condurci a una «pratica» migliore. Operiamo pure, egli ha perciò l’aria di dire, perché i «lumi» vincano le tenebre dell’ignoranza, sgombrino le menti dai pregiudizi, sopiscano gli egoismi di chi è tutto preso dalla cieca difesa del proprio «particulare»: ma senza farci troppe illusioni. E ove mai, sembra pensare Palmieri, lo sconforto dovesse avere la meglio sulla speranza, ricordiamoci che la ragione non va giudicata dalla sua capacità di incidere, nell’immediato, sul mondo esterno, bensì dalla sua idoneità a offrirsi quale specifico procedimento di conoscenza dei fatti, di valutazione della realtà, di guida all’azione. Un’azione, certo, tanto ardua da mutare alla lunga in scetticismo il sano realismo di tanti fiduciosi benpensanti. Ed è appunto in siffatta ottica, sembrerebbe, che bisogna porsi per intendere appieno il senso dello «spirito filosofico» che aleggia nelle Riflessioni sull’arte della guerra: uno spirito, forse, meno «chiaro, sottile e sodo» di quanto pretendeva Genovesi (citato da Palmieri in Riflessioni sull’arte della guerra, t. II, pagina priva di numerazione), ma certo non assente, e unito anzi a un apprezzabile «germinare d’un sentire politico e civile nuovo» (Venturi 1962, p. 1089).
Nell’opera in questione, invero, Palmieri sembra «portare non soltanto i suoi lumi, la sua esperienza, ma un desiderio, una volontà di “pubblica felicità”» (p. 1089) che non mancavano di colpire. E proprio Genovesi si soffermava a sottolinearlo, e «non senza profondo piacere» (Riflessioni sull’arte della guerra, cit., t. II, pagina priva di numerazione): con il compiacimento, cioè, di chi vede germogliare i frutti del suo insegnamento e si rafforza nella speranza che, grazie all’intraprendenza di uomini d’ingegno desiderosi di impegnarsi sul terreno delle necessarie e auspicate riforme, possa finalmente appressarsi la stagione del riscatto.
E nel Palmieri studioso di cose militari non mancano, a ben guardare, i segni premonitori del riformatore illuminato e dell’economista che poi diventerà. Ne sono chiare manifestazioni vuoi la fiducia riposta nella forza della ragione e nelle possibilità di trasformazione dell’uomo, vuoi il bisogno di scendere sul terreno dei risvolti economico-politico-sociali della «bellica». Non sorprende, dunque, che egli affianchi, ai temi strettamente tecnico-militari, qui tralasciati, altri che tali non sono: come quando, per esemplificare, dopo aver osservato che «la folla de’ poveri, e di chi non ha mestiere, dimostra evidentemente che manca più tosto lavoro alla gente, che gente al lavoro» (p. 45), ne suggerisce l’impiego nella milizia e nell’agricoltura, arti a suo avviso entrambe le «più utili, e necessarie allo Stato, dalle quali la sua felicità dipende, e deriva» (p. 49). Al tempo stesso si preoccupa che lo Stato, volendo porre le premesse per una crescita della società civile, ponga l’istruzione come momento da non trascurare. Tematiche, queste, che ritorneranno, ampliate e approfondite, nelle opere di carattere economico: ovviamente non da sole. Non si è dunque lontani dal vero nel dire che l’economista e il riformatore fanno sia pur timidamente capolino già nelle pagine delle sue Riflessioni sull’arte della guerra.
L’interesse di Palmieri per l’economia, marginalmente presente, essendo circoscritto a poche tematiche quando disserta sull’arte della guerra, finirà con lo svilupparsi appieno proprio in occasione del suo ritorno alle campagne avite: nel momento, cioè, in cui si troverà quasi costretto ad avviare una riflessione sulla «scienza del coltivare» (Osservazioni su varj articoli riguardanti la pubblica economia, cit., p. 133) e, più in generale, sulla realtà, certo assai insoddisfacente, dell’agricoltura del Regno. Ed essendo tutt’altro che appagante la realtà delle manifatture e dei commerci, il discorso avrebbe finito, in via del tutto naturale, con l’estendersi all’intera economia, fatta oggetto di analisi dirette a definire le linee di una nuova politica economica e finanziaria, politica che richiedeva e per non pochi versi si identificava con una riforma della pubblica amministrazione.
Erano analisi che Palmieri avrebbe sviluppato alla luce degli insegnamenti offerti da una scienza, la scienza economica, che era a suo avviso illuminante per poter comprendere e per poter operare: se, dunque, l’economia del Regno segnava il passo, era anche perché detta scienza restava largamente negletta. Di qui il lento ma progressivo maturare, nella sua coscienza, di un convincimento assai preciso: occorreva adoperarsi perché «quel lume, il quale si è diffuso da pertutto, giunga finalmente a penetrare nella nostra regione» (Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, 1788, p. 89): infatti, si precisava, «la mancanza della scienza economica non ferisce la gloria di una nazione, ne offende il ben essere, onde non si accorda col buon senso il tralasciarne l’acquisto» (p. 70).
Il buon senso insomma voleva, e anzi imponeva, che si approfondissero gli studi economici, e l’imperativo diventava categorico là dove, come nel Napoletano, l’economia ristagnava e il «ben essere» restava appannaggio di pochi privilegiati. Palmieri, pertanto, non dimentico della realtà e dei bisogni del proprio Paese, ma preoccupato di migliorare altresì le colture e di accrescere la produzione dei suoi feudi, «volle saper bene la scienza che indaga le leggi che regolano la formazione e la distribuzione della ricchezza» (Ferrarelli 1883, p. 22). E al suo apprendimento egli si dedicò con notevole impegno: «amico del Genovesi, dovette pure essere amico della scienza economica» (p. 22); e gli «ozi» della vita di provincia concorsero certo a favorire, oltre ogni dire, il rigoglioso germinare dei semi che, in anni lontani, aveva sparso copiosi il suo indimenticato maestro, l’abate di Castiglione.
Si trattava anzitutto di orientarsi, senza timori preconcetti e paralizzanti per le difficoltà che un approccio del genere poteva portare con sé: la scienza economica, a giudizio di Palmieri, non solo era «facile ad apprendersi, ma si può dire già insegnata dalla natura a tutti gli uomini come la logica, perché forse tutte e due necessarie, una per ordinare e disporre le idee ed i pensieri, e l’altra l’azioni più importanti» (Osservazioni su varj articoli riguardanti la pubblica economia, cit., p. 70). Si trattava, poi, di trarre utili insegnamenti dall’esperienza di chi quella scienza, non sufficientemente studiata nelle province del Regno, altrove andava da tempo coltivando ed elaborando: «l’arrivo più tardi di questa scienza presso di noi (scriveva) può essere più utile, perché possiamo profittare degli altrui lumi e degli altrui errori» (p. 74). Si trattava, infine, di favorire la diffusione delle conoscenze economiche e, soprattutto, di servirsi dei principi della scienza economica per promuovere iniziative capaci di rimuovere gli impacci che soffocavano non solo l’agricoltura, ma le manifatture e i commerci, impedendo per ciò stesso quella crescita della ricchezza nazionale da lui definita «oggetto degno» d’ogni governo (Della ricchezza nazionale, 1799, in Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi, parte moderna, t. 38, 1805, p. 166).
L’economia veniva pertanto presentata come chiave «non men necessaria al governo delle famiglie che de’ popoli» (Osservazioni su varj articoli riguardanti la pubblica economia, cit., p. 67), come premessa irrinunciabile a un’azione meditata sul terreno delle riforme, come strumento da utilizzare proficuamente una volta che fosse stata messa con decisione al servizio della politica: di una politica, per dirla con Genovesi (Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile [1765], Proemio, a cura di M.L. Perna, 2005, p. 263) che non si esauriva nell’«arte legislatrice e servitrice dello Stato e dell’impero», ma andava ampliata fino ad abbracciare le regole che rendono «la sottoposta nazione popolata, ricca, potente, saggia, polita». La nazione, si badi bene, non lo Stato: l’economia, insomma, non poteva più esaurire la sua funzione sul terreno del mero arricchimento del principe, ma doveva preoccuparsi di scendere su quello della «felicità» degli individui. Di qui l’esigenza di approfondire il discorso e le considerazioni svolte da Palmieri, con dovizia di argomentazioni, nelle Riflessioni sulla pubblica felicità.
Che fosse quello un libro, come fu asserito (De Rinaldis 1850, p. 32), nel quale l’autore si proponeva di «distendere» i principi generali della scienza economica, è cosa più che dubbia. Palmieri, infatti, non andava alla ricerca di astratti principi e di leggi universali, ma inseguiva con determinazione l’obiettivo di guarire il Napoletano dai mali che lo affliggevano: il primo passo da compiere, quindi, non poteva che essere quello di prenderne puntuale coscienza; seguiva poi, con immediatezza, la preoccupazione di diagnosticarne attentamente la natura; suggerire terapie adeguate, infine, era la naturale aspirazione di chi, invece di coltivare ozi infecondi e di indulgere, per dirla con Genovesi (Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, in Scritti, a cura di F. Venturi, 1977, p. 42), nello «studio delle idee e delle sterili contemplazioni» si fosse spinto ad approfondire temi concreti: si fosse dato insomma a ricerche che, «nello stesso tempo che giovano al bene pubblico, rendono più umani i costumi, facendo amare la società e l’umanità» (A. Genovesi, Lettere, in Scritti, cit., p. 264).
Era un ufficio, questo, che nessuna scienza più dell’economia sembrava poter adempiere appieno: per essere essa deputata, più d’ogni altra, a occuparsi dei «comodi nostri» (Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile, in Scritti, cit., p. 198); per rappresentare, lo si giurava, la potenziale fonte ispiratrice di un più intelligente operare; per offrirsi come «un altro vello d’oro» (Pecchio 1832, p. 111), alla cui conquista bisognava chiamare a raccolta, novelli argonauti, uomini d’ingegno attenti alla pubblica felicità e in grado, per ciò stesso, di servirsene al fine di mutare ordinamenti e strutture ormai anacronistici.
Ma non si poteva scendere sul terreno alquanto ambiguo della pubblica felicità senza sviluppare discorsi che tentassero, in qualche misura, di collocarsi su un piano non meramente descrittivo. Ecco perché le Riflessioni sulla pubblica felicità di Palmieri hanno un diverso spessore rispetto agli altri tre libri che seguirono, persino all’ultimo pubblicato, giudicato a volte opera «teorica» perché non dimentico dei «fondamenti» dell’economia politica: essi si caratterizzano, infatti, per un approccio più che altro attento a fotografare un quadro – la realtà economico-sociale del Napoletano – tanto deludente quanto preoccupante, a darne una lettura critica e a riproporre, alla luce degli insegnamenti della scienza economica, terapie in non piccola misura già suggerite in quel suo primo volume di carattere economico.
Non che di descrizioni non ci fosse bisogno, e molti si dettero non a caso a frugare per ogni dove nelle province del Regno, allo scopo appunto di conseguire quella conoscenza particolareggiata e attenta alla realtà del Paese in assenza della quale nessuna seria iniziativa si sarebbe potuta avviare. E «visitatori» appassionati e intelligenti si rivelarono i molti studiosi che si dettero a quest’opera di descrizione, un’opera destinata a porre immediatamente sul tappeto i maggiori problemi del Paese: dogane e usi civici, feudi e arrendamenti, Tavoliere e demani. Ricerche, quelle che anche Palmieri portò avanti, sostanzialmente (oggi si direbbe) di storia economica, in cui i problemi locali venivano sposati, non di rado con notevole efficacia, a quelli generali e non mancavano di offrirsi, a volte per profondità di intuizioni, ma sempre per una viva e sentita partecipazione alle vicende analizzate, come vivide testimonianze dell’impegno che si metteva perché, Genovesi in altro contesto diceva (Elementi del commercio [1757-1758], Proemio, a cura di M.L. Perna, 2005, p. 7), non più «a tastoni» ci si continuasse a muovere, ma «ad occhi veggenti».
E la scienza economica? Restava essa negletta? Si esauriva forse, come è stato ripetuto fino alla noia, sul mero terreno della politica economica o, se si preferisce, del «buon governo»? In larga misura, si può rispondere, le cose stanno indubbiamente così: non per una sorta di insanabile contrapposizione fra istanze pratiche, che notoriamente dominano gli scritti di questi antichi autori, e riflessione scientifica, ma perché era all’epoca assai diffuso il convincimento che le «leggi» dell’economia erano quelle dettate dal comune buon senso e sarebbe pertanto bastato richiamarle alla coscienza dei più per rimettere ordine in casa. Come spiegare, altrimenti, il suggerimento di Ferdinando Galiani (citato da L. Dal Pane, Influenze francesi sui nostri economisti del Settecento, «Rassegna storica del Risorgimento», 1936, fasc. III, p. 283), pur non essendo il momento teorico assente nei suoi scritti, di approfondire i casi «compostissimi» in cui la realtà si frantumava, anziché perdersi a dissertare su verità così ovvie da risultare «quasi inette»?
È appunto ad acquisire le «necessarie cognizioni» che Palmieri, assai impegnato a portare avanti la sua battaglia per affrancare il Napoletano dai mali secolari che lo avvilivano, si dedicò con fervore, distinguendosi, fra gli homines novi del Regno, per zelo, dottrina e consapevolezza: una battaglia, la sua, fatta all’insegna del buon senso, di un buon senso poggiante sugli insegnamenti di una disciplina, l’economia politica, da lui vista e intesa, e non a torto, come utile supporto a un corretto operare.
In Palmieri, dunque, l’attenzione alla «teoria», essendo fortemente finalizzata alla «pratica», non si traduce pressoché mai in sistematica ricerca di principi. Non c’è, però, da ascriverglielo a colpa, quasi che, in un atteggiamento siffatto, sia lecito scorgere la controprova di una «minore dignità» sua rispetto ad altri economisti del tempo, più versati sul terreno dell’astratta speculazione. A chi, invero, ritenesse di dover imboccare una strada siffatta, si potrebbe forse dire, con un suo biografo, che è molto meglio sapersi intelligentemente servire, per porre rimedio ai mali del proprio Paese, degli insegnamenti della scienza economica quale si veniva all’epoca faticosamente formando, che ricercare, come allora a volte accadeva (e, ahimè, ancor oggi accade!), «un vano rinomo di speculazione priva di alcun giovamento alla scienza» (De Rinaldis 1850, p. 65).
E che un impegno ad «applicare» l’economia sia da preferire, tanto più se sagacemente praticato, a uno sforzo speculativo destinato ad abortire in conclusioni irrilevanti ai fini del progresso delle umane conoscenze, e per ciò stesso niente affatto utili a indirizzare al meglio le scelte d’ogni giorno, è cosa su cui si può forse convenire. E poi, non omnia possumus omnes: non c’è dunque da dolersi che le capacità di astrazione di Palmieri non riescano a stare alla pari con quelle che egli rivela sul terreno, diremmo oggi, della politica economica. Del resto, a nulla servirebbe, anziché cercare di comprendere la natura dei suoi apporti per poterlo collocare al posto «giusto» fra gli economisti di quegli anni, esaltarne la figura all’antica maniera dei compilatori di «elogi storici».
Riflessioni critiche sull’arte della guerra, Stamperia Simoniana, Napoli 1761, in due tomi (rist. Napoli 1816).
Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, presso i Fratelli Raimondi, Napoli 1787 (ed. non firmata) e 1788 (rist. accresciuta).
Pensieri economici relativi al Regno di Napoli, per Vincenzo Flauto, Napoli 1789.
Osservazioni su varj articoli riguardanti la pubblica economia, per Vincenzo Flauto, Napoli 1790.
Della ricchezza nazionale, per Vincenzo Flauto, Napoli 1792.
Fonti non a stampa:
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