Giuseppe Pecchio
Giuseppe Pecchio può considerarsi il fondatore dell’economia politica risorgimentale. Riprendendo l’eredità di Pietro Custodi, Pecchio popolarizzò il pensiero economico italiano dell’Illuminismo sia in Italia sia in Europa, attualizzandone il significato alla luce delle esigenze del Risorgimento. Lasciò infatti in eredità alle generazioni successive l’idea dell’economia pubblica come «scienza dell’amor patrio». Benchè la sua impalcatura teorica e concettuale rimanesse ancora in parte legata alle idee degli economisti italiani settecenteschi, fu grande ammiratore di Adam Smith e di Thomas R. Malthus, e nei suoi scritti celebrò il modello di sviluppo inglese, difendendolo contro i suoi detrattori.
Pecchio nacque il 15 novembre 1785 a Milano da antica famiglia patrizia milanese. Mentre la madre Francesca Goffredo era figlia di un avvocato, suo padre Antonio veniva da famiglia ammessa al patriziato milanese già dal 1543. Giuseppe, terzo di quattro fratelli, fu educato nel collegio dei Padri somaschi a Merate (vicino a Como) e a Bellinzona, dove studiò con Alessandro Manzoni. Nel 1806 si laureò in giurisprudenza all’Università di Pavia «a pieni voti e con lode». Nel 1808, a soli 23 anni, fu nominato assistente presso il Consiglio di Stato per gli affari di finanza del Regno d’Italia, funzione che gli permise di conoscere il barone Pietro Custodi, segretario generale del Ministero delle Finanze, influenza fondamentale nella sua formazione intellettuale.
Alla fine del periodo napoleonico si avvicinò al Romanticismo lombardo, entrando a far parte nel 1818 della cerchia del conte Federico Confalonieri, di cui fu il principale collaboratore nei suoi progetti di modernizzazione economica e sociale. Del «Conciliatore» Pecchio divenne collaboratore regolare, scrivendo articoli di carattere economico. La sua collaborazione a questi progetti non fu priva di tensioni ideologiche, tensioni che si acuirono in occasione della cospirazione antiaustriaca dei Federati del 1821, in cui egli agì come intermediario tra i liberali lombardi e Carlo Alberto. Infatti, mentre Pecchio vedeva nello Stato napoleonico la base su cui costruire un nuovo Stato liberale, con l’aggiunta di una costituzione come quella spagnola che manteneva l’egalitarismo antinobiliare nel suo sistema monocamerale, Confalonieri e i suoi amici, invece, rifiutavano l’eredità istituzionale francese ed erano favorevoli a un modello costituzionale all’inglese che garantisse l’esistenza di un elemento aristocratico. Il fallimento della cospirazione provocò l’abbandono da parte di Pecchio di Milano e dell’Italia per il resto della sua vita.
Dopo aver partecipato alle rivoluzioni e alla vita politica dei regimi costituzionali di Spagna e Portogallo, di cui scrisse in opuscoli di larga circolazione europea, nel 1823 Pecchio si stabilì in Inghilterra. Qui passò il resto della vita, a eccezione di brevi visite ad altri rappresentanti dell’esulato e al viaggio in Grecia nel 1825 per conto del London Greek committee, da cui fu incaricato di consegnare ai rivoluzionari greci dei fondi di sostegno all’insurrezione contro l’Impero ottomano.
Quando arrivò a Londra nel 1823, abitò per un periodo con l’amico Ugo Foscolo, per trasferirsi prima a Nottingham nel 1825 e l’anno successivo a York, città queste dove insegnò lingua e letteratura italiana. Fu a York che incontrò Filippa Brooksbank, di una famiglia di proprietari terrieri dello Yorkshire, che sposò nel 1828 trasferendosi presto a Brighton.
A Londra Pecchio frequentò il circolo di Jeremy Bentham, e fu regolarmente invitato da John R. McCulloch a cenare con economisti come Thomas Spring Rice, Thomas Tooke e Nassau W. Senior. Nel 1825 fece visita a Malthus, di cui fu grande ammiratore. Fu vicino al circolo di Holland House, depositario attraverso Henry Holland e James Mackintosh della tradizione whig di James Fox, e ai giornalisti della «Edinburgh review», di cui influenzò gli articoli dedicati all’Italia.
Fu proprio questa solida frequentazione dei circoli governativi a farne l’esule italiano più autorevole in Inghilterra, e ad assicurargli un ruolo chiave di intermediario tra cospiratori italiani e governo britannico nel 1831-32, quando grazie ai suoi servizi i rivoluzionari delle Romagne riuscirono a far appoggiare dal governo britannico un piano di riforma amministrativa dello Stato pontificio.
Anche se sostenne la diffusione delle pubblicazioni della Giovine Italia, Pecchio non approvò mai le idee repubblicane di Giuseppe Mazzini e i suoi metodi rivoluzionari, e criticò aspramente la spedizione in Savoia nel 1833. Morì a soli 50 anni, il 5 giugno 1835 a Brighton.
Con la sua prima opera, il Saggio storico sulla amministrazione finanziera dell’ex Regno d’Italia dal 1802 al 1814, scritto nel 1817 (ma pubblicato per la prima volta solo nel 1820), Pecchio fornì una difesa appassionata dell’impatto economico e politico sulla penisola dell’amministrazione napoleonica, di cui aveva fatto parte direttamente, e in particolare dello stimolo del suo sistema fiscale all’economa italiana. Enfatizzando il ruolo dello Stato nel favorire lo sviluppo economico, e il nesso tra economia, protezionismo e nazione, l’operetta si inserisce nella letteratura antismithiana dell’epoca assieme ai lavori di Melchiorre Gioia e agli scritti di economisti francesi come Pierre-Lous Chaptal o Jean-Antoine Roederer, tesi a difendere il ruolo di supporto dell’amministrazione pubblica nello sviluppo industriale di Paesi economicamente arretrati.
In particolare, Pecchio si concentrava sugli effetti benefici che la tassazione e l’amministrazione finanziaria avevano avuto sull’economia dell’Italia. Riprendendo delle idee sviluppate da economisti italiani come Gian Rinaldo Carli o Antonio Genovesi, egli asseriva che i
tributi, quando sieno dal governo prontamente restituiti e sparsi sulla nazione, anziché essere sottrazione della ricchezza pubblica, sono il mezzo più sicuro (in alcune circostanze) per accrescere, accelerando colla loro massa la circolazione, e diffondendo un movimento e calore universali (Saggio storico, 1826, p. 2).
Malgrado ammettesse che singole misure fiscali, come, per es., la capitazione, erano state aspre e ingiuste, e che il blocco continentale aveva inondato la penisola di prodotti francesi a detrimento della produzione nazionale, il tono generale dell’opera era quello di una difesa del controverso operato dell’amministrazione del Regno. Secondo Pecchio, infatti, il blocco continentale, isolando l’Italia dalla concorrenza inglese, la presenza dell’esercito e della nuova amministrazione assieme alla costruzione di strade e canali avevano stimolato sia l’industria sia l’agricoltura, tanto che «la rapidità di tutti questi progressi dell’industria smentì quell’opinione invalsa fra molti di noi, che il nostro paese non sia atto alle manifatture, e che perciò dobbiamo accontentarci delle ricchezze del suolo» (p. 137).
La novità del periodo stava proprio nelle trasformazioni economiche a cui aveva dato impulso, inaugurando la commercializzazione dell’economia della penisola, e in quelle politiche, che la centralizzazione amministrativa, l’abolizione dei privilegi e la creazione, attraverso la burocrazie e l’esercito, di una nuova classe media avevano messo in moto, dando vita all’idea di nazione italiana e favorendo la nascita di un «carattere nazionale».
Pecchio rimase fedele a questa interpretazione del periodo anche negli anni successivi. Negli articoli sul «Conciliatore» del 1818 e 1819 ritornò infatti a difendere la vocazione industriale dell’Italia e della Lombardia contro i suoi detrattori, allargando la sua analisi ai modelli di società commerciale inglese attraverso una valutazione delle teorie di Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, Gioia e Chaptal. Nelle pagine del ‘foglio azzurro’ oppose due modelli di società commerciale, ovvero uno di società agricola (basato su una distribuzione più vasta possibile delle terre come precondizione a uno sviluppo economico armonico ed equilibrato, minacciato dalla meccanizzazione e dalla creazione di una vasta classe operaia destinata alla povertà) e un altro di società industriale (basato sul primato della produzione manifatturiera e sulla massimizzazione del profitto, secondo il modello inglese). Benché discutesse con attenzione le idee contenute nei Nouveaux principes d’économie politique (1819) di Sismondi, riconoscendo con quest’ultimo la stabilità e moralità delle società agrarie rispetto alla «stentata esistenza» degli operai (Il Conciliatore, a cura di V. Branca, 3° vol., 1965, pp. 34, 41), in linea con le idee espresse nel Saggio storico e con le teorie di Gioia (di cui recensiva Sulle manifatture nazionali e tariffe daziarie, del 1819), rivendicava la vocazione industriale della Lombardia, dimostrata già durante l’epoca napoleonica, ed esaltava il suo modello agricolo basato sulle grandi proprietà sfruttate secondo criteri capitalistici (Il Conciliatore, cit., 3° vol., pp. 247-59).
Negli scritti dell’esilio Pecchio dedicava all’Inghilterra due saggi, Un’elezione di membri del Parlamento in Inghilterra, (1826) e Osservazioni semi-serie di un esule sull’Inghilterra (1831), sviluppando l’approccio comparativo inaugurato con gli articoli del «Conciliatore», che valutava la società commerciale inglese tenendo a mente le condizioni della penisola italiana e la sua tradizione di pensiero economico. Benché interpretata alla luce della Histoire des republiques italiennes du moyen âge (1807-1818) di Sismondi, l’influenza dell’Illuminismo italiano, conosciuto attraverso la raccolta curata da Custodi, non mancava di farsi sentire in questi testi.
Per Pecchio, come per Sismondi, l’Inghilterra contemporanea, con la sua vivacissima società civile, la partecipazione popolare alla vita politica (pur senza diritto di voto) e il benessere economico diffuso e in espansione malgrado le temporanee crisi commerciali, rappresentava nel mondo contemporaneo quello che erano state le repubbliche commerciali italiane nel Medioevo per l’Europa. In continuità con il pensiero di Pietro Verri e degli economisti italiani settecenteschi, egli individuava nelle virtù civiche e nel patriottismo alcune delle caratteristiche fondamentali delle società commerciali moderne. Così come Verri e i riformatori lombardi, nei loro articoli del «Caffè», e il napoletano Genovesi avevano sostenuto che il commercio stimolava l’amore per la patria, e che il lusso non indeboliva le virtù civiche e militari, Pecchio nello scritto L’anno mille ottocento ventisei sottolineava come valore e lusso, patriottismo e ricchezza convivessero nell’Inghilterra contemporanea, dove gli uomini erano contemporaneamente cittadini e «macchine produttrici» (L’anno mille ottocento ventisei dell’Inghilterra [1826], in Scritti politici, a cura di P. Bernardelli, 1978, pp. 323, 347).
Gli scritti sull’Inghilterra dimostrano che Pecchio, benché cosciente dei problemi legati al machinismo, ne rimase un convinto sostenitore. Con Smith e Jean-Baptiste Say, ammetteva che il lavoro delle manifatture aveva effetti deleteri sulla salute degli operai. Tuttavia, secondo le sue osservazioni dirette, in generale la popolazione inglese e persino le classi operaie vivevano in condizioni di maggior benessere rispetto ai loro corrispettivi del continente. Se la povertà esisteva in Inghilterra, essa era dovuta in parte a cause naturali, in parte alla mancata abolizione delle poor laws, di cui, da grande ammiratore di Malthus, egli caldeggiava l’abolizione. In ogni caso, rappresentava un problema di gran lunga più marginale di quello esistente nelle società economicamente più arretrate dell’Europa.
Anche le crisi commerciali che periodicamente affliggevano le società commerciali contemporanee rappresentavano agli occhi di Pecchio problemi di natura provvisoria. Al corrente del dibattito tra Sismondi e Say riguardo la natura delle crisi commerciali, e dei loro echi nella stampa britannica, nel 1826 Pecchio sosteneva che la sovrapproduzione industriale (indicata da Sismondi come una causa strutturale delle crisi) era una causa minore, accompagnata, nel caso specifico della crisi di quell’anno, dalle eccessive speculazioni finanziare che non avrebbero alla lunga minato lo sviluppo dell’economia del Paese (p. 317).
Va detto però che, pur essendo grande ammiratore della potenza industriale e del sistema politico inglesi, Pecchio era convinto che le politiche economiche e le istituzioni inglesi non potevano essere pedissequamente imitate in Italia, a causa del differente livello di progresso civile ma anche delle diversità dei climi e delle società, che rendevano i due Paesi profondamente disomogenei. Per Pecchio, infatti, l’economia era ancora «economia pubblica», ossia, alla stregua di Gioia, una scienza amministrativa atta a formulare politiche economiche e misure specifiche in rapporto alle condizioni di un Paese, piuttosto che a studiare leggi generali di applicazione universale. Così, per es., Pecchio approvava la preferenza di Smith per un sistema di pedaggi per mantenere le strade pubbliche in una grande e florida economia come l’Inghilterra, mentre, per regioni arretrate come quelle italiane, Verri aveva giustamente opinato che solo il governo poteva mantenere e sviluppare la rete stradale in modo adeguato (Osservazioni semi-serie, in Scritti politici, cit., p. 417).
Sul pensiero degli economisti italiani Pecchio tornava con un’opera a loro dedicata, La storia dell’economia pubblica in Italia, ossia Epilogo critico degli economisti italiani (1829), una versione abbreviata della raccolta di Custodi, ricca di osservazioni personali. Per inciso, quest’opera fu molto influente nell’Ottocento: le osservazioni sulla scuola italiana del Settecento ivi contenute vennero riprese da autori come Jérôme-Adolphe Blanqui, Friedrich List e Jean-Paul-Alban de Villeneuve-Bargemont.
Con questo libro, Pecchio compiva un’operazione complessa. Da una parte, storicizzava il pensiero economico italiano, ammettendo che era stato per molti versi superato dai più recenti sviluppi teorici dell’economia politica inglese. Dall’altro, continuava a condividerne e a giudicarne attuale l’approccio, e a celebrare il valore degli economisti italiani del Settecento come fondatori della scienza economica. Questo atteggiamento veniva condensato nella sua personale formulazione dell’idea di primato del pensiero economico italiano, che riprendeva e rielaborava quello di Custodi. Pecchio rivendicava questo primato contro scrittori stranieri come McCulloch, che avevano avuto l’ardire «di togliere […] all’Italia, il solo conforto che le rimane, la gloria de’ propri grand’uomini […] usurpazione simile al furto che si commette negl’incendi e ne’ saccheggi», negando al Breve trattato (1613) di Antonio Serra di aver fondato una nuova scienza (La storia dell’economia pubblica in Italia, a cura di G. Gaspari, 1992, p. 48). Per es., a Verri egli attribuiva la scoperta di idee come la difesa del libero commercio ben prima di Smith, e sosteneva che Giammaria Ortes aveva anticipato le teorie della popolazione di Malthus (pp. 120, 146, 148-49).
L’orgoglio per questo contributo italiano alla cultura europea, tuttavia, non impediva a Pecchio di riconoscere come la scienza economica avesse fatto passi da gigante rispetto agli scritti degli illuministi italiani. Quello che rendeva il loro messaggio attuale era però il patriottismo con cui Verri, Cesare Beccaria e Gaetano Filangieri si erano dedicati al bene comune, premurandosi per il rinnovamento e la riforma delle loro patrie, dimostrando come l’economia fosse in tutto e per tutto una «scienza dell’amor patrio» (p. 233), definizione che collegava progresso economico e Risorgimento nazionale, secondo un binomio destinato a grande successo.
Il Confronto tra gli scrittori italiani e gli scrittori inglesi, il capitolo più celebre ma anche il più frainteso della Storia, forniva un giudizio complessivo su limiti e qualità del pensiero economico italiano settecentesco e del modello di sviluppo che proponeva rispetto all’economia politica e alla società commerciale inglese. Pecchio qui contrapponeva l’economia politica inglese, «scienza d’arricchire le nazioni», e quella italiana, a cui si riconosceva il merito, con chiaro richiamo alla definizione verriana di felicità pubblica, di cercare «non solo la ricchezza, ma anche il ben stare del maggior numero possibile» (pp. 215, 218). Egli elogiava dunque le preoccupazioni sociali e morali che stavano alla base degli scritti economici italiani, conservando anche l’idea tutta italiana di economia pubblica come scienza basata non solo su principi universali ma anche su osservazioni empiriche. Un tale approccio divenne poi il marchio inconfondibile con cui molti altri economisti e patrioti italiani della Restaurazione definirono le virtù della tradizione di studi economici italiani, da contrapporre a quella inglese, colpevole, nelle parole di Pecchio, di «filantropia simile a quella del vetturale, che pasce bene il suo cavallo perché tiri di più» (p. 216).
Questa critica, tuttavia, era diretta in particolare all’opera di David Ricardo, che aveva ridotto la scienza economica a una «secca osteologia», e non a tutti gli economisti d’Oltremanica. Contrariamente a ciò che è stato affermato a lungo dagli storici, Pecchio fu invece grande ammiratore di Smith, di cui scrisse che «è forse giunto allo stesso grado di altezza nella sua scienza, come nella metafisica e nell’astronomia erano giunti Locke e Newton» (p. 222). Pecchio ammetteva infatti la superiorità teorica dei testi economici inglesi, e allo stesso tempo quella della civiltà inglese rispetto al modello di società prospettata dagli scrittori italiani del Settecento.
Come aveva fatto quindici anni prima Gioia, anche Pecchio rifiutava, nel citato Confronto, il paradigma repubblicano degli economisti italiani settecenteschi, che legava la cittadinanza alla terra, a favore di un modello liberale di società basato su libertà civili e produttività (pp. 221-22). In Pecchio l’ammirazione per l’approccio della scuola italiana, teso a salvaguardare il benessere di tutta la società, significava riconoscere come la gestione dei problemi legati alla povertà e al sovrappopolamento, insomma al benessere sociale, non potesse essere esclusa dalle preoccupazioni dell’economia. Per la soluzione di questi problemi però Pecchio non proponeva utopie ridistributive o un rifiuto di macchinismo e industria ma, secondo il modello inglese, educazione popolare, biblioteche ambulanti e scuole di mutuo insegnamento (pp. 221-22). Insomma, l’apprezzamento per l’approccio italiano ai problemi sociali ed economici non sminuiva per nulla la sua ammirazione verso il modello di sviluppo inglese.
Per apprezzare l’originalità di questa combinazione tra idee illuministiche e anglofilia economica, vale la pena osservare come Gian Domenico Romagnosi declinasse in modo diverso la lezione dell’Illuminismo lombardo. Per il filosofo piacentino e per i suoi allievi che scrivevano negli «Annali universali di statistica», infatti, la lezione verriana e l’idea di felicità pubblica stavano a dimostrare l’ingiustizia del modello di sviluppo della Gran Bretagna, la cui eccessiva commercializzazione aveva effetti deleteri per il benessere delle classi lavoratrici, e contribuiva a creare squilibri sociali ed economici devastanti, che l’Italia avrebbe dovuto evitare.
Pecchio invece reiterò la sua fede nella capacità della società commerciale inglese di coniugare libertà politica e progresso economico, benessere diffuso assieme ai benefici dell’opinione pubblica e dell’educazione fino agli ultimi dei suoi scritti economici, compresa la sua dissertazione Sino a qual punto le produzioni scientifiche e letterarie seguano le leggi economiche della produzione in generale (1832). Sottolineando il nesso tra progresso economico, civile e intellettuale, in essa affermò che la diffusione della cultura e della letteratura dipendeva dalle leggi dell’economia. Sulla scia di Gioia e Say, anche per Pecchio il lavoro intellettuale era lavoro produttivo, e la diffusione della letteratura, alla stregua di ogni altro bene di consumo, risultava dallo stimolo dei bisogni. L’Inghilterra aveva dimostrato proprio come libero commercio e istituzioni rappresentative avessero favorito la diffusione della stampa. Da questo punto di vista la commercializzazione della letteratura e la diffusione del giornalismo non rappresentavano, secondo la convinzione di molti scrittori italiani contemporanei, una minaccia alla dignità del lavoro intellettuale, quanto piuttosto un’opportunità che avrebbe accresciuto il loro peso nella società e favorito libertà e progresso.
Si citano qui solo gli scritti di carattere economico di Pecchio:
Saggio storico sulla amministrazione finanziera dell’ex Regno d’Italia dal 1802 al 1814, Lugano 1820, nuova edizione Londra 1826.
Per i 32 articoli pubblicati sulla rivista «Il Conciliatore» si rimanda a Il Conciliatore, a cura di V. Branca, 3 voll., Firenze 1953-1965.
Tra le opere scritte durante l’esilio, si vedano i tre scritti dedicati alla discussione del modello economico e politico inglese: Un’elezione di membri del Parlamento in Inghilterra, Lugano 1826, L’anno mille ottocento ventisei dell’Inghilterra, Lugano 1827, e Osservazioni semi-serie di un esule sull’Inghilterra, Lugano 1831, tutti e tre ora in Scritti politici, a cura di P. Bernardelli, Roma 1978.
Le Osservazioni vennero pubblicate anche a Londra e Filadelfia nel 1833 come Semi-serious observations of an Italian exile, during his residence in England, e a Bruxelles nel 1838 come Causeries d’un exilé sur l’Angleterre.
Si vedano inoltre:
La storia dell’economia pubblica in Italia, ossia Epilogo critico degli economisti italiani, Lugano 1829, la cui più recente riedizione è a cura di G. Gaspari, Varese 1992.
Sino a qual punto le produzioni scientifiche e letterarie seguano le leggi economiche della produzione in generale, Lugano 1832, ripubblicato, con il titolo Della produzione letteraria, a cura di F. Cossutta, Pordenone 1985.
P. Bernardelli, Prefazione a G. Pecchio, Scritti politici, Roma 1978, pp. VII-XCI.
R. Romani, L’economia politica del Risorgimento, Torino 1994.
T. Maccabelli, La «Biblioteca italiana» e il «Conciliatore» nella Milano della Restaurazione: il dibattito economico, in Le riviste di economia in Italia (1700-1900). Dai giornali scientifico-letterari ai periodici specialistici, a cura di M.M. Augello, M. Bianchini, Milano 1996, pp. 129-69.
M. Isabella, «Una scienza dell’amor patrio»: public economy, freedom and civilization in Giuseppe Pecchio’s works (1827-1830), «Journal of modern Italian studies», 1999, 2, pp. 157-83.
R. Romani, Gli economisti risorgimentali di fronte allo sviluppo inglese, 1815-1848, «Il pensiero economico italiano», 2002, 2, pp. 43-71.
M. Isabella, Italian exiles and British politics before and after 1848, in Exiles from European revolutions: refugees in mid-victorian England, ed. S. Freitag, New York-Oxford 2003, pp. 59-87.
M. Isabella, «Il Conciliatore» e l’Inghilterra, in Idee e figure del «Conciliatore», a cura di G. Barbarisi, A. Cadioli, Milano 2004, pp. 477-507.
M. Isabella, Riformismo settecentesco e Risorgimento: l’opera di Pietro Verri e il pensiero economico italiano della prima metà dell’Ottocento, «Il pensiero economico italiano», 2005, 1, pp. 31-50.
M. Isabella, Da funzionario napoleonico a liberale europeo: Giuseppe Pecchio (1785-1835), «Archivio storico lombardo», 2011, s. XII, 16, pp. 25-44.
M. Isabella, Risorgimento in esilio. L’internazionale liberale e l’età delle rivoluzioni, Roma-Bari 2011.