RICCA-SALERNO, Giuseppe
RICCA-SALERNO, Giuseppe. – Nacque a San Fratello (Messina) il 20 settembre 1849, da Paolo, medico, e da Giuseppa Salerno; assunse i cognomi di entrambi i genitori, scrivendoli separati da un trattino. Iscrittosi nel 1869 alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo, si laureò nel 1873 con una tesi sulla Libertà del lavoro considerata come principio supremo dell’ordinamento sociale, avendo come relatore l’economista liberale Giovanni Bruno. L’anno seguente vinse una borsa di studio all’Università di Pavia, dove insegnava l’economista Luigi Cossa, che fu il suo mentore nei primi passi della carriera. Nel 1876-77 trascorse un periodo di studio presso l’Università di Berlino, a quel tempo ‘la Mecca’ degli economisti italiani della scuola ‘lombardo-veneta’, che sosteneva l’esigenza di un più esteso intervento dello Stato nell’economia. Nella capitale tedesca seguì le lezioni di Adolph Wagner, capo dei Kathedersozialisten, e di Ernst Engel, eminente statistico. Frutto di questa esperienza sono diversi articoli pubblicati sul Giornale degli economisti, rivista accademica di Padova, allora portavoce della scuola interventista in Italia. Rientrato in patria, iniziò la carriera accademica nell’anno accademico 1877-78, coprendo l’incarico di scienza delle finanze presso l’Università di Pavia.
Statalista e materialista, Ricca-Salerno non condivise l’approccio moraleggiante proprio del quasi coetaneo Giuseppe Toniolo, ma seguì un indirizzo teorico classico modificato da concessioni all’impostazione statalista e storicista di origine tedesca; solamente in un secondo momento si aprì al marginalismo, specie austriaco.
Lo statalismo è presente nella prolusione al suo primo corso universitario, Oggetto e compito della scienza delle finanze (Giornale degli economisti, III (1878), 6, pp. 249-277), dove definisce non solo lo Stato, ma anche gli enti locali, come «forme naturali e necessarie della sociabilità umana, istituzioni etiche, coattive, superiori all’arbitrio degli uomini», precisando però che lo Stato «è un organo nobilissimo e naturale della società, ma non coincide con la società» (p. 250), seguendo in questo l’insegnamento liberale di Stato e Chiesa di Marco Minghetti (Milano 1878).
Nel suo primo lavoro di ampio respiro (Sulla teoria del capitale, Milano 1877), Ricca-Salerno esaminò le varie teorie classiche sul tema, compresa quella di Karl Marx, di cui accoglie la distinzione fra capitale come strumento necessario per la produzione e capitale come relazione storico-sociale. Resta netta la distinzione fra capitale e lavoro. Il primo è condizione per l’impiego del secondo, ma non contribuisce a crearlo (p. 113). La fonte principale dell’accumulazione è il risparmio collegato con l’«industria». L’accumulazione trova il suo naturale limite allorché si raggiunge lo «stato stazionario». Il contesto in cui si muoveva Ricca-Salerno era dunque quello classico.
Conseguita nel 1878 la libera docenza in scienza delle finanze, nel 1880 vinse contemporaneamente i concorsi a cattedra di straordinario di scienza delle finanze all’Università di Pavia e di ordinario di economia politica all’Università di Modena, optando per il secondo. Qui ebbe come discepolo Augusto Graziani (1865-1944), che continuò su quell’indirizzo scientifico. Negli stessi anni Ricca-Salerno iniziò la sua collaborazione ad alcune fra le riviste più influenti della nuova Italia, come la Rassegna settimanale di politica, scienze, lettere ed arti di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, l’Archivio giuridico di Filippo Serafini, l’Annuario delle scienze giuridiche, sociali e politiche di Carlo Francesco Ferraris e la Nuova Antologia dei fratelli Francesco e Giuseppe Protonotari; scrisse anche sul Finanzarchiv e sul Bulletin de l’Institut international de statistique.
Una sua prima apertura al soggettivismo marginalista, soprattutto per l’influenza dell’opera dell’austriaco Emil Sax, è presente nell’articolo Nuove dottrine sistematiche nella scienza delle finanze (Giornale degli economisti, II (1887), 4, pp. 375-402), che prelude al successivo manuale di Scienza delle finanze (Firenze 1888; riedito nel 1916 a cura di Riccardo Dalla Volta con aggiunte e note bibliografiche).
Qui Ricca-Salerno afferma che si deve partire dall’analisi dei bisogni che la finanza pubblica deve soddisfare, chiarendo che «i bisogni cosiddetti pubblici o dello Stato non sono che bisogni dei singoli uomini considerati non quali individui […] ma quali consociati» (p. 43). Tuttavia, se ispirata al marginalismo della Scuola austriaca è la trattazione dei bisogni pubblici e dei modi di farvi fronte, le parti del manuale più tipiche dell’autore sono sia l’illustrazione dei vari sistemi tributari europei sia la digressione sulla formazione del bilancio in Inghilterra.
Nel 1888 Ricca-Salerno divenne socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei (socio nazionale nel 1904), e nel 1889 fu eletto preside della facoltà di giurisprudenza modenese. Nel 1891, in seguito alla morte di Giovanni Bruno, venne chiamato alla cattedra di economia politica dell’Università di Palermo della quale divenne rettore nel 1895.
Nel saggio Protezionismo e libero scambio nei paesi vecchi e nei nuovi (Giornale degli economisti, aprile-maggio 1891; rist. in Biblioteca dell’economista, s. 4, I, parte II, Torino 1897, pp. 395-436) Ricca-Salerno partì dalla teoria classica dei costi comparati per domandarsi quali fossero le ragioni che avevano fatto prevalere in molti Paesi il protezionismo, di cui la teoria ricardiana del commercio internazionale aveva dimostrato la fallacia.
La risposta era nella politica di bassi salari e di maggiore lunghezza della giornata lavorativa nei Paesi protezionisti, che riducendo il costo del lavoro consentiva loro di importare una maggiore quantità di beni alimentari da quelli liberoscambisti. Il sistema tendeva a rovesciare le preesistenti ragioni di scambio e infine a modificare profondamente il profilo economico dei vari Paesi. Quelli dove vigeva il libero scambio tendevano a ritornare a specializzarsi nella produzione agricola, viceversa quelli protezionisti. La legge del perseguimento del più alto saggio del profitto dominava la scena in entrambe le realtà.
L’analisi classica fu seguita anche nel successivo La teoria del valore nella storia delle dottrine e dei fatti economici (Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, cl. di scienze morali, s. 5, 1893, 1, pp. 137-305).
Fin dalle prime pagine affermava che «il valore dei prodotti non si proporziona mai all’utilità […] che pure ne costituisce una condizione necessaria» (p. 144), il che gli consentiva di tener fuori della trattazione gli autori marginalisti. Per Ricca-Salerno l’utilità serviva a ripartire il lavoro totale disponibile nella produzione delle varie merci per le quali vi era domanda. È quello che egli chiamava l’aspetto quantitativo della teoria del valore-lavoro. L’approccio al problema della misura del valore attraverso il ‘tempo’ di lavoro era decisamente ricardiano, ma Ricca-Salerno considerava anche la diversa ‘intensità’ del lavoro. Ne conseguiva che il tempo di lavoro non era, o non era più nelle società capitalistiche avanzate, l’unica determinante del valore: «La teoria quantitativa del lavoro contiene profonde lacune» (p. 175), concludeva. Inoltre, sulla scorta dell’Analisi della proprietà capitalista di Achille Loria (Torino 1889), osservava come l’equazione valore = lavoro fosse modificata dalla presenza del saggio di profitto. Di lì a poco Friedrich Engels avrebbe pubblicato il III libro del Capitale, in cui si trovava una soluzione, seppure controversa (la ‘trasformazione dei valori in prezzi di produzione’), agli interrogativi posti da Ricca-Salerno.
La sua opera più importante, la Storia delle dottrine finanziarie in Italia col raffronto delle dottrine forestiere e delle istituzioni e condizioni di fatto (Atti della Regia Accademia dei Lincei, cl. di scienze morali, s. 3, 1880-1881, pp. 3-286; II ed. interamente rifatta, Palermo 1896), voleva essere un monumento alla tradizione italiana di finanza pubblica e insieme una lezione di realismo nell’interpretare le idee economiche del passato alla luce della struttura economica e sociale in cui vennero concepite.
Durante il Medioevo si passò da una concezione privatistica dei tributi a una pubblicistica basata sul riconoscimento del potere impositivo dei comuni. Alle imposte dirette si affiancarono i prestiti pubblici, che svilupparono la fitta trama dei rapporti fra governi e banchieri chiamati a pagare i creditori dello Stato, ricevendo in cambio da quest’ultimo l’appalto delle imposte; inoltre, le necessità straordinarie delle guerre produssero i primi esperimenti di tassazione sul patrimonio. Quando poi si manifestò una eccessiva crescita della spesa pubblica, con il conseguente inasprimento della pressione tributaria, ci si spostò sulla ricerca dei cespiti da colpire, e fece la sua comparsa il «principio del sacrificio» per distribuire il carico fiscale sui cittadini. Il Settecento fu il secolo d’oro della teoria finanziaria in Italia. Il fatto che la dottrina fisiocratica dell’imposta unica avesse da noi un’influenza limitata consentì una maggiore varietà di posizioni. Carlo Antonio Broggia e Pietro Verri anticiparono i canoni della tassazione di Adam Smith (come certezza, efficienza). Pietro Leopoldo di Toscana cercò di introdurre principi di trasparenza nell’impiego delle entrate da parte dello Stato. I residui feudali furono vivacemente combattuti. D’altra parte, con Gaetano Filangieri si cominciò a considerare l’imposta non più solo come un gravame, ma anche come un fattore di miglioramento economico. Nonostante l’acume degli economisti del Settecento, mancava tuttavia un chiaro collegamento fra ordinamento tributario e teoria della condotta dello Stato, a differenza di quello che avveniva nei Paesi di lingua tedesca (Johann Heinrich Gottlob von Justi, Joseph von Sonnenfels). Nelle pagine conclusive Ricca-Salerno passava in rassegna il pensiero finanziario del primo Ottocento, caratterizzato da un’accesa discussione pro e – più spesso – contro l’imposta progressiva.
Non meno impegnativo, anche se oggi pressoché dimenticato, fu La teoria del salario nella storia delle dottrine e dei fatti economici (Palermo 1900), che inalberava come motto il verso dantesco «Perché una gente impera e l’altra langue». Si tratta di un’amplissima panoramica storica sulle condizioni economiche dei lavoratori europei in età moderna. Ricca-Salerno faceva risalire alla seconda metà del Cinquecento – con la rivoluzione dei prezzi dovuta all’afflusso di metalli preziosi dal nuovo continente – il punto di svolta che peggiorò le condizioni dei lavoratori, attraverso una serie di fattori concomitanti: l’aumento di prezzo delle terre dovuto alle enclosures, la crescita della popolazione che premeva sulle sussistenze, l’aumento del prezzo del grano cui non teneva dietro il salario monetario (fenomeno quest’ultimo considerato con favore da testimoni come William Petty e Daniel Defoe, perché in tal modo i lavoratori sarebbero stati costretti a lavorare più intensamente).
L’economista siciliano presentava una ricchissima ricognizione della letteratura storica sui diversi tipi di salario e della relazione di questo con il profitto, e una altrettanto estesa panoramica degli studi empirici sull’andamento dei salari e dei profitti nei principali Paesi d’Europa. Insieme agli economisti classici, ai reports inglesi sulla Poor Law e a Marx, si avvertiva l’influenza di Achille Loria per una rappresentazione alquanto meccanica dello scontro fra capitale e lavoro, anche se Ricca-Salerno non si tratteneva dal criticare Loria (pp. 20, 213 e passim). Durante la rivoluzione industriale erano venute meno molte alternative di lavoro, mentre sarebbe bastato un aumento dei salari in coincidenza con un boom produttivo per spingere gli industriali a introdurre le macchine, aumentare il numero dei disoccupati e abbassare di nuovo i salari. Da ultimo Ricca-Salerno si avventurava nella previsione di un’epoca in cui il lavoro salariato sarebbe scomparso, sulla scorta di quanto avvenuto per forme precapitalistiche come la schiavitù e la servitù. Il sistema capitalistico sarebbe sopravvissuto se in grado di ridurre il costo del lavoro. Ove questo non fosse stato più possibile, dato lo sviluppo delle organizzazioni operaie, allora l’intero processo di accumulazione capitalistica sarebbe andato in crisi (p. 687).
Oltre che per il Marx economista, Ricca-Salerno mostrò attenzione per i moti socialisti che in Sicilia spingevano per la frammentazione del latifondo, ma non risulta aver preso parte attiva al movimento.
All’inizio del nuovo secolo Ricca-Salerno collaborò con il conterraneo Vittorio Emanuele Orlando al Primo trattato completo di diritto amministrativo, curando le sezioni su Le entrate ordinarie dello Stato e su Finanze locali (Milano 1902).
Infine, si occupò di scienza dell’amministrazione, di cui nel 1906 tenne l’incarico d’insegnamento e pubblicò le lezioni in forma di dispense.
L’impostazione oggettivista e, almeno potenzialmente, critica del sistema capitalistico, contribuì a una precoce eclissi della sua fortuna. Gli autori dei principali testi di scienza delle finanze di inizio Novecento, da Antonio De Viti de Marco a Luigi Einaudi, ispirati a dottrine liberali e liberiste, non tennero conto del suo apporto. D’altra parte Ricca-Salerno non trattò alcuno dei temi teorici allora al centro dell’indagine teorica – la traslazione e incidenza delle imposte nelle varie condizioni di mercato e il rapporto fra imposta ed equilibrio economico – e neppure si accostò, come pure avrebbe consentito la sua profonda sensibilità sociale, a precisi progetti di riforma fiscale. Così il programma dell’infaticabile professore siciliano, confinato alla disamina di fenomeni storici, non venne di fatto raccolto né tanto meno proseguito.
Dal matrimonio con Maria Costa Ricca-Salerno ebbe due figli, di cui uno, Paolo (1898-1951) fu titolare della cattedra di scienza delle finanze all’Università di Messina dal 1932 e in quella di Palermo dal 1937.
Negli ultimi anni di vita lo afflisse una malattia che ne limitò progressivamente la capacità di lavoro e lo condusse a morte precoce, sopraggiunta nella nativa San Fratello il 1° settembre 1912.
Fonti e Bibl.: C.F. Ferraris, G. R.-S., commemorazione letta nella R. Università di Palermo addì 8 Febbraio 1915, estratta da Annali del Seminario giuridico della R. Università di Palermo, IV, Palermo 1916; E. Morselli, Sulla storiografia del pensiero finanziario, in Storia e storiografia del pensiero finanziario, scritti di A. Wagner et al., ristampa a cura di A. Li Calzi, Padova 1960, pp. 311-314; F. Pica, Note intorno ad alcuni contributi italiani alla teoria volontaristica, in Studi economici, 1966, n. 3, pp. 349-368; L. Spoto, Economisti e questione agraria in Sicilia (1860-95). G. R.-S. e la trasformazione del latifondo, Palermo 1980, pp. 33-57; R. Gherardi, Sul Methodenstreit nell’età della sinistra (1875-1885): costituzione, amministrazione e finanza nella ‘via media’ di G. R.-S., in Materiali per una storia della cultura giuridica, giugno 1983, pp. 85-121; U. Pagallo, La cattedra socialista. Diritto ed economia alle origini dello Stato sociale in Italia, Napoli 1989, passim; F. Forte, G. R.-S. capostipite della scuola delle scelte pubbliche democratiche della finanza pubblica, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, 2005, n. 1, pp. 3-29; P. Travagliante, Tra classicismo e marginalismo. La Scienza delle finanze di G. R.-S., Milano 2011; Gli economisti accademici dell’Ottocento. Una storia ‘documentale’, a cura di M.M. Augello, con la collaborazione di F. Celiano - G. De Santi, I, 3, Pisa-Roma 2013, pp. 1337-1356.