RICCI ODDI, Giuseppe
RICCI ODDI, Giuseppe. – Nacque a Piacenza il 6 ottobre 1868, figlio unico di Carlo e di Carolina Ceresa. Dal 1882 al 1887 frequentò il ginnasio comunale e il regio liceo Melchiorre Gioia, senza superare l’esame di licenza. Si iscrisse quindi alla facoltà di giurisprudenza di Torino come «uditore a corsi singoli», ma, dopo aver superato da privatista l’esame di licenza nella propria città, optò per la stessa facoltà a Roma. Negli anni accademici 1888-89 e 1889-90 sostenne ogni anno due esami, superandone ogni volta uno soltanto. Restò nell’Urbe sino al 1895.
Di tale soggiorno, a oggi, non si conosce nulla, ma certo dovette lasciare in lui un segno profondo, sottraendolo a una visione altrimenti provinciale: grazie alla nuova corte sabauda – in particolare al ruolo propulsivo della regina Margherita – la città andava imponendosi quale capitale moderna e aggiornata in campo artistico e culturale.
Rientrato a Piacenza, nel 1897 ottenne dalla madre un appartamento nel palazzo avito, in via Poggiali. Nello stesso anno, grazie ai consigli di Oreste Labò, uno scultore piacentino, acquistò da Irene Merighi Pecore tosate di Francesco Filippini e Dopo Novara di Gaetano Previati per decorare le pareti del salotto, destino che seguirono anche i due dipinti di Filippo Carcano, Strada al Mottarone e Tramonto a Sottomarina (quest’ultimo donato nel 1925 a Leopoldo Montanari di Bologna e non giunto nella successiva Galleria Ricci Oddi come i precedenti), comperati nel 1898. Insieme con quelli effettuati nel decennio successivo, questi primi acquisti ebbero carattere sporadico e furono dettati da esigenze di arredo: nella prima parte della sua esistenza, più che per l’arte, Ricci Oddi manifestò interesse per lo sport (pesistica, canottaggio, scherma, equitazione, oltre alle escursioni sull’Appennino piacentino), e successivamente per la gestione del proprio patrimonio, costituito da immobili, aziende agricole e azioni nelle Officine Meccaniche Piacentine situate nei pressi di Barriera Roma, delle quali sarebbe in seguito divenuto presidente del consiglio di amministrazione.
A spingerlo al collezionismo, intorno al 1910, fu con ogni probabilità, accanto a una maturata sensibilità personale, l’amicizia con il coetaneo Carlo Pennaroli, un cambiavalute appassionato d’arte e pittore dilettante. Con questi iniziò a frequentare le esposizioni di Venezia, Milano, Napoli, entrando in contatto con artisti che sarebbero divenuti suoi consulenti, come Giuseppe Casciaro, pittori-mercanti come Eugenio Buono, collezionisti-mercanti come Giovanni Torelli e galleristi come Lino Pesaro e Luigi Scopinich, con i quali intrattenne un carteggio custodito presso la galleria. L’attenzione di Ricci Oddi si volse subito verso l’arte italiana dell’Ottocento e di primo Novecento, con una predilezione per il genere del paesaggio.
Egli decise di offrire un panorama completo del suo sviluppo, secondo istanze di esemplarità e unitarietà quali esigevano i valori risorgimentali appresi in famiglia (il padre e lo zio si erano distinti nella seconda guerra d’indipendenza del 1859, che aveva sancito la fine dei ducati parmensi), e secondo quei diversi stili delle scuole regionali a partire dai quali avrebbe dovuto formarsi un’arte propriamente italiana, la cui fondazione si era posta, fin dal 1870, fra le priorità del nuovo Stato unitario.
A partire dal 1912, grazie a una preparazione da autodidatta sul campo e alla lettura di riviste e di pubblicazioni d’arte (ancora presenti nella sua biblioteca lasciata alla galleria), iniziò a muoversi anche indipendentemente da consiglieri e amici.
Mediante un’oculata gestione delle proprie finanze, poté acquistare a ritmo incalzante opere di artisti delle diverse regioni italiane. Le sue scelte possono essere spesso relazionate al riconoscimento pubblico di un artista (uscita di una monografia, di un articolo su Emporium o il successo di un’esposizione, come nel caso di Intorno al paralume di Giuseppe De Nittis, acquistato nel 1914 alla Commemorativa dedicata al pittore di Barletta dalla Biennale di Venezia). Nella sua vicenda collezionistica alcuni aspetti sono particolarmente interessanti: l’autonomia di giudizio nell’acquisto di opere di artisti non apprezzati dai suoi più fidati consiglieri (per esempio, Giacomo Grosso, criticato da Marco Calderini); la lunga durata di alcune trattative (oltre un anno per le Fumatrici di oppio di Gaetano Previati, acquistato nel 1913, e per la Moschea di Thulum di Alberto Pasini, comperata nel 1914); il lento ingresso nella raccolta di artisti piacentini, da lui messi sullo stesso piano degli altri emiliani (con l’eccezione di Stefano Bruzzi); l’acquisto di opere per soccorrere gli artisti stessi, oppure amici e persone stimate (da Francesco Ghittoni a Gian Battista Galizzi, militare di stanza a palazzo Farnese); la frequentazione assidua degli atelier (per esempio, di Giulio Aristide Sartorio a Roma, di Arturo Rietti e Attilio Andreoli a Milano, di Pietro Fragiacomo a Venezia, di Giuseppe Casciaro a Napoli). A questi si aggiungano la rinuncia ad alcuni capolavori dal prezzo eccessivo (da William Turner ad Alexandre-Gabriel Decamps, consigliati da Leandro Ozzola, che lo spinse ad acquistare opere di stranieri) e la disponibilità alla permuta (nel 1930 ottenne Il capo di Silvio Bicchi in cambio di un dipinto di Francesco Paolo Michetti comperato nel 1916). Va inoltre registrato lo scarso interesse per l’unicità del pezzo, che a suo parere avrebbe potuto essere replicato in più esemplari nel timore di possibili distruzioni, come rivela un carteggio inedito in fase di studio.
Oltre ai consigli di Pennaroli, la cui morte nel luglio del 1919 gli arrecò un profondo dolore, si avvalse di quelli di molti altri esperti e appassionati, soprattutto piacentini: Laudadeo Testi, soprintendente alla Galleria di Parma, che gli raccomandò Amedeo Bocchi; l’avvocato Adolfo Cogni, con studio a Milano; lo scultore Pier Enrico Astorri, che lavorava a Roma; l’architetto Giulio Ulisse Arata, anch’egli spesso nell’Urbe. Proprio a quest’ultimo affidò la progettazione di una nuova galleria destinata a custodire la propria raccolta. Tra gli anni Dieci e Venti egli rinunciò infatti a mantenerla nel proprio palazzo, troppo angusto, anche per l’eccessivo impegno che gli richiedevano le crescenti richieste di visita e per il timore di accogliere in casa amatori d’arte più curiosi che sinceri.
In un primo tempo pensò di trasferirla in un edificio storico (considerò via via i palazzi Fogliani sul Corso, Fogliani in via S. Giovanni, Suzani in via Cavour e infine Nasalli in piazza di S. Martino in Foro). Come chiarisce nel suo diario, scartò tali opzioni a causa dell’insufficiente o errata illuminazione delle sale, ovvero dell’impossibilità di creare un percorso omogeneo in un edificio preesistente, risolvendosi per un contenitore originale progettato da Arata su sue precise indicazioni. Scartò anche l’ipotesi di trasferire la raccolta all’interno di palazzo Farnese, che si voleva convertire in un museo civico.
Grazie alle aperture zenitali, la nuova sede di Arata avrebbe valorizzato dipinti, disegni, incisioni e sculture, allestiti secondo le scuole regionali, con alcune eccezioni: una sala dedicata ad Antonio Mancini, due con opere di Antonio Fontanesi, una riservata ai pittori novecenteschi, una ai pittori stranieri, e poi gli anditi, la rotonda e le antisalette per le sculture e le incisioni. La pianta di tipo chiesastico, con un chiaro riferimento alla cappella di palazzo Farnese di Piacenza nel salone d’onore, oltre a ricordare l’antica destinazione religiosa del lotto, concesso gratuitamente dal Comune di Piacenza, doveva evocare secondo Ricci Oddi l’idea di un «tempio» dedicato all’arte.
Dopo aver scritto, il 6 marzo 1924, una succinta lettera al sindaco di Piacenza, Giacomo Lanza, nella quale incaricava Arata e il notaio Torquato Vitali di seguire, per suo conto, le trattative con il Comune, il progetto si concretizzò rapidamente: il Consiglio comunale approvò l’acquisto dell’area un tempo occupata dal monastero di S. Siro e il 22 novembre ne liquidò i proprietari. Il 27 dicembre venne steso l’atto di donazione e fondazione presso il notaio Camillo Maccagni, alla presenza di Giuseppe, del cugino Cesare Ricci Oddi e del presidente dell’Associazione amici dell’arte, Emilio Morandi.
Subito la notizia si diffuse ben al di là dei confini provinciali, con articoli su riviste e quotidiani nazionali (L’Illustrazione italiana, Ars Nova e Il Secolo XX), che sottolinearono la capacità del collezionista di dare concretezza al sogno di una vita. Lo scrittore, giornalista e critico d’arte Raffaele Calzini (1924) si soffermò sulla natura della raccolta: «Io non conosco collezione privata italiana di opere pittoriche degli ultimi cinquant’anni fatta con maggiore scienza, con miglior gusto e con più ricchezza di questa destinata a divenire una galleria pubblica di grande interesse».
Il progetto non fu straordinario tanto per tipologia, ove si considerino i casi analoghi di passaggio di collezioni dal privato al pubblico nelle vicine Parma, Reggio Emilia e Cremona, quanto piuttosto per la determinazione con cui fu mandato a effetto, per la natura stessa della raccolta – audace in una città di provincia – e nel valore di contributo rappresentato, in prospettiva, per Piacenza, destinata a divenire, negli intendimenti del collezionista, un riferimento obbligato in Italia. Per questo egli superò personali inclinazioni e preclusioni, con l’unica eccezione delle più dirompenti avanguardie come il cubismo e il futurismo, lontane dal suo habitus borghese e figurativo e fautrici di una rappresentazione dissonante, se non rivoluzionaria, della realtà. Se nel 1920 aveva acquistato Ritratto della madre di Umberto Boccioni – peraltro ancora distante dai risultati estremi e peculiari dell’artista –, lo aveva fatto per venire incontro all’amica Giuseppina Borghi Torelli.
Nel 1920 e nel 1922, inoltre, si era confrontato con le posizioni del fondatore del futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, che, invitato a tenere conferenze a Piacenza, aveva colpito duramente l’arte «passatista» amata e collezionata da Ricci Oddi.
Tra l’atto di fondazione della galleria e la sua apertura, nel 1931, continuò ad acquistare opere, cercando di offrire un panorama più completo della produzione di ogni artista. Inoltre, si fece strada in lui l’idea di allestire una sezione di bianco e nero con acqueforti e xilografie, in parte acquistate e in parte ricevute in dono dagli stessi artisti, desiderosi ormai di vedersi rappresentati in un contesto che si preannunciava prestigioso. Nel 1925 ottenne, per 30.000 lire, da Luigi Scopinich, Ritratto di signora di Gustav Klimt (purtroppo rubato nel 1997). Dal 1926, sull’onda della I Mostra del Novecento italiano a Milano, acquistò opere di Medardo Rosso, Aldo Carpi, Arturo Tosi, Libero Andreotti; nel 1928, spinto da Cogni e Carpi, si assicurò alcuni macchiaioli della raccolta di Enrico Checcucci in mostra alla galleria Pesaro (Cristiano Banti, Odoardo Borrani, Silvestro Lega e Raffaello Sernesi), presto raggiunti da Giovanni Fattori. Messi a disposizione degli Amici dell’arte alcuni spazi dell’ex monastero di S. Siro, iniziò ad acquistare i dipinti delle mostre ivi organizzate, come Vecchio ulivo di Michele Cascella nel 1927, diverse opere di Pietro Angelini nel 1928, Notturno in Val Susa di Angelo Rescalli nel 1930.
Il 30 aprile 1931, con regio decreto (n. 647), la galleria fu eretta in ente morale; il 27 agosto si insediò il primo consiglio di amministrazione. Ricci Oddi volle come primo direttore un artista ed esperto d’arte, Giuseppe Sidoli, che avrebbe mantenuto la carica sino al 1967. L’11 ottobre 1931 la galleria venne inaugurata dai principi di Piemonte, Umberto di Savoia e Maria José del Belgio, la presenza dei quali aveva attirato a Piacenza i corrispondenti dei principali quotidiani d’Italia. Ricci Oddi, restio al clamore, non partecipò, adducendo impegni di lavoro. Dopo l’apertura al pubblico, avvenuta il 28 ottobre, vi si recò tuttavia assiduamente, continuando a fare acquisti, o demandandoli ad Arata e a Leopoldo Montanari. Dal 1934, grazie ai fondi da lui messi a disposizione, la galleria procedette agli acquisti per proprio conto, affiancandoli a quelli dello stesso Ricci Oddi, che depositò in galleria anche opere tenute sino a quel momento presso di sé.
La morte, improvvisa, lo colse per strada il 23 ottobre 1937 alle 15.00 davanti all’albergo Croce Bianca. Domenica 25 ottobre la salma fu portata nella chiesa di S. Brigida per le esequie, quindi esposta in galleria. Il giorno successivo venne tumulata nella cappella di famiglia del cimitero urbano.
Nel testamento, redatto solo venti giorni prima, il 2 ottobre, Ricci Oddi, rimasto celibe, lasciava quasi tutti i suoi beni alla galleria, sperando di garantirle un’indipendenza economica, anche per futuri acquisti. La sua speranza s’infranse contro la svalutazione e il tracollo delle borse seguiti alla seconda guerra mondiale. Dopo la sua scomparsa, nel corso dei decenni, l’allestimento da lui voluto e approvato venne modificato.
Fonti e Bibl.: G. Aurini, La Galleria Ricci Oddi donata a Piacenza, in Ars Nova, marzo 1924, p. 131, e giugno 1924, pp. 261-263; R.O. Calzini, La Galleria Ricci Oddi di Piacenza, in Il Secolo, 10 aprile 1924, e in Libertà, 11 aprile 1924; S. Lopez, Il donatore perfetto (Il N.H. G. R. O.), in Libertà, 2 aprile 1924; E. Morandi, La Galleria d’arte moderna Ricci Oddi; l’atto di fondazione, in Strenna Piacentina, 1926, pp. 38-43; D. Manetti - I. Cinti, Galleria d’arte moderna Ricci-Oddi, Piacenza 1931, pp. 5-20; A.A., La morte di G. R. O., in Rivista di Piacenza, 1937, n. 5, pp. 263 s., e n. 6, pp. 317 s.; C.R.O., La morte di G. R. O., in La Scure, 24 ottobre 1937; S. Fermi, Necrologio di G. R. O., in Bollettino storico piacentino, XXXII (1937), 4, p. 150; A. De Francesco, G. R. O., in Strenna piacentina, 1938, pp. 201 s.; E. Cozzani, G. R. O., ibid., 1939, pp. 234-238; G.U. Arata - L. Ozzola, Galleria d’arte moderna Giuseppe Ricci Oddi, a Piacenza, Piacenza 1956, pp. 7-16; Diario inedito di G. R. O., a cura di F. Arisi, Piacenza 1986; F. Arisi, R. O. G., in Nuovo dizionario biografico piacentino (1860-1960), Piacenza 1987, p. 228; Id., Galleria d’arte moderna Ricci Oddi Piacenza, Piacenza 1988, pp. 9-39; Percorsi sinuosi. Viaggio nell’arte italiana dell’Ottocento e del Novecento (catal., Monza), a cura di S. Fugazza, Milano 1998, pp. 19-24; A. Malinverni, Nuovi materiali per la storia della Galleria Ricci Oddi, in Strenna piacentina, 2011, pp. 157-180; Id., Tra spirito borghese e identità nazionale: G. R. O. collezionista per la Nuova Italia, in Bollettino storico piacentino, CVII (2012), 2, pp. 336-353; Id., «La realtà dell’ideale». La Galleria R. O. nell’eco della stampa, ibid., CVIII (2013), 1, pp. 140-155; D. Gasparotto, Stefano Fugazza e il riallestimento della Galleria Ricci Oddi, ibid., CX (2015), 2, pp. 320-335.