Abstract
Si è partiti dalla considerazione che la nozione di giustizia amministrativa, di cui in questa sede si devono indicare gli elementi strutturali che la connotano specificamente, ha avuto una ricostruzione storica ambivalente, che è stata considerata, come effetto, proprio per tale ambivalenza, in senso lato, includendo in essa tutti i mezzi predisposti da un ordinamento giuridico, anch’esso mutevole nel tempo, per assicurare la conformità dell’azione amministrativa alla legge (tra i quali, in particolare per quanto interessa più da vicino i ricorsi amministrativi). Si è venuta così a configurare come una giurisdizione in senso oggettivo.
Però ad essa è venuta nel tempo a contrapporsi un ambito più ristretto, cui corrisponde una concezione soggettiva della giustizia amministrativa. Nel senso che la stessa consiste nei rimedi propriamente “giustiziali”; concezione questa che è prevalsa, trovando definitivamente conforto nella Costituzione. Al riguardo si è trattato di una lunga marcia verso questo approdo, di cui vengono individuate le tappe più salienti: a partire dalla legge abolitiva del contenzioso amministrativo del 1865, con l’attribuzione della cognizione dei diritti soggettivi al giudice ordinario (sistema cd. monistico) per proseguire verso un sistema dualistico con la creazione insieme a un giudice ordinario per i diritti soggetti di un giudice speciale per la tutela degli interessi legittimi del cittadino lesi dall’attività dell’amministrazione illegittima.
La partenza del sistema cd. dualistico si avrà con la nascita di un giudice amministrativo speciale, e cioè con la nascita della IV sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato.
Sarà poi la Costituzione a confermare il dualismo, attribuendo la stessa dignità, secondo i criteri di riparto, ai diritti soggettivi e agli interessi legittimi.
La tappa successiva sarà quella dell’istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali come giudici di I grado, prescritta dall’art. 125 della Cost. e conseguentemente facendo assumere al Consiglio di Stato il ruolo di giudice d’appello in seconda ed ultima istanza.
L’ultima tappa di questo percorso della giustizia amministrativa è stata segnata dall’emanazione del Codice sul processo amministrativo che si affianca, con lo stesso ruolo e dignità, al Codice di diritto processuale civile.
La giustizia amministrativa secondo Mario Nigro (Nigro, M., Giustizia amministrativa, V ed., a cura di Cardi, E.-Nigro, A., Bologna, 2000, 19–21), «è un’espressione polisensa ed ambigua che sta ad indicare un complesso di mezzi che un ordinamento giuridico appresta per poter assicurare la conformità dell’azione amministrativa alle leggi e, in certi casi, all’opportunità e alla ragionevolezza». Può assumere un significato tanto lato da diventare lo stesso diritto amministrativo, in quanto colto nel suo aspetto garantistico.
La nozione che lo stesso autore ripudia è tanto lata da non essere utile per indicare l’essenza dell’espressione attuale di “giustizia amministrativa” quale si è venuta configurando, pur essendo innegabile una stretta correlazione tra diritto amministrativo e giustizia amministrativa nel nostro Paese con l’istituzione, come si vedrà di seguito, di un giudice amministrativo speciale, distinto dal giudice ordinario. Perciò l’accezione lata della giustizia amministrativa che abbraccia anche i controlli amministrativi di legittimità e di merito e soprattutto i ricorsi all’interno dell’amministrazione pubblica, risponde più a una concezione oggettiva legata alla realizzazione dell’interesse pubblico, che a quella propria della giustizia amministrativa con riferimento alla posizione del cittadino nei confronti dell’amministrazione. Invece secondo l’accezione più ristretta, che ormai viene comunemente accolta dalla dottrina e dalla giurisprudenza, che chi scrive condivide per quello che può valere, «si designa comunemente il complesso di istituti attraverso i quali si svolge la tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione e per organi di giustizia amministrativa gli apparati giudiziari che a tale tutela provvedono» (Satta, F., Giustizia Amministrativa, III ed., Padova, 1997, 1 ss.).
Nella stessa direzione conviene Cassarino (Cassarino, S., Giustizia Amministrativa, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989) secondo cui in questa espressione sono racchiuse quelle garanzie, da qualcuno chiamate “giustiziali”, che consentono al privato e talvolta anche al soggetto pubblico di ottenere, in un conflitto che li contrappone, una pronuncia imparziale nei confronti della pubblica amministrazione che agisca in posizione di supremazia.
Infine, l’accezione più ristretta della giustizia amministrativa in senso soggettivo ha trovato il conforto definitivo della Costituzione (artt. 24 e 113 Cost.) che è stata successivamente sviluppata nel Codice del processo amministrativo approvato con d.lgs. 2.7.2010, n. 104, che oggi costituisce, come ha riconosciuto la giurisprudenza più recente del Cons. St., A.P., 7.4.2011, n. 4, la fonte generale di disciplina del processo amministrativo. Processo che ha realizzato, portandolo a compimento, per altro perfettibile, l’ideale dello Stato di diritto su alcuni presupposti tra i quali rientra una tutela giurisdizionale completa ed effettiva nei confronti della pubblica amministrazione (Clarich, M., Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2013, 465-492).
La vicenda storica ed istituzionale del contenzioso amministrativo è stata influenzata in Italia dalla Francia il cui sistema del contenzioso, già ivi previgente prima della rivoluzione del 1789 e poi successivamente confermato, consisteva in un complesso di organi: Consiglio del Re prima e Consiglio di Stato dopo, intendenti di Finanza, Camere dei Conti, ecc. (si veda, sul punto, Consiglio di Stato)
Trattavasi di organismi dipendenti in vario modo dal sovrano (amministrazione contenziosa), in qualche misura distinti dagli organi di amministrazione attiva, che comunque non potevano considerarsi giudici in senso proprio. Questi ultimi dovevano occuparsi solo delle controversie tra privati e ciò in quanto oltralpe, con un’espressione notissima, era stato icasticamente ritenuto che «giudicare l’amministrazione è ancora amministrare».
Tale sistema era diffuso negli stati preunitari italiani, ma parimenti esulava completamente dal suindicato contenzioso qualsiasi indagine sul contenuto del potere e quindi di far valere un interesse del privato che dal potere amministrativo poteva essere stato leso. Anzi, la dottrina francese del contenzioso, seguita in questo anche dalla scienza giuridica italiana e meridionale in particolare, utilizzava la distinzione tra diritti ed interessi per segnare il confine tra amministrazione pura e amministrazione giustiziabile e quindi tra materie suscettibili o meno di sindacato giurisdizionale.
Tale sistema nello Stato unitario fu criticato poiché, secondo le ideologie liberali, in linea di principio si era contrari alla conservazione delle giurisdizioni locali.
Emerse come vessillifero della scelta abolitiva del contenzioso il giurista Pasquale Stanislao Mancini che con un suo discorso alle Camere del giugno 1864 portò all’abolizione del vigente contenzioso da lui definito “instrumento” del dispotismo (Abbamonte, G.-Laschena R., Giustizia Amministrativa, in Tratt. Santaniello, XV, Padova, 1997, 5-6).
Abolito il sistema del contenzioso di cui si è detto, con l’Unificazione nazionale proclamata nel 1861 sorse la necessità di riordinare la materia della giustizia amministrativa conformemente alla visione unitaria dello Stato di diritto secondo cui la giustizia non può essere elargita per grazia sovrana, ma deve essere assicurata da un giudice in senso proprio, cioè terzo, come si è detto con l’uso di una terminologia successiva.
La legge fondamentale 20.3.1865 n. 2248 All. E, intitolata come abolitrice del contenzioso amministrativo, ancora oggi definisce e stabilisce il fondamento e i limiti della giurisdizione del giudice ordinario, ma ponendo limiti rigidi ai suoi poteri decisori in ossequio al principio della divisione dei poteri (art. 2, l. n. 2248/1865). Il successivo art. 4 prescrive infatti che «l’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative». Il che significa che il giudice ordinario non poteva emanare sentenze costitutive sotto forma di annullamento, revoca o modifica o più in generale, come sarà confermato dalla sua giurisprudenza, di sostituzione diretta o indiretta della volontà espressa dall’amministrazione con l’atto amministrativo. Invece l’art. 5 successivo, al positivo, prevede che «le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi». Al giudice ordinario viene così attribuita la possibilità di emanare nei confronti dell’amministrazione soltanto sentenze dichiarative (o di mero accertamento) che conducano alla disapplicazione del provvedimento lesivo del diritto soggettivo che sia in contrasto con la legge, disapplicazione, per altro limitata, alle singole controversie delle quali il giudice è stato investito.
Si trattò, dunque, di una svolta radicale, specie per come la legge venne applicata dal giudice ordinario, che portò però ad una situazione paradossale nella quale il cittadino si trovò meno tutelato nei suoi rapporti con l’amministrazione che al tempo del “contenzioso” per una serie di fattori, che qui è superfluo enumerare, stante l’assenza di tutela giurisdizionale degli interessi individuali diversi dai diritti soggettivi.
In conclusione con detto intervento del legislatore la giurisdizione del giudice ordinario trovava applicazione solo per gli atti di gestione e non per quelli d’imperio dell’amministrazione (Clarich, M., op. cit., 468). Questa situazione non poteva durare.
Si aprì quindi un dibattito politico e dottrinario che vide questa volta come protagonista Silvio Spaventa che, con un celeberrimo discorso tenuto a Bergamo il 7 maggio 1880, sostenne, con la sua autorità di studioso eminente e politico di rilievo, l’imprescindibile esigenza di giustizia nell’amministrazione, mediante l’istituzione di un giudice amministrativo che egli aveva individuato nell’istituenda IV Sezione del Consiglio di Stato, come organo di tutela della giustizia nell’amministrazione.
Il rilievo fu tale che sfociò nella l. 31.3.1889, n. 5992, che istituì la IV Sezione del Consiglio di Stato, la quale, in aggiunta alle tre precedenti di detto organo consultivo, veniva investita della competenza a decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge contro gli atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali e giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione od all’attribuzione contenziosa di corpi o collegi amministrativi. Il rilievo di quel discorso, peraltro, è stato tale da essere stato, oltre che da detta legge, testualmente recepito negli artt. 100 e 103 Cost., come si vedrà.
La natura giurisdizionale permaneva incerta, considerando che la l. n. 5992/1889 non aveva operato un superamento completo della legge del 1865 che non era stata abrogata.
Sarà solo la l. 7.3.1907, n. 42 a sancirne in modo definitivo la natura giurisdizionale istituendo la V Sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato, alla quale venne deferita, anche in alcune materie tassativamente individuate, la cd. giurisdizione di merito, nella quale il giudice amministrativo si sostituisce all’amministrazione e può esercitare un controllo che va oltre la legittimità del provvedimento impugnato che può concludersi con una pronuncia di rigetto o con la riforma dell’atto impugnato.
Si può dunque affermare che risale alla l. n. 5992/1889 l’instaurazione del sistema dualistico della giustizia amministrativa vigente, confermata dalla Costituzione: il giudice ordinario preposto alla tutela dei diritti soggettivi, il giudice amministrativo preposto alla tutela degli interessi legittimi.
Il R.d. 30.12.1923, n. 2848 istituì la cd. giurisdizione esclusiva in alcune materie (impiego pubblico, riconoscimento e trasformazione di enti pubblici, spese di spedalità, ecc.) nelle quali l’intreccio tra diritti soggettivi e interessi legittimi produceva una situazione di incertezza e consigliava dunque la devoluzione della tutela al giudice amministrativo, creando però negli anni successivi qualche problema e determinando perciò che la tutela di alcuni diritti soggettivi venisse affidata al giudice amministrativo.
Va però detto che la precedente giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sul pubblico impiego è stata successivamente modificata e, per effetto del d.lgs. 3.2. 1993, n. 29 con cui è stata privatizzata la gran parte dei rapporti di pubblico impiego, la giurisdizione su tali controversie spetta conseguentemente al giudice ordinario. È stata invece conservata tale giurisdizione per i rapporti di lavoro non contrattualizzati. Le disposizioni sul processo amministrativo furono accorpate e riordinate nel testo unico di cui al R.d. 26.6.1924, n. 1054.
Questa rilevantissima tappa nella vicenda storica della formazione della giustizia amministrativa è stata raggiunta con l’avvento della Costituzione il 27 dicembre del 1947, che in effetti non fu oggetto di attenzione in sede di Assemblea Costituente, ma è stata di fondamentale rilievo sul cammino della giustizia amministrativa La Costituzione non ha fatto altro che confermare il sistema in quel momento vigente, elevando al rango di norme costituzionali l’assetto risultante dalle leggi del 1865 e del 1889, nonché dall’opera della dottrina e della giurisprudenza amministrativa (Nigro, M., op. cit.).
In primo luogo, infatti, la Costituzione ha affermato il dualismo dei giudici (ordinario ed amministrativo) con competenza generale nei confronti della Pubblica Amministrazione, distinguendo il riparto di giurisdizione in base alla situazione soggettiva fatta valere ai fini della tutela richiesta (se di diritto soggettivo o di interesse legittimo). In coerenza con l’art. 24 Cost., l’art. 103, co. 1, Cost. stabilisce che «Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e in particolari materie indicate dalla legge anche dei diritti soggettivi». Norma questa che presuppone, dal punto di vista organizzativo della giustizia amministrativa, quella del precedente art. 100 Cost. che, come per il passato, prevede che «Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione» (art. 100, co. 1, Cost.) e che, richiamandone la natura giurisdizionale nella sua essenza «La legge assicura l’indipendenza del Consiglio di Stato (e della Corte dei Conti) nei due istituti e nei loro componenti di fronte al Governo» (art. 100, co. 3, Cost.).
Va qui sottolineato che la Corte Costituzionale con la sentenza C. cost. 6.7.2004, n. 204 ha chiarito che con la locuzione «particolari materie» di cui all’art. 103 Cost. «devono intendersi le materie nelle quali la pubblica amministrazione agisce comunque come autorità», cioè come titolare di un potere amministrativo in senso proprio e che la tutela dei diritti soggettivi è ancillare rispetto a quella degli interessi legittimi.
Inoltre per indicare la zona di confine tra le due giurisdizioni generali, l’ultimo comma dell’art. 111 Cost. ha sancito che «Contro la decisione del Consiglio di Stato (e della Corte dei Conti) il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione» (art. 111, co. 8, Cost.). Ciò significa che detta disposizione assegna alla Corte di Cassazione a Sezioni Unite il compito di definire i limiti della giurisdizione amministrativa (soprattutto rispetto a quella ordinaria) a conferma di un sistema dualistico non paritario, ma che tutela il giudice amministrativo, il quale non è soggetto al controllo giurisdizionale della Corte di Cassazione per quanto concerne il vizio di violazione di legge, e che quindi limita la nomofilachia della Cassazione rispetto alla giurisdizione del Consiglio di Stato.
Va infine richiamato, con riferimento alla individuazione del campo assicurato costituzionalmente ai soggetti privati e talvolta pubblici nei confronti della pubblica amministrazione che agisce come autorità, che l’art. 113, co. 1-2, Cost., a completamento del sistema prevede che: «contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti» (come era accaduto nel passato regime autoritario: si pensi all’elasticità dei cd. atti politici); e che «la legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della Pubblica Amministrazione nei casi e per gli effetti previsti dalla legge stessa». Norma quest’ultima che è stata foriera di leggi che hanno favorito la tutela piena ed esaustiva degli interessi dei cittadini.
La Costituzione di per sé non determinò nell’immediato mutamenti significativi nel quadro legislativo in materia di giustizia amministrativa. Tuttavia, ancor prima dell’attuazione della legge istitutiva dei TAR – di cui si dirà subito – rafforzò il ruolo del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. Si segnalano al riguardo l’istituzione della VI Sezione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale nel 1948, avviandosi così il ridimensionamento della funzione consultiva. Inoltre, in ossequio allo Statuto della Regione Siciliana con autonomia speciale, riconosciuta con l. cost. 26.2.1948, n. 2, fu istituito il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana (d.lgs. 6.5.1948, n. 654) per l’assolvimento distinto e garantito delle funzioni giurisdizionali rispetto a quelle consultive. Conclusivamente, ora il Consiglio di Stato è composto, con l’aggiunta recente di una terza sezione, di quattro sezioni giurisdizionali (II, IV, V, VI), di due sezioni consultive (I e II) e di una più recente sezione atti normativi anch’essa consultiva.
Dopo l’avvento della Costituzione – che all’art. 125, co. 2 ha statuito che «Nelle Regioni sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo l’ordinamento stabilito da legge della Repubblica. Possono istituirsi sezioni con sede diversa dal capoluogo della Regione», – finalmente è intervenuta, a distanza di un quarto di secolo, la l. 6.12.1971, n. 1034 che ha realizzato il più rilevante intervento della Costituzione concernente la giustizia amministrativa nel nostro Paese, trasformandone il volto sul piano dell’efficienza e dell’adeguatezza della risposta di giustizia. Indubbiamente le finalità conseguite e confermate nell’arco di oltre un trentennio fanno perdonare il ritardo della legge di attuazione dell’art. 125 Cost., per il merito indiscutibile di aver configurato i Tribunali Regionali Amministrativi (TAR) come giudici di primo grado e, conseguentemente, il Consiglio di Stato come giudice di secondo ed ultimo grado. Inoltre ha ampliato le materie devolute alla giurisdizione esclusiva in essa includendo quelle relative ai rapporti di concessione di beni e servizi pubblici, ad esclusione delle controversie del giudice ordinario concernenti le indennità e i canoni di concessione che restavano attribuite al giudice ordinario, ha attribuito al giudice amministrativo nelle materie devolute alla propria competenza esclusiva e di merito il potere di emanare sentenze di condanna, limitate peraltro al pagamento della somma della quale l’amministrazione fosse debitrice. Ha eliminato il previo esperimento di ricorsi amministrativi, stabilendone il principio della facoltatività ai fini della proposizione del ricorso giurisdizionale (Clarich, M., op. cit., 471-472).
Va qui sottolineato che la l. 27.4.1982, n. 186, ancora vigente, contiene una serie di disposizioni organizzative per il funzionamento dei TAR e del Consiglio di Stato: articolazione dei TAR in più sezioni anche distaccate; composizione dei collegi giudicanti; istituzione del Consiglio di Presidenza Unitario come organo cui competono nomina, status e carriera dei magistrati e del personale di segreteria.
Una riforma strutturale del processo amministrativo, che è di rilievo centrale quando si espongono le linee portanti della giustizia amministrativa, è costituita dalla l. 21.7.2000, n. 205, che ha voluto accrescere l’effettività, a lungo perseguita come obiettivo primario dal giudice amministrativo, prevedendo alcuni riti acceleratori, ridisegnando la tutela cautelare, vero e proprio punto di forza per quel bene giuridico che è il fattore tempo, disciplinando il giudizio sul silenzio dell’amministrazione, che talvolta può mascherare l’ostruzionismo, specie quando si fa valere da parte del cittadino un cd. interesse pretensivo, cioè volto all’emanazione di un provvedimento che può costituire nei confronti del ricorrente una pretesa volta a conseguire un bene della vita, rafforzando i poteri istruttori e decisori del giudice amministrativo e ampliando le materie devolute alla giurisdizione esclusiva. Queste norme sono state tutte recepite organicamente nel Codice del processo amministrativo di cui si dirà in seguito.
Se questo è il primo obiettivo della l. n. 205/2000 conviene soffermarsi sul secondo, relativo all’azione per il risarcimento del danno derivante dalle lesioni di interessi legittimi a seguito dello storico revirement della Corte di Cassazione con la notissima sentenza Cass., S.U., 22.07.1999, n. 500, quando nel passato il giudice ordinario l’aveva escluso.
L’art. 7, co. 4, l. n. 205/2000 ha posto rimedio a questa situazione stabilendo che l’azione risarcitoria relativa alla lesione di interessi legittimi rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, così integrando la tradizionale azione di annullamento. Tale azione risarcitoria consente anche la reintegrazione in forma specifica.
Questa norma è stata ovviamente confermata dal Codice del processo amministrativo. Si è avuta così la trasformazione del giudice amministrativo da giudice del solo annullamento degli atti amministrativi illegittimi a giudice anche del risarcimento del danno conseguente.
Il Codice del processo amministrativo è stato adottato con il d.lgs. 2.7.2010, n. 104 in attuazione dell’art. 44 l. 18.6.2009, n. 69 recante delega che attribuiva ad una commissione tecnica presso il Consiglio di Stato il compito di elaborare una bozza di articolati per il riordino del processo amministrativo.
Questo Codice costituisce il punto di arrivo dell’evoluzione del processo amministrativo nel corso dei decenni a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, assumendo una struttura molto articolata con la previsione di più azioni proponibili. Il Codice, per la prima volta unifica in un solo corpo normativo la disciplina del processo amministrativo, abrogando tutte le norme precedenti. Nondimeno, come è stato affermato sin dai primi commenti, il Codice con i suoi 137 articoli ha una struttura snella e contiene molti rinvii espressi a singole disposizioni del codice civile e, per quanto non disciplinato dal Codice, alle disposizioni di quello di procedura civile «compatibili o espressioni di principi generali» (art. 39 c.p.a. rubricato “Rinvio esterno”).
Trattasi di un punto di arrivo, che può però anche essere foriero di ulteriori sviluppi, specie con riferimento ad evoluzioni della dottrina e della giurisprudenza.
Pertanto, sulla base di detto codice si parlerà in questa sede, come già si è avuto modo di dire, dell’architettura essenziale della giustizia amministrativa.
Come si è già accennato, una specificità del sistema di giustizia amministrativa italiana consiste nella presenza di una duplicità di giudici ordinario e amministrativo competenti a dirimere le controversie tra cittadini e pubblica amministrazione. Il criterio di riparto, come è stato riaffermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza C. cost. n. 204/2004, è quello delle situazioni giuridiche soggettive fatte valere in giudizio: diritti soggettivi, devoluti alla giurisdizione del giudice ordinario; interessi legittimi devoluti alla giurisdizione del giudice amministrativo.
L’art. 7, co. 1, c.p.a., riprendendo l’art. 103 Cost., attribuisce in termini generali alla giurisdizione amministrativa tutte le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi, escludendo così che le stesse possano essere attribuite al giudice ordinario, ma deve trattarsi di controversie riguardanti provvedimenti, atti, comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio del potere, come ha chiarito la decisione della Corte Costituzionale n. 204/2004.
Il riparto di giurisdizione confermato dalla Costituzione ha creato molte incertezze, proprio per la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, incerta talvolta o opinabile, distinzione alla quale la Corte di Cassazione ha tentato di porre criteri distintivi, quali quello tra esercizio del potere vincolato e potere discrezionale, tra carenza di potere ed esercizio del potere, tra diritti comprimibili e non, per i cui approfondimenti si rinvia ai testi di giustizia amministrativa.
È di rilievo ora considerare che fino ad anni recenti le due giurisdizioni generali venivano ritenute incomunicabili, perciò ai fini della tutela delle ragioni dei ricorrenti, l’errore nell’individuare il giudice competente poteva essere fatale per la scadenza dei termini per ricorrere, in quanto la pronuncia sul difetto di giurisdizione, arrivata in ritardo, impediva al titolare di una situazione giuridica soggettiva di avviare un nuovo giudizio davanti al giudice competente.
Il codice amministrativo, in conformità con gli indirizzi più recenti della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, ha superato questo problema canonizzando il principio della “translatio iudicii”. A tal fine è stato stabilito che se la giurisdizione è declinata dal giudice amministrativo in favore del giudice ordinario o viceversa sono «fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali delle domande se il processo è riproposto al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione entro il termine di tre mesi dal suo passaggio in giudicato» (art. 59, l. 18.6.2009, n. 69).
Il dualismo delle due giurisdizioni generali (amministrative e ordinaria) di cui si è detto non è però perfettamente paritario, ma è a prevalenza istituzionale del giudice ordinario (Clarich, M., op. cit., 474) poiché sul riparto di giurisdizione si pronuncia la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che è l’organo di vertice del giudice ordinario come giudice dei conflitti, di cui la Costituzione ha implicitamente preso atto. E ciò a differenza del sistema francese nel quale la parità istituzionale tra giudice ordinario e giudice amministrativo è garantita dal fatto che sul riparto di giurisdizione si pronuncia il “Tribunale dei conflitti” composto in misura paritaria fra giudici ordinari e giudici amministrativi.
Sul riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo è stata mantenuta ferma la giurisdizione del giudice ordinario, come giudice dei conflitti, in base al già richiamato art. 111, ult. co., Cost., che, nel definire i rapporti tra i due ordini giudiziari, preclude la cd. funzione nomofilattica della Corte di Cassazione esercitata nei confronti di tutti i giudici ordinari, essendo stato ammesso, da detta norma, per le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti il ricorso in Cassazione per «i soli motivi inerenti alla giurisdizione» e non anche per violazione di legge.
La disposizione costituzionale preclude dunque la funzione cd. nomofilattica che la Corte di Cassazione esercita nei confronti di tutti i giudici ordinari. Pertanto il dualismo del sistema di giustizia amministrativa italiano non può definirsi perfettamente paritario, a differenza del sistema francese nel quale la parità istituzione tra giudici ordinari e giudici amministrativi è garantita dal Tribunal des conflits, composto in misura paritaria da giudici ordinari e giudici amministrativi (Clarich, M., op. cit., 474).
Correttamente, quindi, il nuovo codice non si è pronunciato sul tema dei conflitti di giurisdizione.
In ordine alla giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della P.A. va osservato, per contrapposizione rispetto al sistema dualistico vigente, che al giudice ordinario nei confronti della P.A. spettano anche una serie di fattispecie, che in parte attenuano la difficoltà del riparto così come configurato con la distinzione tra diritti soggetti ed interessi legittimi, tra i quali va ricordato il giudizio di opposizione alle sanzioni amministrative pecuniarie (l. 24.11.1981, n. 689). Delle controversie di lavoro concernenti il pubblico impiego già si è detto. Nelle controversie attribuite alla sua giurisdizione nei confronti della P.A. (in particolare per quelli concernenti i meri comportamenti) il giudice ordinario in linea di principio può emanare tutte le pronunce previste dal codice di procedura civile che siano in grado di offrire una tutela piena del diritto soggettivo.
Non è questa la sede per emettere considerazioni ed elaborare classificazioni di teoria generale del processo sulle singole azioni, né principi generali che attengano allo svolgimento del processo o alla legittimazione delle parti e principi generali relativi, per i quali si deve rinviare ai manuali sulla giustizia amministrativa e, talvolta, addirittura ai manuali di diritto amministrativo che, ancora di recente, comprendono nella trattazione, per la stretta inerenza al diritto sostanziale, anche la parte relativa alla giustizia amministrativa (in questa Enciclopedia si veda la voce Azioni nel processo amministrativo).
Sulla scorta dell’art. 7 c.p.a., la giurisdizione generale di legittimità si articola in giurisdizione generale di legittimità, esclusiva ed estesa al merito, alle quali si è fatto incidentalmente riferimento in precedenza. La giurisdizione di legittimità è la più importante ancora oggi, ai sensi del comma 4, in quanto interviene ogni qualvolta sorge una controversia relativa agli atti, provvedimenti o omissioni della P.A., lesivi di situazioni giuridiche di interessi legittimi. Trattasi di competenza generale che sta inoltre a significare che dalla stessa sono escluse solo quelle attribuite ad altre amministrazioni pubbliche specificatamente (ad esempio la Corte dei Conti).
Gli altri due tipi di giurisdizione hanno carattere speciale ed aggiuntivo, in quanto l’ambito di cognizione e i poteri decisori vanno ad cumularsi e ad integrare quelli caratteristici della competenza generale di legittimità.
La giurisdizione esclusiva, cui fa riferimento, come si è visto, anche l’art. 103, co. 1, Cost., consente al giudice amministrativo di conoscere anche le controversie nelle quali faccia questioni di diritti soggettivi. Di tali provvedimenti il nuovo codice pubblica un lungo elenco all’art. 133. Però la cognizione dei diritti soggettivi nell’ambito della competenza esclusiva non è integrale, essendo riservate all’autorità giudiziaria ordinaria le questioni pregiudiziali concernenti lo Stato e la capacità dei privati e la risoluzione dell’incidente di falso (art. 8, co. 2, c.p.a.).
La giurisdizione di merito è richiamata dall’art. 7, co. 6, c.p.a. che rinvia all’art. 134 c.p.a., per l’individuazione di cinque casi tassativi. Nella giurisdizione di merito, che appare recessiva, il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione.
Tali azioni possono essere di diversi tipi: di annullamento, di condanna al risarcimento del danno, di adempimento avverso il silenzio, di nullità, di accertamento per l’efficienza della pubblica amministrazione (su cui si veda Azioni nel processo amministrativo).
L’art. 29 del Codice del processo amministrativo disciplina l’azione di annullamento del provvedimento illegittimo, che ha natura costitutiva ed è l’azione principale per la tutela degli interessi legittimi lesi da un provvedimento amministrativo.
La sentenza di annullamento, nell’interpretazione giurisprudenziale che ha recepito l’elaborazione della dottrina (Nigro, M., op. cit., 229 ss.) produce tre effetti dell’annullamento: retroattività, effetto ripristinatorio ed effetto conformativo che è particolarmente rilevante nei casi di interessi legittimi pretensivi, in cui l’ampiezza dell’effetto si determina in funzione dei motivi del ricorso.
Una seconda azione che ora va singolarmente considerata – di cui già si è detto prima incidentalmente – è quella di condanna per il risarcimento del danno provocato da un atto amministrativo illegittimo che ha leso un interesse legittimo.
Può essere proposta in collegamento con l’azione di annullamento o in modo autonomo entro il termine di 120 giorni dal fatto o dalla conoscenza del provvedimento che lo ha provocato (art. 10, co. 3, c.p.a.) e ciò in difformità dal termine ben più lungo, quale è quello quinquennale di prescrizione previsto dall’art. 2043 c.c..
Inoltre il Codice del processo amministrativo contiene una disposizione molto controversa volta a penalizzare il ricorrente che scelga di proporre l’azione di risarcimento senza proporre insieme (o averla proposta prima) l’azione di annullamento. Infatti, in sede di determinazione dell’ammontare del risarcimento, il giudice amministrativo deve escludere i danni che non si sarebbero prodotti usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso i mezzi di tutela amministrativa (art. 30 c.p.a.).
L’azione avverso il silenzio con accertamento della fondatezza della pretesa prima della codificazione era stata introdotta sulla base della giurisprudenza “pretoria” del giudice amministrativo ed ha rappresentato una conquista del giudice amministrativo verso l’effettività della tutela giurisdizionale. La l. 7.8.1990, n. 241 aveva a sua volta recepito l’istituto, ma con effetto meramente formale nel senso che si poteva solo ordinare all’amministrazione di provvedere. Il successivo art. 31, co. 3, c.p.a. ha dato un contenuto effettivo all’azione nel senso che, se richiesto in tal senso, il giudice si può anche pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio con una sentenza di condanna ad un adempimento specifico, sempre che si tratti di attività vincolata, che non sussistano ulteriori margini di discrezionalità e che non debbano essere compiute ulteriori attività istruttorie.
Accanto all’azione di condanna al risarcimento del danno si è posta nel recente passato la questione se fosse accessibile nel processo amministrativo, superando il principio della tassatività delle azioni comprensibili nel giudizio di cognizione, l’azione di adempimento.
Il codice non l’aveva recepita nella formulazione originaria, ma poi tale azione, a somiglianza di analoga vigente nell’ordinamento tedesco, è stata recuperata nel codice ad opera del secondo correttivo, approvato con d.lgs. 14.9.2012, n. 160, che attribuisce al giudice amministrativo, integrando l’art. 34 c.p.a., anche il potere di condannare l’amministrazione ad adottare le misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio. Ciò ha consentito alla giurisprudenza amministrativa di ritenere ammessa anche l’azione di adempimento.
Nel processo di cognizione può anche essere proposta l’azione per la nullità del provvedimento impugnato in relazione ai vizi di cui all’art. 21 septies, l. n. 241/1990 entro 180 giorni. Scaduto questo termine, il giudice può comunque rilevare la nullità dell’atto ex officio.
Inoltre, al fine di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio, i titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori possono agire in giudizio nelle ipotesi di violazione dei livelli standard di qualità delle prestazioni previste per le certificazioni agli utenti (d.lgs. 20.12.2009, n. 198). Tale azione mira a costringere l’amministrazione a raggiungere o a ripristinare i livelli delle prestazioni stabilite in atti amministrativi generali.
Detta azione, di grande rilievo per la celerità degli interventi del giudice amministrativo, dà origine ad una fase ulteriore nell’ambito del processo di cognizione in quanto consente di chiedere al giudice provvedimenti interinali nei casi in cui vi sia la necessità per il ricorrente di evitare i danni gravi ed irreparabili che potrebbe subire in attesa della sentenza definitiva (su cui si veda Tutela cautelare [dir. amm.]).
Questo tipo di azione, previsto fin dalla legge del 1889 fu rafforzato notevolmente in via giurisprudenziale, prima dalla l. n. 205/2000 ed infine con il Codice del processo amministrativo, artt. 56-82. La relativa misura cautelare può avere vari contenuti a discrezione del giudice, ed in tal caso su sollecitazione e prospettazione del ricorrente (principio della atipicità delle misure cautelari) e può anche consistere, se del caso, in una misura propulsiva che obbliga l’amministrazione a provvedere con urgenza ed in conformità (ad esempio, riesame di un provvedimento autorizzativo, sospensione di una demolizione, esclusione di un candidato da un concorso e via di seguito). L’accoglimento della richiesta cautelare è subordinato all’esistenza di un fumus boni iuris ed alla sussistenza del periculum in mora prima della sentenza futura. L’ordinanza che la prescrive deve essere motivata. È ammesso ricorso in appello contro la misura suddetta. Di regola viene richiesta al collegio, che si pronuncia celermente e che può anche definire la causa in tempi brevi, in occasione dell’esame cautelare. Nel caso di estrema gravità e urgenza la misura cautelare è chiesta al Presidente del Collegio o ad un suo delegato che provvede immediatamente.
L’azione esecutiva che dà origine al giudizio di ottemperanza (su cui si veda Giudizio di ottemperanza) è proposta a valle del processo di cognizione nel caso in cui l’amministrazione non esegua la sentenza del giudice amministrativo o del giudice civile o un lodo arbitrale emessi nei confronti di una Pubblica Amministrazione che siano passati in giudicato (art. 112 c.p.a.). Va osservato che spesso la sentenza di annullamento del processo di cognizione è auto-esecutiva, nel senso che non richiede alcuna attività da parte dall’autorità soccombente.
In caso di mancata esecuzione della sentenza il ricorrente può esperire il giudizio di ottemperanza, il cui oggetto è la verifica se la P.A. abbia o meno adempiuto all’obbligo nascente dal giudicato. L’inadempimento può consistere, oltre che nell’inerzia totale o parziale, nell’oblazione di atti amministrativi elusivi del giudicato.
Nel giudizio di ottemperanza il giudice amministrativo esercita una giurisdizione di merito che gli consente di sostituirsi all’Amministrazione rimasta inadempiente. Così, ad esempio, se l’amministrazione è tenuta ad emanare un’autorizzazione o a riconsegnare un terreno espropriato illegittimamente, il giudice può prescrivere la modalità esecutiva. Il giudice può addirittura provvedere direttamente o tramite un delegato, il cd. commissario ad acta (art. 112 c.p.a.).
L’azione può essere proposta entro 10 anni dal giorno in cui si è formato il giudicato.
Delineata nei paragrafi precedenti la struttura essenziale della giustizia amministrativa e in particolare delle azioni proponibili nel processo amministrativo, si ritiene, conclusivamente, di indicarne sommariamente i principi informatori come disciplinati dal nuovo codice, che, va subito detto, non ha rivoluzionato le regole del processo vigenti prima della sua entrata in vigore, ma le ha in parte aggiornate e perfezionate, prendendo atto di quella giurisprudenza pretoria che ha sempre connotato il giudice amministrativo.
Infatti, in primo luogo si tratta sempre di processo di parti, il che riflette le caratteristiche di un giudizio di impugnazione.
Con l’art. 1 del Codice si sottolinea il principio di “effettività” della tutela giurisdizionale, in conformità «ai principi della Costituzione e del diritto europeo» (art. 1 c.p.a.).
Comunemente il processo amministrativo è retto dal principio della domanda, attraverso l’indicazione del provvedimento impugnato (art. 40, co. 1, lett. b), c.p.a.), attraverso la formulazione dei motivi in modo specifico, in base ai principi del chiesto e del pronunciato (art. 112 c.p.c.).
Rilievo particolare assume nel processo amministrativo la legittimazione a ricorrere di chi è legittimato a far valere in giudizio una determinata situazione soggettiva, in applicazione dell’art. 100 c.p.c..
Pertanto nessuno può intervenire nel giudizio amministrativo per far valere una situazione di un altro soggetto. Al riguardo nel processo amministrativo si è fatta questione sugli interessi super individuali diffusi o collettivi. Pertanto la legge ha accordato in determinati ambiti la legittimazione a ricorrere di determinate associazioni o enti pubblici. Da ultimo la legge ha attribuito, con qualche critica da parte della dottrina, all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato la legittimazione a ricorrere davanti al giudice amministrativo avverso i provvedimenti generali e individuali e i regolamenti «che violano le norme a tutela della concorrenza e del mercato» (art. 22 bis, l. 10.10.1990, n. 287).
Il processo amministrativo inoltre è retto dai principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo, nonché dal principio dispositivo.
Sono parti necessarie il ricorrente e l’amministrazione nonché il (o i) controinteressato, cioè il soggetto che avrebbe un nocumento nel caso di accoglimento del ricorso, il quale può anche proporre ricorso incidentale, impugnando lo stesso provvedimento (o anche altro provvedimento) e proponendo motivi che, ove accolti, farebbero venir meno una pronuncia sul ricorso principale (art. 42 c.p.a.).
In aggiunta alle parti necessarie, nel processo amministrativo possono trovare ingresso parti c.d. eventuali, cioè gli intervenienti volontari ad adiuvandum (a sostegno dell’amministrazione), o ad opponendum (a sostegno dell’amministrazione resistente).
Un altro principio del processo amministrativo, che riguarda l’istruzione probatoria, è il “principio dispositivo”, che trova applicazione con alcune attenuazioni, secondo cui «spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni» (art. 64, co. 1, c.p.a.).
Quanto ai mezzi istruttori, che hanno assunto un grande rilievo nell’ultimo decennio, il giudice può anzitutto chiedere alle parti o ordinare a terzi di esibire in giudizio documenti; può disporre ispezioni, può ammettere la prova testimoniale ma solo in forma scritta (e di fatto ciò è accaduto assai raramente). Può assumere tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile esclusi l’interrogatorio formale e il giuramento (art. 63 c.p.a.) e, nel caso in cui l’accertamento dei fatti o l’acquisizione di valutazioni richiedano particolari competenze tecniche, il giudice può ordinare l’esecuzione di una verificazione (già prevista sin dagli albori del giudice amministrativo) o, se indispensabile, può disporre una consulenza tecnica.
Il giudice amministrativo ha, dunque, un accesso diretto ed autonomo al fatto e può sindacare se esso sia stato ricostruito in modo corretto nel provvedimento attraverso la figura sintomatica dell’eccesso di potere.
Tra i principi informatori del processo amministrativo vi è quello del giudizio d’appello, cioè del doppio grado di giudizio introdotto dall’art. 125 Cost. ed attuato in concreto per effetto della l. n. 1034/1971. Conclusivamente si può dire che il giudizio d’appello ha fatto cambiare volto alla giurisdizione amministrativa sul piano della risposta adeguata di giustizia. Ormai è pacifico che si tratta di giudizio di appello senza limitazione di motivi e che il Consiglio di Stato, di regola, se accoglie il ricorso decide della controversia nel merito senza rimettere la questione al TAR competente. Infatti l’art. 105 c.p.a prevede la rimessione solo in casi eccezionali e tassativi.
Per completezza va notato che per quanto concerne la regione Siciliana a Statuto Speciale ed in forza di esso, avverso le decisioni del Tribunale Regionale vigente in quella Regione, con competenze identiche a quelle dei restanti Tribunali Regionali, l’appello deve essere proposto avanti al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, che per altro è presieduta da un presidente di Sezione del Consiglio di Stato.
Artt. 24, 25, 100, 101, 102, 103, 108, 111 (nel testo introdotto dalla l. cost. n. 2/1991), 113, 125, 134, Cost., VI disp. transitoria e finale;l. 20.3.1865, n. 2248, All. E (Abolizione del contenzioso amministrativo); c.p.c. approvato con R.D. 28.10.1940, n. 1443 e l. 31.3.1877, n. 3761, ivi trasfuso (Sui conflitti di attribuzione); l. 31.3.1889, n. 5992 (Istituzione della IV Sezione del Cons. St.); l. 7.3.1907, n. 62 (Istituzione della V Sezione Giurisdizionale del Cons. St.); l. 30.12.1923, n. 2840 (Istituzione della giurisdizione esclusiva); R.d. 26.6.1924, n. 1054 (Testo Unico leggi sul del Cons. St.); R.d. 17.8.1907, n. 642 (Regolamento di procedura avanti al Cons. St.); R.d. 21.4.1942, n. 444 (Regolamento per l’esecuzione delle leggi sul Cons. St.); R.d.lgs. 15.5.1946, n. 455, convertito in l. cost. 26.2.1948, n. 2 (Statuto della Regione Siciliana); d.lgs. 6.5.1948, n. 654 (norme per l’esercizio nella Regione Siciliana delle funzioni spettanti al del Cons. St.); l. 6.12.1971, n. 1034 (Istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali); d.P.R. 21.4.1973, n. 214 (Regolamento di esecuzione della l. 6.12.1971, n. 1034); d.P.R. 29.9.1973, n. 759 (Regolamento relativo agli artt. 1 e 4 del T.U. approvato con R.d. 26.6.1924, n. 1054); l. 24.11.1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale); l. 27.4.1982, n. 186 (Ordinamento della giustizia amministrativa e del personale di segreteria del Cons. St. e articolazione dei TAR in più sezioni); art. 4, l. 24.11.1981, n. 689 (Introduzione disciplina dell’azione risarcimento danni da lesione di interessi legittimi); l. 18.6.2009, n. 99 (Delega al Governo per il riordino del processo amministrativo); d.lgs. 2.7.2010, n. 104 – All. 1 (Codice del processo amministrativo).
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