Gli ebrei nella diaspora
Di origine greca, il termine «diaspora», «dispersione», è entrato nell’uso nel secolo scorso a definire la dispersione del popolo ebraico, in particolare quella avvenuta dopo la distruzione a opera dei romani del regno di Giuda, nel 70 d.C. In ebraico a indicare la diaspora si usa invece il termine galut, a forte connotazione negativa, che significa «esilio».
Gli ebrei si spargono nel Mediterraneo fin dal sec. 3°-2° a.C., non diversamente dai fenici e dagli altri popoli del Mediterraneo. A Roma si ha notizia già nel sec. 2° a.C. di una comunità stabile, che nella prima età imperiale era integrata e numerosa, di circa trentamila persone. A questa diaspora volontaria si sovrappone la dispersione forzata, dopo le guerre giudaiche del sec. 1° d.C. Ma sotto Caracalla, nel 212, gli ebrei diventano cittadini come gli altri popoli dell’impero. Solo il cristianesimo vittorioso, codificando nel sec. 4° la loro inferiorità, impone della diaspora la visione, tutta teologica, di un esilio punitivo.
Il primo millennio è un periodo denso di eventi per il mondo ebraico della diaspora, anche se assai scarsamente documentato. Di certo sappiamo che gli ebrei continuano a vivere sulle coste del Mediterraneo, in Spagna, in Provenza e in Italia meridionale, dove la Puglia e la Sicilia erano fitte di comunità. La storiografia è unanime nel sottolineare la centralità assunta, tra l’8° e il 9° sec., dalle comunità dell’Italia meridionale. È in Italia meridionale, infatti, che passarono i primi contatti con la cultura talmudica babilonese, è qui che si ebbero le prime esperienze compiute di vita culturale ebraica della diaspora (K.R. Stow, R. Bonfil). Ed è anche nell’Italia meridionale che, secondo alcuni interpreti, si sarebbe affermata nel sec. 9° la struttura comunitaria tipica della diaspora, non descritta in nessun passo talmudico (Y. Baer, S.W. Baron, R. Bonfil).
Poco sappiamo della diffusione della presenza ebraica verso il centro e il settentrione dell’Italia, avvenuta fra il 6° e il 12° sec., in località poste sulle grandi vie di comunicazione fluviali e in quel che restava delle città romane, uno spostamento verso il Nord che porta una parte degli ebrei italiani a trasferirsi nella zona renana intorno al 9°-10° sec., dando vita, insieme agli ebrei provenienti dalla Francia, alle comunità ebraiche ashkenazite (tedesche, da Ashkenazi, termine di origine biblica con cui veniva indicata in ebraico la Germania).
Del mondo ebraico tedesco la storiografia si è molto occupata. Questo è infatti, dopo quello dell’Italia meridionale, il secondo grande momento di fioritura della cultura ebraica della diaspora. Possiamo ricordare il fiorire di una religiosità nuova, assai rigorista, quella degli hasidei ashkenaziti, un altro tema su cui la storiografia si è molto soffermata (I. Marcus, K.R. Stow), che determina nella Germania renana il nascere di importanti scuole talmudiche. Alla fine dell’11° sec. questa civiltà entrò in crisi, in seguito alle persecuzioni scatenatesi nel 1096 con la prima crociata. Seguirono altre violenze di massa scatenate dal basso, che culminarono nei massacri della peste nera del 1348, che misero fine per sempre alla fiorente cultura rabbinica delle comunità renane.
Alla metà del Trecento gli ebrei erano stati già scacciati dalle due grandi monarchie costituitesi in Europa, la Francia e l’Inghilterra: un processo su cui gli storici si sono molto interrogati.
Da una parte, le monarchie nascenti sembrano non riuscire a conciliare la presenza di minoranze nel loro seno con le ragioni della loro stessa legittimazione, e giungono quindi a cacciare la minoranza ebraica (M. Kriegel); dall’altra, i percorsi dell’espulsione sono così diversi da far mettere in dubbio l’esistenza di un unico modello di espulsione (R. Stacey). Quel che è certo è che la Germania e l’Italia, Paesi a mancata costruzione monarchica unitaria, non misero in opera processi generalizzati di espulsione.
L’ultima fra le grandi monarchie europee a realizzare l’omogeneità religiosa fu la Spagna, da dove gli ebrei furono cacciati nel 1492, lo stesso anno della conquista del regno musulmano di Granada. La storia degli ebrei spagnoli, i sefarditi (da Sefarad, termine di origine biblica usato in ebraico a designare la Spagna), è quella che ha maggiormente sollecitato la storiografia, intrecciandosi con il problema della specificità del percorso nazionale spagnolo (A. Castro) e con la storia dell’Inquisizione spagnola e dei convertiti a forza, i marrani (Y.H. Yerushalmi, Y. Kaplan).
Anche la storia del mondo ebraico italiano è una storia molto specifica, caratterizzata com’è dalla presenza della Chiesa, oltre che dalla particolare condizione giuridica degli ebrei nei territori italiani, a forte influenza del diritto romano: quella cioè di cittadini, sia pure di seconda categoria. Specificità queste su cui la storiografia ha molto insistito, analizzando in primo luogo l’esperienza delle decine di piccole comunità di prestatori, sorte a partire dalla fine del Duecento in gran parte dell’Italia centrale e settentrionale (A. Toaff, R. Bonfil). Un secondo momento cruciale della storia degli ebrei italiani nel periodo che precede il ghetto è quello rinascimentale, in cui fu forte l’attenzione degli umanisti per lo studio dell’ebraico e per gli studi cabalistici. Un altro tema di grande interesse storiografico, impostosi solo nella seconda metà del Novecento, è quello dei rapporti tra Chiesa ed ebrei, in precedenza visto soltanto nell’ottica degli studi sull’antisemitismo. L’immagine che ne è emersa è quella di due mondi percorsi da una sorta di circolarità culturale e di reciproca suggestione, pur nella codificata inferiorità dell’uno rispetto all’altro. In particolare, la storiografia ha sottolineato l’importanza, nei rapporti tra i due mondi, della spinta crescente da parte della Chiesa alla conversione (K.R. Stow). Un tema, questo delle conversioni, e in particolare di quelle forzate, che è divenuto recentemente un vero e proprio campo di studi a sé, munito di una sua specificità sia rispetto alla storia degli ebrei sia rispetto alla storia della Chiesa. Nell’ambito della storia dei rapporti tra Chiesa ed ebrei, resta acquisita agli studi la svolta in senso negativo del pontificato di papa Lambertini, alla metà del Settecento, che in connessione con la minaccia della secolarizzazione ha determinato mutamenti sostanziali nei rapporti tra i due mondi e ha aperto la strada all’antigiudaismo dell’Ottocento (M. Rosa, M. Caffiero).
Un altro tema importante è quello dei conversos spagnoli e portoghesi, i marrani, e della loro diaspora dalla Penisola Iberica. Una parte della storiografia sostiene il perdurante attaccamento all’ebraismo di questi convertiti, mentre altri studiosi sostengono invece l’ipotesi che la campagna repressiva contro i marrani sia stata montata dall’Inquisizione per motivi politici ed economici e che i conversos intendessero nella maggioranza dei casi restare cristiani. Molti i Paesi toccati dalla diaspora marrana: quelli privi di ebrei, come la Francia e l’Inghilterra, dove si stabiliscono gruppi di conversos che gradualmente ritornano all’ebraismo, e quelli dove i marrani sono chiamati dalle autorità, come Livorno. Di tutte, quella di Amsterdam resta la comunità marrana più studiata dagli storici (Y. Kaplan) sia per la sua importanza economica e politica sia per le sue complesse vicende intellettuali, caratterizzate da figure «di confine» come Spinoza. Un altro nodo storiografico importante, collegato con il tema del marranesimo e con quello del passaggio alla modernità, è quello della vicenda messianica di Sabbatai Zevi, che nella classica interpretazione di Gershom Scholem ha assunto il carattere di uno spartiacque tra la società tradizionale e l’inizio dell’Età moderna. Attraverso la critica dell’ebraismo rabbinico e lo svuotamento dell’osservanza, il movimento sabbatiano avrebbe espresso un rinnovamento che nasceva dall’interno dell’ebraismo, a differenza del successivo movimento di trasformazione provocato dall’illuminismo ebraico, la Haskalah, che sarebbe stata il risultato esclusivamente di influenze esterne.
Il Settecento è il momento della crescita inarrestabile della presenza ebraica nell’Europa dell’Est. La maggioranza degli ebrei d’Europa vivono in questo periodo all’Est, in Polonia e in Russia, in un contesto assai meno urbanizzato di quello occidentale, e caratterizzato da una forte separazione dal mondo esterno. Forte è l’attenzione che gli studiosi hanno dedicato al movimento hassidico, che nasce in Galizia e in Polonia nel Settecento, con la crisi delle comunità orientali, segnate a partire dal Settecento da crescenti divaricazioni sociali e dalla decadenza delle strutture comunitarie (J. Katz). Il periodo dell’emancipazione, cioè del raggiungimento della pienezza dei diritti e dell’inserimento degli ebrei nella società esterna, è stato a lungo interpretato dalla storiografia in termini di conflitto tra identità e assimilazione, una tesi sottoposta recentemente a una profonda revisione storiografica (F. Malino, D. Sorkin, P. Birnbaum, I. Katznelson, T.M. Endelman). Nei loro studi sugli ebrei dei vari Paesi d’Europa, gli storici fanno ora molta attenzione a distinguere e a precisare la natura dei diversi processi e la differenza fra i percorsi di modernizzazione a O e a E, dove la modernizzazione passa anche in assenza di emancipazione politica (J. Frankel, S. Zipperstein).
In molta parte d’Europa, i decenni tra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento sono per gli ebrei un momento di grande felicità culturale, un momento molto analizzato dalla storiografia che ha cercato di individuarne le origini ora nelle modalità del processo di emancipazione e di integrazione, ora nelle tendenze culturali più interne al mondo ebraico (D. Myers). Al centro dell’attenzione degli studiosi il «dialogo ebraico-tedesco», un momento irripetibile destinato a essere distrutto dall’antisemitismo nazista in cui i protagonisti della cultura tedesca e austriaca sono nella maggior parte ebrei. Molta parte della storiografia ha parlato di un dialogo a senso unico (E. Traverso), anche se non sono mancati gli storici che hanno sottolineato come il percorso culturale compiuto dal mondo ebraico tedesco sia divenuto parte integrante dell’intera tradizione intellettuale europea (G. Mosse, J. Ehrenfreund).
Sia pur con modalità diverse, questa grande apertura al nuovo toccò anche Paesi lontani da ogni prospettiva di emancipazione, come la Russia zarista. La trasformazione del mondo ebraico russo, iniziata a partire dal 1880, con i primi movimenti di ritorno a Sion e con l’inizio dell’emigrazione di massa in America, è stata affrontata dalla storiografia da vari punti di vista. In primo luogo, nell’ottica della nascita dell’ebraismo americano, cioè di una diaspora assai diversa da quella europea (I. Howe, A. Hertzberg); e ancora, dal punto di vista della forza politica e culturale del mondo ebraico russo, che esprime straordinarie possibilità di rinnovamento ed espansione (J. Frankel), fino a fare del 20° sec. il secolo degli ebrei russi (Y. Slezkine). Il sionismo è un altro tema forte della storiografia, in particolare a partire dagli anni Ottanta del Novecento, quando l’emergere in Israele di una nuova storiografia «revisionista» o «post-sionista» ha rinnovato le interpretazioni rispetto alla storiografia precedente, che vedeva nella diaspora duemila anni privi di storia, che sottolineava l’antisemitismo delle nazioni come esito necessario della situazione di minoranza degli ebrei in seno alla società esterna e che da questa analisi derivava la necessità della creazione di uno Stato nazionale ebraico.
Con la storiografia sulla Shoah ritorniamo alla storia di un momento cruciale dell’ebraismo della diaspora: quello del suo annientamento, in alcuni luoghi quasi totale, a opera dei nazisti. Gli studi sulla Shoah hanno cominciato a moltiplicarsi solo a partire degli anni Settanta, quando attraverso percorsi per la maggior parte diversi da quelli storiografici – giudiziari, testimoniali, memorialistici – si è costruita la sua memoria come quella di un evento specifico, diverso dagli altri orrori della guerra, in qualche misura singolare e «unico». Dal punto di vista interpretativo, il dibattito più importante sulla Shoah è stato quello fra i cosiddetti storici «intenzionalisti» e quelli «funzionalisti». I primi ritenevano che il progetto di sterminio degli ebrei fosse già presente nella mente di Hitler fin dal 1920, data del programma del partito nazista; gli altri che esso fosse, al di là della stessa volontà di Hitler, il risultato della guerra che estese il dominio tedesco su territori fittamente popolati da ebrei. La storiografia più recente tende ad adottare un’interpretazione intermedia, che sottolinea i nessi strettissimi tra le tappe della guerra d’aggressione scatenata da Hitler e la sua soluzione del problema ebraico, ma attribuisce al Führer un ruolo cruciale nel processo decisionale che sanzionò la soluzione finale (C.R. Browning). Contrariamente a quanto si ritiene, il numero degli ebrei assassinati nella Shoah non rappresenta un elemento significativo di dibattito, se non per la pseudostoria dei negazionisti. I dati più attendibili danno un numero complessivo vicino ai sei milioni. Sul caso italiano, il dibattito storiografico ha toccato soprattutto il tema del ruolo del fascismo e della successiva Repubblica di Salò nella deportazione, e il tema degli aiuti da parte dei militari italiani e della popolazione agli ebrei perseguitati. Complessivamente, circa 7500 ebrei vennero deportati dall’Italia, 6257 il numero dei morti identificati, vicino alle 7000 in totale le vittime ebree italiane. Solo il 6% dei deportati ebrei dall’Italia è sopravvissuto (L. Picciotto). La più recente storiografia concorda nel sottolineare sia l’aiuto dato agli ebrei dall’esercito italiano in Francia, in Grecia e in Dalmazia, sia poi il ruolo decisivo della polizia di Salò negli arresti degli ebrei in Italia.
Ancora acceso è il dibattito sull’introduzione delle leggi razziste del 1938 in Italia: da una parte quanti sottolineano il valore degli episodi di antisemitismo che precedono il 1937-38, dall’altra quanti persistono a interpretare le leggi come imposte dalla Germania hitleriana a un Mussolini riluttante e «filosemita». Ma l’immagine, che ha avuto ampio corso in Italia, di un regime fascista che adotta le leggi antiebraiche su imposizione tedesca, e che per di più le applica solo blandamente, non soltanto è contraddetta dalla documentazione, ma è ormai decisamente respinta dalla maggior parte degli storici (M. Sarfatti).
Un altro tema su cui, nonostante una buona parte delle fonti sia stata pubblicata o resa accessibile agli studiosi, gli storici continuano a presentare interpretazioni divergenti è quello del ruolo della Chiesa, e in particolare di Pio XII, nella Shoah e del rapporto tra la lunga tradizione antigiudaica della Chiesa e lo sterminio nazista del popolo ebraico (G. Miccoli, A. Foa).
La seconda metà del sec. 20° è per la diaspora europea, schiacciata da quella americana e da Israele, un periodo di crisi, in cui l’ebraismo sembra aver perduto, sia all’Ovest sia all’Est, lo slancio vitale che lo contraddistingueva nella prima metà del secolo (B. Wasserstein). Anche la storiografia si limita a ricostruire le vicende del dopoguerra, ad analizzare i percorsi dell’antisemitismo, a riflettere sulle mutazioni demografiche delle diaspore europee. Solo i numeri vengono portati a sostegno dell’ipotesi di una crisi vasta e profonda di prospettive: i numeri dell’ebraismo europeo, ma anche quelli degli ebrei in Israele, destinati nello spazio di una generazione a diventare minoritari rispetto ai palestinesi (S. Della Pergola).