Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Settecento in Francia la riflessione sulla musica risente del dibattito secentesco sul rapporto musica-poesia. Dalla svalutazione secentesca si giunge al riconoscimento del ruolo positivo della musica e della sua autonomia. Determinante per questo riconoscimento è la figura di Rameau, la cui concezione contrasta tuttavia con le tendenze dell’epoca. Quasi tutti gli enciclopedisti hanno lasciato scritti sulla musica, ma fra questi Rousseau esprime la riflessione più coerente e sistematica.
Che la musica sia qualcosa di negativo è un’idea secentesca ancora dominante all’inizio del Settecento. Questo giudizio è alimentato da ragioni non tanto estetiche, quanto moralistiche. Nel Seicento Bossuet, Saint-Evremond (1616-1703) e in parte anche Boileau ritenevano che la musica teatrale non soltanto distogliesse l’attenzione dalla piena comprensione dello svolgersi della tragedia e della commedia, ma ne distruggesse la “verosimiglianza”. Secondo questi autori, attraverso le subdole lusinghe dell’orecchio lo spettatore/ascoltatore è inconsapevolmente catturato dalla “voluttà” delle melodie, è corrotto nell’intelletto, reso prigioniero dei sensi e condotto entro spazi che per la ragione sono “inverosimili”. Il razionalismo secentesco più rigido e coerente, formatosi nel clima del primo classicismo razionalistico (ed erede degli umanisti fiorentini, che nel melodramma avevano visto la continuazione del teatro greco), condannava dunque senza appello la musica, considerandola uno strumento di corruzione della ragione e confinandola fuori dall’arte, entro lo spazio della frivolezza e della “bizzarria”.
La polemica secentesca di Boileau con Philippe Quinault librettista di Lully, esemplifica queste idee sullo spettacolo teatrale. Boileau sosteneva infatti che un certo teatro con musica avesse perduto l’austerità e la purezza della tragedia antica, l’avesse trasformata in “melodramma” – con l’introduzione di grandiose e fantasiose macchine teatrali, balletti, intrecci amorosi e sentimentali – e l’avesse infine “avvolta” nelle seduzioni irrazionali della musica.
In questa posizione così rigida si rileva tuttavia una smagliatura: sia Boileau che Fénelon convenivano infatti che la poesia dovesse essere più “ragionevole” che “razionale” e più prossima al “buon senso” che alla ragione matematico-cartesiana. È proprio a partire da questa considerazione che un po’ alla volta nasce un cambiamento nella riflessione filosofico-letteraria classicista sulla poesia e sulla musica; comincia cioè a proporsi l’idea che il cuore e il sentimento non debbano necessariamente porsi come antitesi alla ragione, ma possano essere l’equivalente della ragione nello spazio dell’arte.
In questa nuova prospettiva ragione e cuore non sono più visti come irriducibilmente contrapposti, ma come due facce di una stessa realtà: se la musica non può trovare sede nella ragione, può tuttavia essere accolta in quello spazio parallelo costituito dalla passione e dal sentimento.
Questa parziale assoluzione dell’opera in musica in nome del valore del sentimento riguarda comunque soltanto l’opera francese con il suo fasto aristocratico, il suo movimento tragico ammorbidito dalle scene amorose, i suoi nobili, eroici, mitologici personaggi, i suoi balletti, le sue complesse macchine e le sue meravigliose decorazioni. In questa nuova prospettiva, le opere di Lully e Quinault, prima condannate, a poco a poco divengono addirittura un riferimento nostalgico.
Un ruolo di rilievo in questo processo d’evoluzione del pensiero letterario e filosofico sulla musica lo aveva avuto, fin dai primi anni della seconda metà del Seicento, Charles Perrault che aveva assunto, contro Boileau, le difese del teatro musicale di Lully e Quinault. Esaminando comparativamente il testo greco dell’Alceste e il libretto che Quinault aveva ricavato da quel testo, Perrault aveva cercato di dimostrare come i profondi cambiamenti introdotti dal librettista, che aveva fatto di una tragedia un dramma lirico drammatico, fossero pienamente omogenei alla musica e conferissero all’opera una sua compiuta, se pur diversa, razionalità. Perrault contestava a Boileau di non avere orecchio per la musica e di giudicare con un astratto metro di giudizio filosofico-letterario.
Anche su questo terreno aveva preso corpo nel Seicento quella querelle des anciens et des modernes che aveva portato alla polemica tra i sostenitori della musica francese e i sostenitori della musica italiana. Questa disputa aveva poi avuto un nuovo capitolo con la lunga polemica fra l’abate Raguenet e il giudice Lecerf, che si era protratta per gran parte del Seicento.
L’idea di Perrault del canto come poesia non corrotta ma enfatizzata viene raccolta nella prima metà del Settecento da Jean-Baptiste Dubos e portata alle sue estreme conseguenze attraverso il riconoscimento del carattere positivo della musica in quanto complemento della poesia. Dubos compie però un passo ancora più coraggioso, contestando che l’opera in musica debba essere confrontata con la tragedia greca e sostenendo che non è là che essa ha la sua matrice, bensì nella canzone: “I segni naturali delle passioni dei quali la musica si vale e dei quali si serve per rafforzare la parola facendola canto hanno il compito di commuovere perché questi segni hanno una forza meravigliosa”.
Così sono nate le canzoni e la constatazione che le parole delle canzoni hanno ben maggiore efficacia se ascoltate nel canto, anziché recitate, ha spinto a creare interi racconti e di qui, poi, si è originata un’intera opera drammatica cantata. Queste sono le nostre opere”. Si ritrovano qui le premesse di una considerazione del rapporto fra musica e parola che arriverà ad animare, nell’Ottocento, il romanticismo.
In questo clima di dibattito e di scontro, sullo sfondo di un pensiero filosofico e letterario in movimento, si pone nel Settecento francese il determinante contributo di Jean-Philippe Rameau.
Rameau è un musicista e proprio questa sua competenza e formazione mentale gli consentono di affrontare il problema del ruolo della musica da un punto di vista finalmente specificamente musicale. Egli si pone l’obiettivo di riscattare culturalmente la musica, di offrirle autonomia e dignità di arte, e contestualmente di riabilitare la figura del musicista, fino ad allora considerato un cortigiano di basso rango demandato al divertimento e all’ornamento della società aristocratica. Rameau cerca questo riscatto principalmente impegnandosi a definire la musica come “scienza” (anzi, come la scienza par excellence): la musica va fondata, secondo il pensiero dell’epoca, su principi non soltanto razionali, ma naturali, universali e immutabili.
Anche Rameau, come i philosophes dell’Encyclopédie, sostiene l’idea di “progresso”, ma le due visioni sono antitetiche. Per il musicista il progresso è un movimento di continuo adeguamento a un principio eterno e non mutabile che comunque è considerato raggiungibile, mentre per gli enciclopedisti il progresso è un processo indefinibile e non concludibile che non fa riferimento a un obiettivo prestabilito.
Il contrasto fra la posizione di Rameau e quella degli enciclopedisti si fa via via sempre più acuto. Mentre gli enciclopedisti considerano la musica, nei suoi forti e condizionanti rapporti con il linguaggio, legata all’animo e al “parlare” dei diversi popoli e connessa con le vicende sociali e storiche in movimento, Rameau afferma, fino alla fine, una concezione estetica, filosofica e musicale opposta, per cui c’è unità fra scienza e arte, fra orecchio e ragione, fra regole immutabili e “naturali” e creatività. Mentre il pensiero degli enciclopedisti si diffonde sempre di più nel Settecento (e troverà ampio sviluppo nell’Ottocento, ansioso di cogliere e rappresentare le peculiarità “nazionali” della musica, attento agli stili regionali e al canto popolare, sensibile alle funzioni della storia), la visione di Rameau non trova rispondenza in un’epoca in cui si va realizzando la rottura fra arte e scienza, tra gusto e ragione, tra orecchio e regole.
Nessuno degli enciclopedisti è un musicista professionale, ma quasi tutti – e non soltanto Rousseau (“un filosofo il cui unico passatempo è la musica”) – hanno lasciato scritti sulla musica. Sarebbe tuttavia impossibile individuare una visione enciclopedistica unitaria sui problemi della musica che vada oltre una cornice “ideologica” relativamente comune, e il generale impegno di proporre un rapporto nuovo fra cultura e musica che spinge quest’ultima a entrare a pieno titolo per la prima volta nello spazio del dibattito culturale.
Solitamente si tende a vedere in Rousseau la sintesi del pensiero musicale dell’Encyclopédie, ma Rousseau è soltanto il rappresentante di uno dei filoni di pensiero legati alla vicenda degli enciclopedisti, anche se è quello che più organicamente si è espresso sulla musica e i suoi problemi.
La rappresentazione a Parigi, nel 1752, de La serva padrona di Pergolesi a opera di una compagnia di bouffons italiani è l’avvenimento che rende esplicita la frattura già esistente in Francia in fatto di gusti musicali.
L’incontro con l’opera buffa napoletana funziona quasi da detonatore per il dibattito, anche violento, che sarà poi ricordato come la querelle des bouffons.
La rappresentazione de La serva padrona spinge Rousseau ad affrontare la polemica in favore dei bouffons. E l’affronta con un’opera in musica, Le devin du village (rappresentata nel 1752), e con un violento pamphlet, la Lettre sur la musique française (1753).
I rapporti fra La serva padrona e Le devin du village non sono evidenti. Nell’opera di Rousseau non vi è quasi nulla del realismo, della polemica sociale – e neppure il tono e l’ambiente non artificialmente popolari – dell’opera buffa napoletana. Tali caratteri non sarebbero certo graditi al pubblico aristocratico che invece applaude l’opera, alla presenza del re, nel teatro di Fontainebleau.
L’operazione di Rousseau è certamente assai abile. Se ne rende conto D’Alembert: pur appoggiando l’esperimento e riconoscendone il valore provocatorio, egli scrive che quello seguito da Rousseau è l’unico modo per adattare un testo francese a eccellenti arie italiane, utilizzando un soggetto comico “nei riguardi del quale gli spettatori sono sempre meno severi con le innovazioni. Questo piccolo trucco è assai ben riuscito: gli spettatori illusi di ascoltare musica francese perché in francese è il testo, non erano prevenuti e hanno provato piacere”.
Le arie del Devin du village saranno canterellate dal re (ben noto per la sua scarsa disposizione verso la musica) e avranno anche una larga fortuna popolare. Saranno infatti pubblicate in varie raccolte di chanson, a partire dalla Clé du caveau, e in foglietti volanti con musica e testo.
Sia nelle Lettre sur la musique française e poi, ancor più violentemente, nell’Essai sur l’origine des langues, Rousseau spinge la sua polemica con la musica francese su un terreno sempre più radicale, condannandola irrevocabilmente: egli ritiene i Francesi incapaci di buona musica perché lo sviluppo storico della loro lingua nega ogni possibilità musicale.
Considerare lo stretto rapporto fra linguaggio e musica è posizione comune a tutto il Settecento e in questo Rousseau si rifà alla cultura classicista. Egli tuttavia vede anche la lingua come una fedele immagine del carattere di ogni popolo. La “civiltà”, secondo Rousseau, ha provocato il progressivo allontanamento del linguaggio musicale dal linguaggio verbale poiché in entrambi si sono via via introdotti fattori convenzionali e razionali, da un lato utili, dall’altro ostacolo all’espressione.
Nella musica questo fattore convenzionale è rappresentato dall’armonia e Rousseau si chiede se sia ancora possibile un’arte sinceramente e pienamente espressiva, in un rapporto diretto con il linguaggio. Di qui la diffidenza verso la musica strumentale e la ricerca di una condizione o un luogo in cui il linguaggio abbia conservato la sua “naturale” melodicità e la musica non abbia perduto il privilegio della melodia. Secondo Rousseau soltanto l’Italia possiede questa condizione felice che rende ancora possibile una musica espressiva.
Rousseau privilegia l’espressione sull’imitazione, l’elemento immaginoso su quello razionale e soprattutto l’inflessione “primitiva” del suono sulle convenzioni razionali. Già Dubos (per non citare Vico) 30 anni prima aveva sostenuto, in altri termini, posizioni simili e nel 1746 Condillac pubblica il suo Essai sur l’origine des langues. Merito di Rousseau, tuttavia, è quello di aver sviluppato questi temi in modo ampio, organico, coerente e sistematico per quanto riguarda specificamente la musica; anche per questo egli diviene nel Settecento, non soltanto in Francia, ma in tutta Europa, un punto di riferimento ideale per ogni discorso (e per ogni discussione) sulla musica.
L’attività compositiva dell’autodidatta Rousseau comincia assai prima della stesura del Devin du village, fin nella gioventù.
Ancora bambino Rousseau suona il violino, canta arie di moda e austeri salmi di Goudimel e Loys Bourgeois nel tempio di Ginevra. Più tardi, ad Annecy, suona il flauto a becco e prende qualche lezione di musica. Ventenne, a Charmettes, presso Chambéry, tenta di scrivere opere nello stile di Lully; alcuni frammenti dei libretti di quei primi tentativi (Iphis e Découverture du nouveau monde) ci sono pervenuti.
Tra il 1743 e il 1745 compone un’opéra-ballet, Les Muses galantes, rappresentata incompleta a Venezia e poi, completa, a Parigi all’Académie Royale de Musique, nel 1747.
Inoltre Rousseau ha lasciato un’opera, Daphnis et Chloé, oltre ad arie varie e canzoni, francesi e italiane: del 1753 è la raccolta (anonima) Canzoni da battello. Chansons italiennes; del 1781 un’altra raccolta (con canzoni francesi e italiane), postuma, Les consolations des misères de ma vie.
È tuttavia la produzione saggistica, panflettistica e teorica che consacra Rousseau tra i personaggi più importanti e influenti nella vicenda musicale europea.
L’insieme degli scritti sulla musica di Rousseau è molto consistente: a lui si debbono molte voci dell’Encyclopédie e soprattutto quel Dictionnaire de musique che, dopo la prima edizione del 1767, avrà molteplici edizioni e vastissima diffusione.
Il Dictionnaire è il primo tentativo di un’opera destinata a raccogliere organicamente e sistematicamente la cultura musicale del tempo, pur inserita in una rappresentazione teorica coerente con la prospettiva ideologica dell’autore. Nella vocazione innovativa di Rousseau si inseriscono anche i suoi giudizi sulle musiche “esotiche” che, nel Dictionnaire, hanno un posto di rilievo. E proprio sul rapporto dell’Occidente con le musiche degli “altri” Rousseau esprime giudizi che ne fanno, in una certa misura, un precursore dell’etnomusicologia (e anche, secondo Lévi-Strauss, il fondatore dell’etnologia).
Fra gli enciclopedisti, anche Diderot ha competenze musicali e nelle sue opere si possono trovare vari cenni alla musica.
Tuttavia egli non ci ha lasciato scritti organici e specifici su questi problemi, fatta eccezione per le Leçons de clavecin et principes d’harmonie (1771).
Così, per cogliere il pensiero di Diderot sulla musica, è necessario percorrere tutte le sue pagine; in questo tortuoso itinerario ciò che emerge è la presenza delle questioni più vive del suo tempo e una visione generale della musica che risente delle contraddizioni, forse solo apparenti, del suo pur così stimolante, ricco, multiforme – ma asistematico e avventuroso – pensiero estetico.
Sul problema dell’armonia il pensiero di Diderot non coincide né con quello di Rousseau, né con quello di Rameau. Per Diderot melodia e armonia hanno funzioni diverse e non contrapposte e l’armonia (così come il singolo accordo) non ha un proprio e specifico significato, ma è un semplice strumento nelle mani del musicista, come la tavolozza in quelle del pittore.
Più vicino, se pur cautamente, alle teorie di Rameau è invece D’Alembert che, per la sua posizione di realistico empirismo, riconosce la scoperta tecnica di Rameau, senza accoglierne le implicazioni ideologiche. Anche per quanto riguarda la collocazione della musica fra le altre arti, D’Alembert accetta quella marginale e subordinata, ma soltanto sul piano storico: se la musica non ha saputo conquistarsi un posto nello spazio dell’arte, ciò è dovuto all’arretratezza della musica stessa.
Jean-Baptiste d’Alembert
Discorso preliminare
Encyclopédie, Infine la musica...
Infine la musica, che parla tanto all’immaginazione che ai sensi, occupa l’ultimo posto nell’ordine dell’imitazione. Non perché la sua imitazione negli oggetti che si propone di rappresentare sia meno perfetta, ma perché sembra limitata, sin qui, ad un piccolo numero di immagini; limite che dobbiamo attribuire meno alla sua natura che alla scarsa fantasia ed ai poveri mezzi di coloro che la coltivano. La musica, che all’origine forse non era destinata che a rappresentare del rumore, è divenuta a poco a poco una specie di discorso o persino di lingua, con la quale si esprimono i diversi sentimenti dell’animo, o meglio le sue diverse passioni. Ma perché limitare questa espressione alle sole passioni e non estenderla, per quel che è possibile, anche alle sensazioni?
in Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, a cura di P. Casini, Bari, Laterza, 1968
È dunque la Francia il più ricco e fertile terreno, in tutta Europa, per lo sviluppo di una coscienza musicale moderna, attraverso polemiche, scontri, vere lotte fra contrapposte fazioni ed elaborazione di nuove idee. Le voci dell’Encyclopédie e del Dictionnaire di Rousseau costituiscono la più sintetica, ma allo stesso tempo ricca e stimolante testimonianza di questo travaglio e fermento intellettuale.