Gli orti sotto casa
Motivi economici, ecologici e aiuti pubblici spingono alla nascita anche in Italia dei cosiddetti orti urbani, gli urban garden già presenti da anni negli Stati Uniti, sulla scia dei welfare garden della Grande depressione.
Un nuovo modo di rinverdire le nostre metropoli con alcuni accorgimenti.
C’è una relazione quasi matematica che corre tra nascita, sviluppo e diffusione degli orti urbani e crisi economica. Una sorta di proporzione algebrica, quasi una simmetria statistica. Più cresce il deficit, più si dilatano i conflitti e più gli uomini tornano alla terra, restituendole il valore di bene-rifugio, grande madre dalla quale attingere prodotti per sostenersi, ma anche spazio simbolico eppure materico dove sperimentare forme dimenticate di socializzazione e riattivare il DNA rurale che ci portiamo dentro.
In America, negli anni bui della Grande depressione, gli appezzamenti di terra dati in appalto ai disoccupati e alle famiglie povere venivano chiamati welfare garden plots e fu creato un apposito programma per promuoverne il valore. Come riportano una serie di studi sull’argomento (da Community Gardens: a tool for community building, testo del 1999 di Dena Sacha Warman per l’Università di Waterloo, Ontario, a History of Community Gardening in U. S. a cura di Gardenmosaics.org), fu proprio il presidente Franklin Delano Roosevelt a rilanciare la coltivazione della terra con stanziamenti da capogiro per l’epoca: ben 3 miliardi di dollari messi a disposizione di giardinieri e orticoltori urbani dalla FERA (Federal emergency relief administration). Durante la Seconda guerra mondiale il fenomeno si ripropose in tutta la sua deflagrante drammaticità. Tra giardini dismessi, parchi abbandonati e fette di campagna ai margini di New York, Boston e San Francisco, ma anche in Gran Bretagna, si moltiplicarono i cosiddetti Victory gardens. «Zappa per la vittoria» era lo slogan coniato sui manifesti che ritraevano baldanzosi contadini yankee o britannici carichi di carote, patate e pomodori, cibo fresco per le città provate dalla fame e per i soldati al fronte. Per quanto riguarda gli Stati Uniti i numeri parlano di 20 milioni di americani coinvolti, capaci, con il loro lavoro tra zolle e sementi, di garantire ogni anno il 40% di fabbisogno nazionale di ortaggi. Anche in Francia, in Germania e in Unione Sovietica la pratica delle coltivazioni urbane divenne una faccenda di Stato tra incentivi, diktat e decreti urgenti. E così nell’Italia fascista nacquero gli orti di guerra anche nel cuore delle grandi città: grano, pannocchie, patate e cavoli coltivati in piazza Venezia a Roma, piazza della Vittoria a Genova, sotto il duomo di Milano o nel parco del Valentino a Torino. Le immagini dell’archivio dell’Istituto Luce restituiscono fotogrammi di metropoli trasformate in terreni agricoli con migliaia di braccianti più o meno improvvisati. La macchina della propaganda di Mussolini fece il resto con la glorificazione dei «militi devoti della vittoria del grano», mentre la stessa raccolta del frumento, ma anche di frutta, ortaggi e cereali, divenne strumento mediologico a difesa dell’italica autarchia. In contemporanea iniziarono a diffondersi i manifesti e i messaggi via radio che invitavano il popolo a «non sprecare», e il libro del 1936 di Emilia Zamara, La cucina italiana della resistenza (accompagnato dallo slogan Difendiamoci contro l’iniquo assedio economico!), ebbe un successo straordinario tra le brave massaie costrette a fare i conti con dispense sempre più vuote e nidiate di pargoli sempre più affamati. Superati anche i giorni duri del dopoguerra, zappe e vanghe ritornarono in campagna.
In un lasso di tempo relativamente breve gli orti di guerra lasciano il posto ai giardini, il boom economico cancella ogni traccia di terra dalle tute blu degli operai e dalle giacche dei travet. A partire dalla fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila, con l’avanzata della recessione rinascono gli orti urbani. Prima casi sporadici, poi realtà sempre più consolidate (e organizzate) che si dilatano a macchia d’olio. Nel nostro paese è del 2006 la prima ‘rete degli orti’ voluta da Italia Nostra che 2 anni dopo raccoglie il parere favorevole dell’ANCI, l’associazione dei Comuni, con la firma di un protocollo per lo sviluppo dell’agricoltura urbana.
Oggi, secondo la rivista scientifica Environmental research letters, gli orti urbani – o sociali, o condivisi – occupano nel mondo una superficie pari a quella dei 28 Stati membri dell’Unione Europea. La stessa FAO calcola siano quasi 800 milioni gli orticoltori urbani e che l’UPA (Urban and periurban agriculture) «incida per il 20% della produzione agricola globale contribuendo alla sicurezza alimentare di ampie fette del pianeta». La resa degli orti urbani, sostiene lo studio della FAO, è infatti molto superiore a quella dei campi aperti: un solo metro quadrato riesce a fornire ben 20 kg di cibo l’anno. Per fare un esempio concreto: fino a 30 chili di pomodori in 12 mesi, 36 cespi di lattuga ogni 2 e 100 cipolle ogni 4, risultando 15 volte più produttivo dello stesso appezzamento di terra della coltivazione rurale. Anche l’ISTAT nel report 2013 conferma il trend e i numeri della Coldiretti: in Italia dal 2011 la quota di orti urbani si è triplicata e occupa 3,3 milioni di metri quadrati adibiti alla coltivazione per uso domestico o a fini ricreativi, per un totale di 5 milioni di italiani alle prese con piantine e fertilizzanti bio.
Dai giardinetti incolti della desolata Detroit alle terrazze di Parigi e del Cairo, dalle aiuole di Berlino e Tokyo fino ai tetti agricoli di Toronto (che ha reso obbligatorie le coltivazioni sui lastricati dei nuovi edifici), dall’Avana votata da tempo e per necessità all’autoproduzione a Roma, Milano passando per Dakar che sta diventando una ‘cittàorto’ grazie ai progetti della Cooperazione italiana allo sviluppo, è un ‘fiorire’ di bietole e cavoli cappucci, fragole e piselli, melanzane e zucchine. Tutto quello che il clima consente, in pratica. E a dare il buon esempio sono anche personaggi celebri come Michelle Obama (degna erede della first lady Eleanor Roosevelt) o la regina Elisabetta che ha voluto un piccolo orto nei giardini di Buckingham Palace.
Un universo parallelo, insomma, ampio e dalle mille sfaccettature dove convivono bisogni di socialità, recupero di aree abbandonate, voglia di cibo sano a chilometro zero, necessità di combattere la crisi con armi semplici e naturali, etica del verde e molto altro ancora. Un settore dove iniziano ad affacciarsi anche figure professionali del tutto nuove. Si chiamano ‘tutor’ o ‘trainer’ degli orti urbani. Biologi, agronomi, botanici, vivaisti che mettono a disposizione le loro competenze per i novelli urban farmers. La Coldiretti nel corso di quest’anno ne ha già formati 75 e sono richiestissimi. Si va dall’analisi del terreno all’organizzazione degli spazi, dall’approvvigionamento dell’acqua alle pratiche burocratiche per la gestione di un’area comunale, dalla selezione delle specie di ortaggi o alberi da frutta alle tecniche di potatura fino alla scelta del tipo di coltivazione (sinergica, biologica). Poi – sia chiaro – servono volontà, pazienza, impegno costante e tanto lavoro. Perché anche la rivoluzione dell’orto non è un pranzo di gala.
Calendario delle semine Orto urbano a New York
I pericoli del coltivatore cittadino
Alcune università si sono occupate degli orti ubani e hanno stabilito alcuni punti base dai quali non è possibile prescindere per garantire un prodotto sicuro e privo di contaminazione. Questo perché le nostre città, piaccia o no, sono spesso vere e proprie fabbriche e depositi di inquinamento. È quindi opportuno, secondo i ricercatori della North Carolina State University, accertarsi che il luogo dove si va a coltivare ortaggi non sia stato in passato un’area industriale. Questo potrebbe pregiudicarne la commestibilità. Nel caso ci siano dubbi non coltivare direttamente nel terreno ma in vasi con terriccio di qualità. Usare come fertilizzante il compost con i resti di cucina, utilizzando solo la componente vegetale, e lavare comunque accuratamente la frutta e verdura raccolte.
Mentre gli studiosi americani si sono concentrati sull’inquinamento del terreno, alcuni studiosi tedeschi hanno esaminato gli orti urbani di Berlino e ne hanno tratto dei risultati tanto allarmanti sulle concentrazioni di metalli pesanti nei prodotti da sconsigliarne in alcune zone la produzione. È comunque buona norma in questo caso, oltreché coltivare in vasi e non nel terreno, utilizzare una barriera di canne intorno al nostro orto come biofiltro oltreché da barriera contro i venti e la radiazione riflessa dagli edifici vicini. È bene anche ricordare che se l’inquinamento è troppo alto conviene coltivare alberi da frutto, in quanto i contaminanti rimangono quasi interamente nelle radici e nel tronco.