GLOBALIZZAZIONE
Aspetti istituzionali di M. Rosaria Ferrarese
Della globalizzazione sono state date svariate definizioni, che volta a volta mettono a fuoco gli aspetti fenomenici in cui essa si manifesta o le cause che li producono. Ad esempio, dire che la globalizzazione consiste in una sempre più rilevante interconnessione dei mercati o in una mutua interdipendenza tra varie aree geografiche (v. Giddens, 1990) descrive il fenomeno ma tace le cause. Se vogliamo cogliere le cause, dobbiamo far riferimento innanzitutto alla pervasività di nuove tecnologie che, abbattendo i limiti spaziali e temporali, permettono forme di comunicazione immediata e spesso 'in tempo reale'. Tuttavia, nonostante la centralità delle tecnologie, queste non bastano da sole a spiegare la globalizzazione. Le comunicazioni che questa mette in moto richiedono anche altri requisiti: innanzitutto un requisito di natura sociale, consistente nella condivisione di una lingua comune basata sugli interessi e sulla ragione dello scambio economico (v. Hirschman, 1977); in secondo luogo, un requisito di natura economica, consistente nella liberalizzazione dei mercati finanziari, che permette ai capitali di circolare liberamente, facendo da sostegno all'espansione delle imprese nello spazio transnazionale (v. Strange, 1998).
La globalizzazione è dunque non solo globalizzazione dell'economia, ma anche diffusione di ciò che è stata chiamata la "pastorale moderna" (v. Berman, 1982), ossia una sorta di evangelizzazione planetaria al credo della modernità, al suo stile, ai suoi riti e alle sue istituzioni.Per quanto rivoluzionaria possa apparire questa fase, per quanto i cambiamenti che essa presenta, sempre più veloci e imprevedibili, sembrino segnare una fase del capitalismo del tutto nuova rispetto al passato, la gran parte delle sue dinamiche appare chiaramente tracciata già nel Manifesto del partito comunista, opera del 1848 che, riletta oggi, mentre appare superata nella sua analisi politica, appare invece dotata di acume profetico nell'analisi delle tendenze proprie dell'evoluzione capitalistica e persino della globalizzazione (v. Marx ed Engels, 1848). In particolare, due tendenze sono lì già perfettamente colte. Da una parte la tendenza verso "l'insicurezza e il movimento perpetui", nonché a una sorta di dissoluzione e smaterializzazione dei rapporti che il capitalismo porta con sé, fino alla dissoluzione di tutto ciò che è 'solido' (v. Berman, 1982). Questa profezia trova oggi conferme innanzitutto in una struttura industriale in cui la base della ricchezza è completamente nuova rispetto al passato ed è una risorsa del tutto immateriale, mobile e impianificabile: la conoscenza, piuttosto che la terra o il denaro è la nuova base dell'economia (v. Thurow, 2000). Si può in tal senso parlare di una 'terza rivoluzione industriale', caratterizzata da una estrema mobilità dei processi produttivi, organizzativi e commerciali, in cui vincenti sono non più le hierarchical firms, ma le entrepreneurial firms, che perseguono una strategia di continui cambiamenti dei propri prodotti, e riescono così ad anticipare la concorrenza, piuttosto che subirla (v. Porter, 1985).La seconda tendenza individuata da Marx ed Engels è quella per cui "la borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività fino ad allora guardate con rispetto e pia soggezione. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati" (v. Marx ed Engels, 1848; tr. it., p. 9).
In termini più teorici, altrove Marx ed Engels parleranno di una 'struttura' economica che diventa determinante e che riduce nel suo cono d'ombra la politica, le istituzioni, le credenze, facendone delle mere luci riflesse, delle 'sovrastrutture' senza una propria anima e, si direbbe oggi, senza una propria 'autoreferenzialità' (v. Marx ed Engels, 1932). Via via che il capitalismo conquista nuove nazioni e le costringe ad adottare il proprio "sistema di produzione", esso crea un mondo "a propria immagine e somiglianza".Queste due profezie marxiane ci possono guidare nell'analisi delle trasformazioni istituzionali che la globalizzazione porta con sé. Trasformazioni che, nel loro insieme, si possono ricondurre per un verso a una dinamica di alleggerimento delle istituzioni, di perdita di peso e di rigidità, per un altro verso a una dinamica di sempre maggiore aderenza alle ragioni dell'economia.Ciò che si va disegnando davanti ai nostri occhi è un orizzonte istituzionale assai più mobile e indefinito che nel passato. Via via che si espande la capacità delle forze economiche di agire in maniera transnazionale, superando limiti e confini di carattere nazionale, si configurano uno spazio e un tempo dell'economia che non si riconoscono più nel tempo e nello spazio delle istituzioni tradizionali. È nella sfida alle istituzioni tradizionali, soprattutto allo Stato e al suo diritto, specie nella loro versione europeo-continentale, che si può riconoscere una vera rivoluzione, una rivoluzione che chiude un periodo storico contrassegnato dalla centralità e dall'esclusività degli Stati, e apre una nuova fase, per così dire, di maggiore complessità istituzionale.L'economia globalizzata è alla ricerca di istituzioni che siano temporalmente e spazialmente capaci di corrispondere alle sue esigenze o cerca di adattare quelle tradizionali alle proprie esigenze. Essa trascina con sé non solo nuove forme di organizzazione e di comunicazione sociale, ma anche nuovi assetti istituzionali. Assetti istituzionali improntati a quella leggerezza e a quella ratio economica di cui le imprese hanno bisogno per espandere i propri scambi. Stati e istituzioni giuridiche assecondano ritmi e movenze dei mercati. Ed è a queste istituzioni che rivolgeremo la nostra attenzione. Non prima di aver precisato meglio cosa si intende con il termine 'istituzioni'.
Stato, diritto e mercato sono tre importanti istituzioni delle società moderne. Le istituzioni altro non sono che insiemi di regole, formali e informali, ma comunque accettate socialmente e stabili nel tempo, che orientano le azioni e i comportamenti sociali in determinate sfere. Ma è importante integrare questo significato, sociologicamente consolidato, delle istituzioni, con un altro aspetto: ossia con l'idea che esse contribuiscono a disegnare i patti sociali che regolano gli scambi tra le varie parti. In tal senso, le istituzioni sono puntelli essenziali dell'identità sociale e contribuiscono a comporre la griglia di diritti e doveri, di poteri e libertà, conformando ruoli che agiscono in forma interrelata e reciproca. Specialmente lo Stato (con il suo diritto) e il mercato, tipicamente, sono parte preminente di un invisibile patto sociale che lega governanti e governati, ripartendo i poteri e le sfere di libertà, i diritti e gli obblighi, ciò che è privato e ciò che è pubblico.Le teorie contrattualiste, all'alba degli Stati moderni, incarnarono questa idea, vedendo nello Stato la filigrana essenziale di tale scambio. Dietro un'apparente unità di modelli, tuttavia, nell'Occidente presero forma due diverse versioni di questo scambio. Nell'Europa continentale prese corpo una tradizione, ispirata prevalentemente al modello hobbesiano, che sosteneva uno Stato forte e un diritto di ispirazione essenzialmente pubblicistica, formulato in termini di comandi destinati a dare ordine alla società. In questo modello il mercato, visto come zona tendenzialmente anarchica (v. Macpherson, 1964), restava costretto negli argini di controlli e restrizioni statali che ne ridimensionavano il ruolo di istituzione autonoma. Ad esempio, nella concezione weberiana, il diritto del mercato, nella sua versione europeo-continentale, risponde a un intento di 'calcolabilità' e associa attese di pianificazione e governo dell'economia (v. Weber, 1922).
Nel mondo anglosassone, e soprattutto negli Stati Uniti, ebbe luogo una diversa tradizione, ispirata al modello lockiano, in cui a uno Stato debole corrispondeva la preminenza della libertà degli individui, che trovava nella proprietà privata il suo fondamento più significativo. La contaminazione con le teorie utilitariste portava poi questo modello, specie nella sua versione americana, ad attribuire al mercato un ruolo strategico nella salvaguardia delle libertà. In ragione di questa diversa ispirazione, il diritto qui rifuggiva da una conformazione pubblicistica e trovava piuttosto negli istituti privati della proprietà e del contratto il proprio centro ispiratore. Il mercato, pertanto, piuttosto che essere un puro prodotto delle decisioni giuridiche, contribuiva esso stesso a fornire criteri ispiratori per le regole giuridiche (v. Ferrarese, 1997).All'ombra di questi due modelli, hanno avuto luogo due diverse civiltà giuridiche, note come di common law e di civil law, la cui differenza è possibile cogliere non solo e non tanto per i diversi istituti che le caratterizzano, ma per il diverso peso specifico che in esse assumono le tre istituzioni dette. Nella civiltà di civil law, lo Stato è in posizione di eminenza rispetto al mercato ed il suo diritto è strumento di riduzione e di addomesticamento del mercato. Nella civiltà di common law, Stato e mercato sono istituzioni che si fronteggiano e si bilanciano a vicenda (v. Ferrarese, 1992), con la conseguenza che il diritto (nelle faccende economiche, ma non solo) è un prodotto in movimento, soggetto a tensioni non del tutto diverse da quelle che sono proprie della vita economica.Dietro queste due tradizioni si nascondono le ragioni di un diverso impatto che la globalizzazione, portando alla ribalta i mercati, ha rispettivamente sulla civiltà giuridica europeo-continentale e sulla civiltà giuridica anglo-americana e specie americana.
Se quest'ultima, a partire dalla centralità della common law fino alla scelta dell'assetto federale, si è costruita su un modello di concorrenza e dunque di non esclusività del referente statale, ben diversamente stanno le cose per la prima: questa, infatti, avendo a proprio fondamento esclusivamente gli Stati, viene messa a più dura prova dalle tendenze globali, che sembrano superare e sfidare quella logica di monopolio, di confini e di rigide ripartizioni del potere statale: una logica che, storicamente, si può far risalire al trattato di Westfalia del 1648, che negli Stati individuò le coordinate essenziali dell'ordine europeo, chiudendo la lunga stagione delle guerre di religione.Osservata da questa prospettiva, la globalizzazione, come suggerisce Strange (v., 1996), è un processo di rottura di quest'ordine giuridico incentrato sugli Stati, con un consistente travaso di poteri dagli Stati verso i mercati. Questa interpretazione della globalizzazione in termini di mutate costellazioni di potere e di concorrenza tra Stati e mercati è importante per comprendere i profondi cambiamenti istituzionali che accompagnano la perdita di centralità degli Stati e i mutati patti sociali che li accompagnano. Se il mercato acquista centralità come istituzione globale a danno degli Stati, che appaiono istituzioni locali, anche l'ispirazione centralistica del diritto statale appare in gran parte superata: il diritto, se vuol essere a misura di un mercato e di un mondo di relazioni globali, è chiamato a decontestualizzarsi, a cercare nuove misure di riferimento e ad affidarsi a nuovi soggetti creatori. Non si tratta solo di un allargamento della sfera delle libertà economiche, ma, ancor più, della capacità del mercato di fungere da punto di orientamento anche per le istituzioni tradizionali.
Il primo aspetto da affrontare per comprendere i cambiamenti istituzionali prodotti dalla globalizzazione è dunque il ruolo nuovo svolto dagli Stati in questo processo. Certamente ogni profezia di scomparsa degli Stati appare sbagliata o almeno assai prematura. Gli Stati sono destinati a sopravvivere nel futuro prossimo e forse persino meno prossimo. Ciò che invece si è già estinta è la sovranità statale, intesa come istanza assoluta, ossia incontrollabile ed originaria, superiorem non recognoscens, come si leggeva nei libri che davano fondamento teorico alla nozione. Oggi una nozione così vecchia della sovranità residua solo in Stati che non brillano per civiltà e democrazia e dove la corteccia statale serve soprattutto a rivestire regimi autocratici e dittatoriali.Questo declino della sovranità statale intesa nel suo senso originario significa la scomparsa degli Stati come soggetti interni e internazionali capaci di pensare in grande e di decidere in assoluta autonomia. Cambia, in altri termini, il potere degli Stati che diventa relativo, piuttosto che assoluto. Ma relativo non vuol dire insignificante o di poco conto: vuol dire invece che vive in un rapporto dialettico pressoché costante con altri poteri esterni e diversi. In un mondo globale in cui si affermano nuovi poteri sia sovranazionali, che si situano cioè al di sopra del potere degli Stati (come l'Unione Europea), che transnazionali, che prescindono cioè dai confini nazionali e li attraversano (come le grandi corporations), i due caratteri più significativi dello Stato sovrano sono compromessi entrambi: sia il controllo esclusivo del proprio territorio, sia l'esclusiva sull'uso legittimo della forza fisica.
Nella situazione attuale, specie il primo attributo è indebolito da una situazione di sviluppo tecnologico che rende porosi e spesso irrilevanti i confini statali. Ad esempio, in materia di mercati finanziari, gli Stati possono varare e di fatto hanno varato diversi sistemi regolativi. Ma, a causa della mobilità dei capitali, questi sistemi regolativi sono tutt'altro che indipendenti e sono continuamente sfidati dalla crescente interdipendenza tra le economie di diversi paesi (v. Strange, 1998). Maggiori poteri mantiene lo Stato in presenza di normazioni sovranazionali: rispetto a questi nuovi poteri esterni, lo Stato rimane nella posizione di un decisivo gate keeper, che conserva un significativo potere di contrattazione e di veto; anche laddove non può non ratificare trattati, decisioni e regole sovranazionali, proprio perché questi non sono "autoesecutivi" (v. Yoo, 1999), lo Stato può gestire significativamente l'atto di ratifica, sia nei modi che nei tempi, determinando esiti almeno in parte diversi delle normazioni comuni. Ma, anche in questo caso, si tratta di un potere parziale e interstiziale, piuttosto che intero ed assoluto.Questa trasformazione degli Stati, che da detentori di un potere assoluto diventano detentori di un potere relativo, d'altra parte, è sintomatica delle trasformazioni della stessa arena globale, che si caratterizza per la sua natura negoziale: il trattato, il contratto, l'accordo, il negoziato diventano sempre più i modi tipici per assumere decisioni giuridiche. Se nel modello giuspositivistico le norme apparivano frutto di una decisione ascrivibile a volontà sovrana e il contratto era una modalità residuale di assumere decisioni, disponibile soprattutto per i privati, ora sono delle norme di tipo negoziale a costituire il principale mezzo di espressione giuridica transnazionale.La riduzione degli Stati al linguaggio del contratto e dell'accordo è peraltro sintomo di una crisi della normatività che si può registrare nel mondo globalizzato. La normatività era, per così dire, il carattere del 'dover essere' nella sfera giuridica e trovava nelle norme giuridiche emanate dagli Stati una espressione parallela, per quanto soggetta a variabilità, a quella dei precetti morali.
Lo Stato, rendendo precettivi i propri comandi giuridici, da una parte assicurava certezza e uniformità del diritto, dall'altro pianificava un futuro tendenzialmente in continuità con il presente. La normatività era infatti basata su premesse di stabilità e di controllo della stabilità sociale, politica ed economica.Con la globalizzazione, invece, la stabilità perde attrattiva e comunque diventa impossibile: il cambiamento, come si è detto, diventa la scommessa continua dell'economia in modi che profilano una sorta di rivoluzione perpetua in atto. Con la fine di un contesto caratterizzato dalla stabilità, si creano le premesse per una crisi perpetua delle pretese normative. Le nuove istituzioni della globalizzazione tendono dunque ad assumere uno stile prevalentemente regolativo, piuttosto che strettamente normativo. Esse cioè fissano recinti di tipo procedurale dei quali i soggetti debbono tenere conto, ma entro i quali possono muoversi con qualche libertà per perseguire i propri fini. Ciò non significa la fine di ogni normatività, come si dirà più avanti, ma certamente un suo drastico ridimensionamento.
Se gli Stati non sono più i detentori del monopolio della produzione giuridica, è perché altri soggetti si sono via via appropriati di una capacità di creazione del diritto e hanno invaso uno spazio che prima era di esclusiva pertinenza dello Stato. Più in generale, al di là del momento normativo, è l'intera vita del diritto, anche nei suoi processi di enforcement sociale e istituzionale, ad essere cogestita da soggetti molteplici, non necessariamente a configurazione pubblica, che si attivano nella sfera giuridica al fine di produrre regole o adattamenti di regole acconci alle loro esigenze.Il potere degli Stati, in altri termini, viene insidiato da numerosi soggetti, sia pubblici che privati, che si pongono come suoi concorrenti, perché tendono a sottrargli quote di potere, o attraverso processi formali o attraverso processi informali. Se gli organismi sovranazionali, come l'Unione Europea o la World Trade Organization hanno il loro fondamento in un atto di adesione degli stessi Stati, e dunque in un atto formale, e restano soggetti a fondamento pubblico, i mercati e le imprese che li animano, che sono rigorosamente privati, fanno concorrenza agli Stati senza aver bisogno di alcun atto formale.
Ma il protagonismo di nuovi soggetti nello scenario giuridico va letto innanzitutto come un effetto legato alla moltiplicazione degli spazi della comunicazione giuridica. Tradizionalmente, lo spazio della giuridicità era tutto occupato dagli Stati, che, nel proprio territorio, godevano di un monopolio come legislatori. A ciò corrispondeva uno spazio internazionale che veniva via via disegnato da alcuni Stati i quali, in accordo con altri Stati, stringevano patti, accordi e trattati, secondo modalità registrate dal diritto internazionale. La globalizzazione ci fa oggi apparire un nuovo spazio, che possiamo definire transnazionale, che non coincide più con la somma dei territori di alcuni Stati: questo spazio non ha rigidi confini prefissati, e costruisce di volta in volta i propri limiti attraverso le comunicazioni che lo attraversano: sono dunque i flussi comunicativi, ovviamente mobili e continuamente variabili, che danno misura a questo spazio.
È importante sottolineare questo nesso consustanziale tra lo spazio transnazionale e i flussi della comunicazione, perché così appare con chiarezza il carattere dinamico di tale spazio; in altri termini, con la globalizzazione è nata una nuova concezione dello spazio, non solo perché esso è virtuale o potenzialmente infinito, ma anche perché esso è, per così dire, reattivo: non è destinato a recepire passivamente qualcosa, ma contribuisce a creare di volta in volta i caratteri e le regole necessari alla sua stessa esistenza. Ciò spiega altresì perché le istituzioni della globalizzazione sono assai diverse da quelle tradizionali, perché vivono in funzione di questo spazio che è assai esteso e potenzialmente illimitato, ma al contempo incerto e precario, come tutti i fenomeni della comunicazione.In questo spazio emerge una nuova funzionalità del diritto indirizzata alla comunicazione. Il diritto dello spazio transnazionale mostra una sorta di mutazione genetica e non è più riconoscibile nella vecchia foto fatta dai giuspositivisti. Il bisogno di mettere in connessione giuridica soggetti appartenenti a diversi contesti e culture spinge il diritto a privilegiare questa finalità, con conseguente erosione della tradizionale funzione di controllo sociale. Il diritto diventa una sorta di nuovo jus commune, come una lingua sovranazionale, che si rifrange in una molteplicità di dialetti che ognuno parla a suo modo, con le proprie inflessioni e il proprio accento (v. Ferrarese, 2000).Va tuttavia precisato che il ritorno a forme di apparente unità del diritto, specie in alcune aree, sia di diritto privato che di diritto pubblico, non può intendersi come una vera unificazione del diritto: dietro l'apparenza dell'unificazione delle regole e degli standard vi è, in realtà, una molteplicità di diverse interpretazioni ed applicazioni, che rispecchiano, come si dirà, storie e contesti diversi.
Lo spazio transnazionale non ricade in alcuna competenza giuridica territoriale già esistente e mostra una giuridicità indefinita, ancora in fieri, che si va formando attraverso un continuo work in progress, con protagonisti e modalità del tutto nuovi. Esso, a differenza dello spazio statale (e in qualche modo anche dello spazio internazionale, che ha tradizionalmente assunto atteggiamenti tendenzialmente mimetici rispetto allo spazio statale), è contrassegnato da consistenti vuoti giuridici invece che dall'idea, tipica del giuspositivismo, secondo cui tutto ciò che era o accadeva sul territorio statale ricadeva sotto il dominio del diritto o, al limite, di una deliberata scelta di non renderlo di rilevanza giuridica. Sono proprio questi vuoti che creano lo spazio per nuove regole, per nuovi soggetti giuridici, per nuove gerarchie di potere e di prestigio, che non coincidono più con quelli nazionali.
Lo spazio transnazionale non è del tutto privo di regole: delle regole giuridiche si sono formate e si vanno formando via via che emergono nuovi bisogni o esigenze legati alla globalizzazione. Tali regole, che si vanno assemblando a macchia di leopardo, tuttavia, sono ben lungi dal comporre un corpus organico, completo e definito: esse costituiscono piuttosto degli abbozzi, in parte spontanei, di regolazione giuridica per alcune aree di vita transnazionale, anziché delle sicure guide giuridiche per la vita transnazionale nelle sue varie espressioni. Né si può parlare della loro giuridicità in un senso tradizionale, come derivante dal soggetto che le pone e dalle modalità attraverso cui vengono poste in essere. Lo stesso concetto di rule of law, spesso evocato nei dibattiti sul diritto globale, viene spesso inteso piuttosto come un attributo culturale, che assicura affidabilità soprattutto per la vita economica, anziché come un sicuro requisito giuridico.
La formazione e la vita di queste regole è affidata in gran parte ai soggetti che si attivano per produrle: questi soggetti, di varia natura, si inseriscono come abitanti autoctoni dello spazio globale, affermando in via di fatto un proprio ruolo nella creazione delle norme, o nel cambiamento di quelle esistenti.A differenza degli organismi internazionali tradizionali, che si avvalgono del potere degli Stati e intervengono, per così dire, dall'alto, vincolando precisi territori e attori statali, questi soggetti sono spesso soggetti privati che intervengono piuttosto dal basso, in qualità di portatori o rappresentanti di specifici interessi o valori a dimensione transnazionale, pur non avendo alcuna competenza o forma di potere ufficiale. Il fatto che questi soggetti siano spesso privati non vuol dire che siano necessariamente deboli: al contrario, possono avere una forza superiore a quella di alcuni Stati: la loro forza può provenire dal potere economico, com'è nel caso delle grandi imprese transnazionali, le cosiddette transnational corporations, o dal possesso di una rete di riferimento e di comunicazione di natura globale, com'è nel caso delle non governmental organizations (NGOs).
Specie nell'area economica, si è assistito alla produzione di nuove regole, note come lex mercatoria, che in gran parte consistono in una rielaborazione continua del diritto contrattuale, e nell'introduzione di nuovi schemi contrattuali cosiddetti 'atipici'. Questo corpo di nuove regole è frutto di un processo di autonormazione degli stessi gruppi economici, proprio come avveniva nella società medievale, dove le corporazioni dei mercanti iniziarono questa pratica. La creazione di regole giuridiche per assecondare la circolazione e gli scambi dei prodotti non vede tuttavia comparire le imprese direttamente nel ruolo di legislatrici. Sono piuttosto le grandi transnational law firms, ossia i grandi studi associati di giuristi esperti in diritto dell'economia, che accompagnano giuridicamente i percorsi economici delle imprese, elaborando regole e moduli contrattuali sempre nuovi. Il modello organizzativo di queste 'imprese del diritto', che possono contare anche centinaia di giuristi esperti al proprio interno, è americano. E americano è anche il tipo di professionalità che esse coltivano: una professionalità 'imprenditoriale', che non lavora con stile esegetico sulle norme, ma le rielabora in maniera creativa, al fine di assecondare nuove esigenze della vita economica o di predisporre nuove forme di scambio. Questi nuovi "mercanti del diritto" (v. Dezalay, 1992), mentre agiscono nell'interesse delle imprese, che li pagano copiosamente per i loro servigi, sono tuttavia organizzati in forma indipendente, e così riescono a conservare il capitale simbolico del diritto, con le sue riserve di legittimazione e di valori di giustizia.
Sono altresì i grandi arbitri internazionali, chiamati a risolvere le grandi dispute di affari, ad avere nelle proprie mani gli standard delle decisioni relative alle condotte d'impresa. Anche in questo caso siamo di fronte a modalità di produzione del diritto del tutto private, dipendenti dalla 'virtù' attribuita all'arbitro (v. Dezalay e Garth, 1996) e tuttavia proprio tale lawlessness, se talora non ha mancato di suscitare perplessità, appare la qualità principale delle decisioni arbitrali (v. McConnaughay, 1999).
Come si vede, nello spazio transnazionale si va disegnando una nuova élite giuridica, a base professionale, la cui centralità è basata su competenze e professionalità che sono a misura del processo di globalizzazione. In primo luogo, essa non è legata a una specifica cultura nazionale e, pur avendo alle spalle una familiarità con le istituzioni americane, è in grado di adattarsi a contesti diversi e di servire esigenze sempre nuove. In secondo luogo, essa si afferma nella misura in cui si mostra capace di introdurre nel diritto cambiamenti creativi, in grado di assecondare le relazioni di scambio, attraverso nuove regole: essa, in altri termini, si richiama a una funzione che è in certo senso antitetica rispetto a quella tradizionale, di salvaguardia della continuità delle regole. In tal senso, questa élite transnazionale è parte di nuove gerarchie e di nuovi assetti giuridici che non coincidono più con quelli nazionali, non solo perché perdono quelle coordinate prevalentemente statali che li caratterizzavano nel passato, ma anche perché rispondono a una logica di 'realizzazione' piuttosto che ad una logica di 'ascrizione' (v. Parsons, 1951; tr. it., pp. 108 ss.).
Le grandi imprese transnazionali fanno concorrenza giuridica agli Stati e si candidano a coautrici dell'ordine giuridico globale, oltre che avvalendosi delle law firms, anche in altri modi più diretti, se pure di difficile percezione. Innanzitutto, il loro stesso modo di essere, la loro dimensione transnazionale, il non appartenere più ad uno spazio giuridico predeterminato, le mette in condizione di non dipendere più da un sistema giuridico e di guardare ai diversi sistemi giuridici come a oggetti tra cui poter scegliere in funzione dei propri interessi. Ciò significa altresì che esse hanno un non trascurabile potere di indurre i paesi che vogliono promuovere il loro insediamento ad adottare standard di legalità adatti alla produzione capitalistica, a partire dalla tutela del diritto di proprietà fino a tutte quelle libertà di espressione, di pensiero e di parola che accompagnano il mercato.
Un secondo modo che rende le imprese coautrici dell'ordine giuridico è attraverso la produzione stessa di merci, siano esse materiali o immateriali. Ad esempio, un oggetto prodotto dal mercato, come un oggetto elettronico, o un frutto geneticamente manipolato, contiene un rinvio implicito alla legittimità di quel prodotto. Tale legittimità può essere problematica, contestata e persino negata in uno o più Stati, ma dal momento in cui quella merce esiste, con la sua seduzione di oggetto di consumo, e appare in una delle vetrine della comunicazione globale, non mancherà di sfidare la prescrizione giuridica che la tiene al bando dei confini nazionali. Ancor più evidente appare questa sfida nel caso di una merce immateriale come Internet, ossia di una modalità di comunicazione mediata da una specifica tecnologia del mercato, che può, ad esempio, introdurre pornografia in uno Stato che la vieta, o reclamizzare un prodotto che è illegale, o permettere comunicazioni con uno Stato con cui si è in guerra.Le imprese, dunque, attraverso le loro tecnologie e le loro merci, diventano produttrici di modelli di vita e di identità, di stili di esistenza, di modalità comunicative estremamente pervasivi.
Nella misura in cui il capitalismo globale si atteggia sempre più a capitalismo 'culturale', ossia mira non più solo a produrre oggetti di consumo ma piuttosto, attraverso questi, a gestire la sfera dell'identità dei soggetti, le grandi imprese transnazionali si pongono come le più importanti istituzioni del futuro. Ciò significa altresì che esse diventano non solo autrici dell'ordine economico globale, ma anche coautrici dell'ordine giuridico globale.Se i nuovi soggetti giuridici fin qui enumerati gravitano nell'orbita delle imprese e dunque della logica del profitto, le non governmental organizations sono invece al di fuori di questa logica: esse sono portatrici, nella sfera globale, di cause non profit e di valori, e sono indirizzate a fini di giustizia, di filantropia, di tutela dei deboli e dei diseredati del mondo, o di salvaguardia e tutela dell'ambiente. Esse possono perseguire un fine specifico, ad esempio lo sminamento degli ex territori di guerra, o la tutela dei bambini abbandonati, o possono battersi per fini di ampia portata, come la tutela dell'ambiente, ma in ogni caso le caratterizza un intento 'militante'. I loro fini, avendo dimensione transnazionale, non si prestano più a essere perseguiti localmente.
Alla luce delle interdipendenze globali, cambiano infatti non solo i termini dei problemi, ma anche gli interlocutori. Altrettanto caratterizzante per le NGOs è la loro natura non statale, che le fonda su risorse di mobilitazione e di iniziativa private.In che senso queste organizzazioni sono anch'esse coautrici dell'ordine giuridico mondiale? Esse possono agire in vari modi, con vari alleati e contro vari bersagli, per promuovere regole, accordi e trattati che agevolano le loro cause. Esse possono avere come interlocutori sia uno o più Stati, sia un'impresa o un gruppo di imprese. Soprattutto questa seconda contrapposizione appare di grande interesse: in un mondo che sembra avviato a subire una pesante egemonia della logica economica, sono queste organizzazioni private a rappresentare una possibilità di contraddittorio. Anche se, per il loro carattere casuale e instabile, per l'insufficienza di mezzi, per la limitatezza degli obiettivi che possono perseguire, esse sembrano difficilmente in grado di candidarsi a veri e stabili contropoteri. Le transnational corporations agiscono ormai in troppe sfere, e hanno una tale capacità di penetrazione capillare nella società mondiale, per prestarsi ad essere adeguatamente contrastate o bilanciate da questi nuovi soggetti privati transnazionali.
Com'è emerso da questa pur breve e incompleta enumerazione di soggetti della sfera giuridica, con la globalizzazione si va disegnando un paesaggio istituzionale complesso, caratterizzato da decentramento e policentrismo. Poiché lo spazio transnazionale non ha barriere all'entrata, si possono dare sempre nuovi attori e sempre nuove modalità di accesso, ma anche sempre nuove modalità di interazione. Così, alle solenni costruzioni statali si sono via via affiancate numerose altre presenze private, che contendono loro spazio e centralità. La privatizzazione dunque coincide con un sensibile decentramento istituzionale.La globalizzazione tende a rifuggire da organizzazioni di tipo centralistico e sistematico e le sue istituzioni sono molteplici e concorrenti, piuttosto che distribuite secondo un ordine gerarchico. Lo stesso diritto globale segue percorsi centrifughi: la cosiddetta lex mercatoria, ad esempio, avendo nel contratto il suo strumento essenziale, si presenta tipicamente con un centro poco sviluppato e cresce piuttosto nelle periferie, via via che 'regole paralegali' vengono elaborate 'ai margini del diritto', laddove esso confina con il processo economico e tecnologico (v. Teubner, 1998). Ma, anche al di là del diritto privato, nello stesso diritto pubblico transnazionale, la tendenza a utilizzare strumenti di tipo contrattuale, come trattati e negoziati, è assai diffusa.
Il policentrismo trova inoltre espressione nella tendenza a un universo istituzionale caratterizzato non solo da un più alto numero di soggetti, secondo la dinamica tipica che accompagna ogni caduta di monopolio, ma anche da una più ampia varietà di tipologie di attori rispetto al quadro tradizionale. Il numero degli attori non è individuabile con certezza, perché lo spazio transnazionale è uno spazio incerto, che si costruisce ogni volta in funzione di specifici obiettivi e di specifiche forme di comunicazione, e dunque resta inevitabilmente aperto e tollera sempre nuove immissioni. Ma anche il carattere degli attori istituzionali non è predeterminato e si può dare una notevole varietà di tipologie. Numero e qualità dei soggetti contribuiscono a creare un paesaggio istituzionale variato e policentrico, con dinamiche molteplici. Alcuni esempi possono essere illuminanti.Gli attori istituzionali dello scenario transnazionale possono essere, come si è detto, sia pubblici che privati. Accanto agli Stati, istituzioni pubbliche per eccellenza, si possono trovare, ad esempio, soggetti privati per eccellenza, come le grandi imprese transnazionali. Anzi proprio questi due attori così diversi interagiscono di frequente, specie per 'contrattare' le condizioni di un insediamento industriale o commerciale, o per coordinare piattaforme di accordi internazionali. Ad esempio, uno Stato può concedere sostegni e infrastrutture in cambio di investimenti economici che danno occupazione e sviluppo. Oppure, un'impresa può chiedere a uno o più Stati di portare negli organismi internazionali di cui sono parte istanze o richieste di condizioni giuridiche favorevoli. Come si vede da questi esempi, soggetti pubblici e privati contrattano tra loro e si influenzano reciprocamente. Più in generale, si assiste a una significativa ibridazione, specie nelle istituzioni transnazionali, tra carattere pubblico e carattere privato.
Ciò può essere inteso in vari sensi. Innanzitutto nel senso che le istituzioni pubbliche assumono connotazioni, caratteri e moduli di azione propri della sfera privata. Ad esempio, gli Stati accedono a considerazioni di opportunità e di convenienza economica, inseguono moduli ispirati alla concorrenza, persino all'efficienza. Per converso, anche i soggetti e le organizzazioni private internazionali tendono ad assumere connotazioni, responsabilità e forme di comunicazione pubbliche.Più in generale, specie nella sfera transnazionale, il carattere pubblico e il carattere statale non coincidono più necessariamente e si assiste alla tendenziale mescolanza tra il linguaggio degli 'argomenti', ossia dei valori, e il linguaggio della 'negoziazione', ossia degli 'interessi', in maniere e in forme in precedenza sconosciute specie in Europa (v. Elster, 1993). In secondo luogo, gli attori istituzionali transnazionali possono essere mossi da alti valori di giustizia, di solidarietà, di difesa della pace, ma possono anche essere indirizzati innanzitutto al profitto. Questa distinzione non coincide con quella precedente perché, ad esempio, le NGOs, che sono spesso animate da cause di alto valore morale, e sono dunque rigorosamente non profit, sono altresì rigorosamente private: anzi, come si è detto, il loro carattere privato è fondante per la loro identità.Infine, le istituzioni transnazionali possono avere competenze giuridiche o essere del tutto prive di caratteri giuridici e tuttavia svolgere un ruolo significativo nell'arena giuridica globale.
Ad esempio, le transnational law firms e i grandi avvocati e arbitri internazionali, pur avendo carattere privato, sono pur sempre soggetti con formazione e competenze giuridiche, se pure ritagliate su scala globale piuttosto che con riferimento privilegiato a uno Stato. Essi pertanto sono portatori di una specifica forma di sapere che è un frutto, sia pure rinnovato e moderno, di una lunga tradizione e dei suoi presupposti. Al contrario, le associazioni transnazionali private, dette NGOs, attive nei più svariati campi e per le cause più diverse, non hanno alcuna qualifica giuridica. Ma, pur non avendo un interesse di natura direttamente giuridica, esse tendono a intercettare il processo giuridico transnazionale o nella fase di formazione delle regole, o nella fase di esecuzione delle stesse, attraverso varie forme di litigation, facendo sentire le proprie indicazioni, preferenze o necessità. Esse finiscono così per svolgere, con riferimento al proprio ambito di riferimento, un ruolo di 'guardiani' nell'ordine giuridico transnazionale, denunciando le inosservanze tanto degli Stati, quanto delle corporations o di altri soggetti, sia alla pubblica opinione mondiale che a veri e propri organismi giurisdizionali internazionali.
Parlando di pragmatismo delle istituzioni si intende qui far riferimento a uno stile istituzionale che rifugge dall'aderenza a moduli rigidi e prefissati e che sceglie di volta in volta la propria fisionomia in funzione degli obiettivi che si vogliono perseguire o di circostanze, situazioni o luoghi diversi. Le istituzioni pragmatiche sono in antitesi con il formalismo: il formalismo presumeva infatti di racchiudere i percorsi della realtà entro norme e istituzioni rigide, che non lasciassero spazio alla discrezionalità e alla scelta. Si suole in proposito parlare della flessibilità come di un attributo richiesto dalla globalizzazione (v. Sennett, 1998). Ma si preferisce qui parlare di pragmatismo, per mettere meglio a fuoco non solo gli attributi, ma anche le cause e i fini delle istituzioni 'flessibili'.Il pragmatismo (v. Santucci, 1992), corrente filosofica sorta nella seconda metà del secolo scorso negli Stati Uniti, interpretò lo spirito irrequieto della modernità industriale e l'ispirazione sperimentalista che lo sostiene. Una delle acquisizioni di questa scuola fu la teorizzazione del vantaggio conoscitivo di moduli di azione sperimentali e soggetti a continua convalida rispetto a moduli di azione rigidi e prefissati in quanto rispondenti a ideologie o credenze assolute. Del resto, sul suolo americano aveva già trovato applicazione, in varia guisa, l'idea di un sistema istituzionale aperto alla sperimentazione e alla concorrenza. Ad esempio, attraverso l'organizzazione federale, l'idea di una concorrenza tra le istituzioni era quasi esplicita. E nella stessa struttura giuridica, la tradizionale prevalenza della common law aveva poi trovato nella legislazione quasi una sfida di tipo concorrenziale.
Su questo terreno, l'approccio filosofico del pragmatismo completava, anche in termini teorici, l'idea di uno sviluppo di tipo evolutivo, che bandiva l'aderenza a progetti e idee assoluti e si affidava alla concorrenza tra le varie forze in gioco. Ora, questo indirizzo di pensiero, che ebbe significative ripercussioni anche sul pensiero giuridico attraverso l'influente voce di O. W. Holmes, sembra ispirare un'idea di diritto e uno stile istituzionale che sono assai distanti dal nostro normativismo. Si pensi al principio del learning by doing, che sembra interpretare il nesso tra conoscenza e azione secondo questa scuola. Vi sono almeno tre conseguenze insite in tale principio, che è utile osservare.Innanzitutto, tale principio suggerisce l'idea di un inesausto sperimentalismo, di una continua variabilità dei moduli di azione: è proprio assicurando una ininterrotta capacità di autocorrezione, sulla base dell'esperienza, che ci si può approssimare al fine perseguito o capire di volta in volta a che distanza si è da esso. Lo sperimentalismo non è un modo di procedere alla cieca, ma è anzi la sola possibilità di avvicinarsi ai propri fini, così come alla verità o alla giustizia. In secondo luogo, esso suggerisce una visione economica delle scelte di azione: ogni scelta comporta perdite e guadagni che si possono confrontare con quelli che deriverebbero da scelte alternative. Solo adottando queste strategie di calcolo si ha una scala di confronto certa, non soggetta ad apriorismi e ideologie. Questa visione economica può essere adottata per qualunque tipo di azione, sia essa economica o indirizzata ad affermare un valore: in ogni caso, ci si può avvicinare alla meta abbassando i costi. In terzo luogo, lo sperimentalismo suggerisce l'idea che ogni azione sia esposta al rischio e alla possibilità di errore. L'errore, piuttosto che essere visto come qualcosa da evitare e bandire, fa parte delle possibilità da sperimentare.
Solo includendo il rischio nell'orizzonte dell'azione ci si può spingere a mete più elevate: le opportunità valgono più dei rischi. Ciò significa la dissoluzione di ogni forma di certezza assoluta e un'accettazione convinta della concorrenza, in ragione dei benefici delle sue spinte. Affidare le istituzioni globali a una ispirazione pragmatista significa dunque accettare questo triplice ordine di conseguenze. Entra in crisi l'idea di un disegno istituzionale rigido, congegnato in astratto, che si presume completo e perfetto: le istituzioni rispondono piuttosto a schemi che non sono interamente definiti, e contengono la possibilità di itinerari diversi, che verranno via via decisi sul campo, in funzione di circostanze, fini e contesti diversi. Si pensi al principio di 'sussidiarietà', il quale, suggerendo che le istituzioni si collocano più in alto solo laddove più in basso non trovano spazio, riproduce perfettamente questa logica, tracciando la possibilità di varie distribuzioni di pesi istituzionali a seconda delle specifiche condizioni di un dato territorio.Si può altresì parlare di una 'fattualità' delle istituzioni globali, in quanto i loro percorsi, così come i loro comportamenti, vengono in parte affidati all'esperienza. Essi pertanto non sono mai del tutto completi e vengono continuamente adattati, in funzione di condizioni, contesti e obiettivi cangianti. Le istituzioni transnazionali tendono a essere fattuali innanzitutto perché sono 'globali', ossia rispondono alla finalità di connettere adeguatamente le specificità di contesti particolari con la generalità dello spazio globale; perché esse funzionino, occorre dunque che si affidino anche a quella fattualità che deriva dall'aderenza a particolari contesti: se una parte delle regole è già radicata in questi contesti, ciò implica un funzionamento più agevole. Le istituzioni nate nello spazio transnazionale, e dunque non legate ad alcun particolare territorio, sono in un certo senso senza storia, ma, radicandosi in luoghi specifici, contraddistinti da proprie culture e da consolidati abiti mentali, inevitabilmente entreranno in relazione con queste specificità e con il loro sostrato storico.
La fattualità si esprime sia come interpenetrazione tra il sistema degli interessi e il sistema normativo, sia come intreccio di norme giuridiche e di norme sociali, e in entrambi i casi può essere sia un'opportunità, persino in senso economico, che un rischio. Il sistema giuridico può stabilire diversi tipi di rapporto con gli interessi: ad esempio, nella tradizione europea, gli interessi, pur essendo riconosciuti in varie forme e modalità nel sistema giuridico, non hanno mai avuto una legittimazione a interagire con l'organizzazione giuridica, com'è invece avvenuto negli Stati Uniti. Qui la differenza è data proprio da un sistema giuridico che è sempre rimasto esposto agli interessi, non solo attraverso le maglie della common law, che è tipicamente un diritto 'dal basso', ma anche nella sua espressione legislativa, che risponde a una concezione open door, e persino nella sfera del diritto pubblico e amministrativo. Le istituzioni globali tendono ad avvicinarsi a questa seconda concezione, mantenendo un nesso più diretto e aperto con gli interessi. In tal modo, esse cercano di evitare contrapposizioni inutili e di arrivare a fruttuose sinergie tra perseguimento degli interessi e percorsi istituzionali. Il rischio è che le istituzioni possano essere 'catturate' dagli interessi o che le regole, troppo esposte alle dinamiche di mercato, producano 'un mercato delle regole'.Sul nesso tra vincoli formali e vincoli informali è illuminante il contributo di D. North, economista di scuola neoistituzionalista, che insegna a guardare alle istituzioni proprio in termini di 'regole del gioco', ossia come insiemi dinamici di norme esplicite e vincoli impliciti (v. North, 1990): è solo questa tessitura invisibile ma continua, che si costruisce in maniera diversa in ogni società, a dare compiutamente senso al sistema normativo.
Con la globalizzazione, questo intreccio acquista anche maggiore importanza e spiega perché l'emanazione delle stesse regole globali non basta a omologare società e paesi che hanno diversi sistemi di regole informali. Le differenze tra paesi sviluppati e paesi meno sviluppati sono destinate a sopravvivere. Solo laddove le regole formali trovano un sostegno nei vincoli informali, esse possono affermarsi a basso costo; se la loro affermazione è ostacolata da vincoli informali che le contrastano, e genera eccessivi costi di transazione, vinceranno i vincoli informali. Questi ultimi hanno dunque una doppia faccia: possono facilitare i percorsi delle istituzioni, abbassandone i costi, o possono innalzare tali costi fino a sfidare l'efficacia stessa delle istituzioni.
La stessa dinamica istituzionale che è stata appena descritta si vede in atto anche con riferimento alle unità di misura del diritto. Per i sistemi giuridici tradizionali, di concezione normativista, l'unità di misura era costituita dalle norme. Nei termini di Kelsen (v., 1979), la norma, in quanto comando, era espressione di un diritto essenzialmente a carattere sostanziale, che cioè imponeva o vietava un preciso modello di azione. Forse non è del tutto inutile notare come il termine norma, che trova una perfetta corrispondenza nelle lingue dei paesi di cultura giuridica continentale, non abbia invece alcun radicamento nei paesi di lingua inglese e specie negli Stati Uniti, dove si parla piuttosto di legal rules.
Ora, al contrario della norma, il concetto di regola ha un immediato riferimento di carattere procedurale, poiché rimanda prevalentemente a griglie di condotta all'interno delle quali è possibile esperire diversi comportamenti. Quindi, il fatto che le unità del sistema giuridico siano le regole anziché le norme, suggerisce una diversa consistenza del sistema giuridico, che è di carattere prevalentemente procedurale anziché sostanziale. Cogliere questa diversità è importante al fine di comprendere l'evoluzione giuridica oggi in atto: specie il diritto globale tende a essere non più un tessuto a maglie strette, com'era con le norme, ma un tessuto a maglie larghe, costituite dalle regole. Il diritto, in quanto predispositore di regole, rimanda ovviamente a un diverso tipo di Stato: lo Stato 'regolatore' è uno Stato che rinuncia a imporre stringenti modelli di condotta e si accontenta di costruire delle corsie lungo le quali i soggetti possono procedere.Il diritto globale tende dunque ad assumere moduli procedurali piuttosto che sostanziali, e dunque a perdere sostanza, diventando una silhouette, un profilo, uno schema: consistendo in regole, che sono un mix di vincoli e di libertà d'azione, diventa più leggero, meno autoritario. Le regole sono vincoli per l'azione, ma non vincoli che dettano completamente il contenuto dell'azione. Esse piuttosto preludono a molteplici possibilità di azione. In tal senso, un diritto basato su regole, anziché su norme, è un diritto che si apre ad apporti e opzioni che provengono anche dai soggetti destinatari.
Ciò vuol dire che il diritto diventa una sorta di impresa collettiva, che acquista senso non solo in rapporti verticali, basati sull'autorità, ma anche in rapporti di carattere orizzontale tra vari soggetti. I rapporti di autorità sottintesi dalle norme non lasciano opzioni ai soggetti, se non quella tra l'osservanza e l'inosservanza. Il soggetto non può spingere le proprie opzioni al di là di questo limite. Viceversa, quando prevalgono le regole, queste fissano dei recinti entro i quali i soggetti possono esprimere le proprie opzioni.Norme e regole presuppongono due forme diverse di agire rispettivamente ispirate a una razionalità 'parametrica' e ad una razionalità 'strategica' (v. Magri, 1994), per usare termini e concetti propri della teoria dei giochi. I soggetti che usano una razionalità parametrica si confrontano con conseguenze dell'azione che sono definite dall'esterno e sulle quali il loro intervento è ininfluente. Ad esempio, il soggetto di diritto, secondo la concezione kelseniana, può decidere di osservare o non osservare la norma, ma in entrambi i casi le conseguenze sono predefinite ed egli non può modificare né la norma né le sue conseguenze. Un soggetto che agisce con razionalità strategica si rapporta invece a un contesto di interdipendenza con altri attori razionali e decide, tenendo conto delle regole, volta per volta la propria condotta, cercando di massimizzare le sue utilità. Ciò significa che i soggetti, con le regole, contribuiscono continuamente a ridisegnare l'ambiente normativo intorno a loro, e quindi si vanifica l'idea di un ordine normativo interamente scritto nelle norme e definito a priori.
La differenza appare più chiaramente quando si pensi alle regole giuridiche come 'regole del gioco': queste esistono non per se stesse, ma in quanto servono a strutturare il gioco e a definire i modi in cui esso può essere giocato (v. Huizinga, 1951). Regola e gioco si sostengono a vicenda e, in un certo senso, l'una non può esistere senza l'altro e viceversa: il gioco non esiste se non all'interno di regole, ma le regole, a loro volta, non hanno senso se poi qualcuno non dà luogo a un gioco.Perché il diritto del mondo globalizzato tende a subire questo cambiamento di paradigma? Si può pensare che questo cambiamento derivi innanzitutto da una minore forza normativa in capo a soggetti statali o sovranazionali, che preferiscono ricorrere a moduli regolativi più elastici e meno autoritari. Ad esempio, gli organi comunitari ricorrono a forme di diritto cosiddette soft, fatte di direttive, raccomandazioni, linee-guida, non certo a rigide norme.Vi è inoltre una minore convenienza a emanare norme perché queste sono fatte per società culturalmente compatte o sufficientemente uniformi: esse mancano infatti di quel livello di elasticità che è invece necessario per affrontare le diversità di un mondo pluralistico (v. Habermas e Taylor, 1998). Né va trascurata una tendenza degli stessi soggetti pubblici, anche sovranazionali, a comportarsi come soggetti 'razionali', ricorrendo a moduli di azione strategica nei rapporti con altri Stati o nelle scelte di governo (v. Gruber, 2000).Più in generale, oggi si tende a parlare di diritto 'fluido', 'debole', 'mite', 'liquido', 'ibrido', come per indicare il suo distacco dal mondo delle norme, per assolvere soprattutto a finalità comunicative: un diritto strutturato come insieme di 'regole del gioco' tende ad incrociare meglio le diversità di opzione e di atteggiamento che derivano da un mondo complesso e pluralistico, in cui i significati delle regole navigano in un contesto comunicativo fluido ed esteso, qual è quello transnazionale.
Nell'attuale crisi della concezione assolutistica degli Stati, va notato un paradosso: questa concezione era figlia dell'idea che ogni Stato, al proprio interno, fosse signore e padrone delle proprie decisioni giuridiche, e che nessun controllore potesse erigersi a sindacarle. Vi era, nel potere dello Stato, qualcosa di simile a quello del proprietario privato, che, come insegnano i classici del liberalismo, nella sua casa non è soggetto ad alcuna supervisione o limitazione di libertà. Questa logica fondamentalmente 'proprietaria' non impedì che gli Stati europei divenissero la culla dello jus publicum, pur nell'assenza del riconoscimento di una razionalità sovrastatale a cui fosse necessario attingere.Così, mentre gli Stati hanno costituito un aspetto importante del processo di modernizzazione, fissando le garanzie giuridiche e una griglia certa di diritti e doveri, per un altro verso essi hanno continuato a racchiudere il germe di una vecchia logica delle appartenenze, cosicché gli stessi sistemi giuridici e gli organigrammi dei diritti risentivano vistosamente del collocamento in uno Stato piuttosto che in un altro. Sotto questo profilo, fu più 'moderna' la riflessione filosofico-giuridica settecentesca, con le sue inclinazioni giusnaturalistiche, e intenta, specie con Kant, a indagare la possibilità di un ordine giuridico di tipo cosmopolita. Rispetto a queste aperture, la scienza ottocentesca degli Stati appare richiudere gli spazi della riflessione e del diritto. Oggi, con la potenza comunicativa che è propria della globalizzazione, vengono in evidenza nuove tendenze all'unificazione del pensiero giuridico, al ritrovamento di una radice comune o di una comune ispirazione del diritto e dei diritti, che tendono a emanciparsi dall'appartenenza statale.
Abbiamo già visto in atto una sfida ai diritti statali in quella lex mercatoria che viene guidata dalla razionalità economica delle grandi imprese transnazionali: questa è una sfida dal basso, che travalica i confini statali in via di fatto, senza particolari clamori, configurando infiniti "diritti delle possibilità" basati sulle potenzialità dello schema contrattuale (v. Ferrarese, 2000). Ma la sfida che si pone dall'alto agli Stati e ai diritti statali è ben più visibile e clamorosa: essa tende a produrre un sistema di vincoli e di norme per gli stessi Stati, a metterli di fronte a nuove forme di 'dover essere', a un "diritto della necessità", che chiede ubbidienza (v. Ferrarese, 2000). In altri termini, va crescendo nel mondo un sistema di produzione di vincoli esterni agli Stati, che si radicano in una razionalità di pace o di giustizia o di salvaguardia dei diritti fondamentali o di tutela del patrimonio ambientale, inteso come patrimonio dell'intera umanità. Con un paradosso significativo: quella normatività che, con la globalizzazione, è in crisi nel rapporto tra governanti e governati all'interno degli Stati, trova una riaffermazione proprio nello spazio transnazionale: una riaffermazione clamorosa in quanto tende a imporsi proprio a quegli Stati che erano esenti da qualunque controllo e che non riconoscevano alcuna entità superiore.
Per la verità, potrebbe sembrare che non vi sia nulla di nuovo sotto il sole: in fondo, è stata la civiltà illuminista a parlare di diritti universali e già Kant, nel suo Per la pace perpetua, sosteneva che si fosse giunti a un punto in cui "la violazione di un diritto avvenuta in un punto della terra è avvertita in tutti i punti". Quello odierno potrebbe dunque essere un semplice ritorno a un pensiero e a un progetto maturati nella temperie dell'illuminismo giuridico, oltrepassando quei muri statali che la cultura giuridica ottocentesca aveva innalzato. Ma, com'è noto, la storia, anche quando sembra riproporsi, si ripropone sempre in forme nuove e mutate. Ed è il carattere nuovo di questo apparente giusnaturalismo della globalizzazione che occorre cogliere.Allora, in che senso si può parlare oggi di una nuova normatività transnazionale? E quali soggetti istituzionali potrebbero farsene portatori?La centralità dei mezzi di comunicazione di massa, l'enorme facilità di diffusione dell'informazione possono costituire con grande rapidità un uditorio globale. Un uditorio globale è cosa ben diversa dall'opinione pubblica settecentesca di cui parlava Habermas (v., 1998) e sono in tanti oggi a denunciare l'assenza di un'opinione pubblica mondiale. Ciò non toglie che un uditorio mondiale abbia una sua forza e una sua potenza, per quanto precarie e passeggere queste possano essere. Questa forza potenziale è una sfida virtualmente sempre aperta contro gli Stati e i loro governanti, ma appunto, è affidata in forme precarie e incerte alla comunicazione globale.Quando si parla di normatività, tuttavia, si intende qualcosa di più e di diverso da questa aumentata capacità di controllo sociale globale sui governi statali. La normatività si avvale innanzitutto di norme certe a cui dare enforcement.
Ma soprattutto di un apparato sanzionatorio da poter mettere in opera per punire l'avvenuta inosservanza delle norme. Si tratta di due caratteri di cui si può difficilmente disporre nella sfera internazionale, dove manca un soggetto fornito di potere e autorità confrontabili con quelli tradizionalmente di pertinenza statale: essendo il diritto internazionale fondato proprio sul presupposto della sovranità degli Stati, sono questi, in ultima istanza, i veri gate-keepers delle sue norme e della loro applicazione. Infatti, in materia di giustizia internazionale sono ben note le insolvenze, dovute a uno statuto da sempre fragile del diritto internazionale. Bobbio (v., 1990), d'altra parte, ha messo in guardia sulla fragilità dei diritti: questi si prestano molto bene a essere oggetto di solenni dichiarazioni, ma si rivelano assai precari quando vengono davvero violati e disattesi, specie se a violarli sono proprio gli Stati.A maggior ragione, i caratteri della normatività diventano problematici nell'arena transnazionale, che ha confini, soggetti e pertinenze assai meno definiti. Tuttavia, quello che oggi osserviamo è che nella sfera transnazionale si vuole andare oltre il livello delle dichiarazioni dei diritti e dei 'progetti filosofici', imitando i tratti della normatività con maggior zelo che nella sfera internazionale, proprio nell'intento di perseguire la lesione dei diritti umani, o della pace, della giustizia e dell'ambiente.
Ed è l'istituzione giudiziaria che appare candidata a svolgere un ruolo centrale nell'affermazione di questa nuova normatività, una istituzione non a caso dotata di quel carattere 'qui ed ora' che è particolarmente affine alla globalizzazione. Per la prima volta nella storia, ad esempio, noi assistiamo alla nascita di organismi di giustizia internazionale permanenti per punire i crimini contro l'umanità (v. Robertson, 1999). E per la prima volta nella storia i giudici di una nazione hanno osato perseguire governanti di un'altra nazione, com'è avvenuto nel caso Pinochet.L'intento di perseguire crimini e ingiustizie, tuttavia, paradossalmente procede non come naturale conseguenza di un sistema normativo certo, ma proprio in assenza di quelle norme sostanziali e procedurali che gli darebbero senso, misura e fondamento. Questa assenza appare vistosa specie agli occhi del penalista, che è abituato a requisiti di legalità e tassatività delle norme piuttosto stringenti, per ottemperare a esigenze di garantismo (v. Illuminati e altri, 2000). Sembra realizzarsi così, nell'arena transnazionale, una strana normatività, per così dire, a posteriori, indirizzata più a fini di giustizia che di rispetto della legalità, quasi una sorta di normatività senza legalità.
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Aspetti economici di Ronald Dore
1. Introduzione
I processi che oggi comprendiamo sotto il concetto di 'globalizzazione' - le conseguenze cumulative dell' 'annullamento della distanza', ossia il miglioramento e la rapida riduzione dei costi dei trasporti e delle comunicazioni - hanno operato senza significative interruzioni sin dai progressi della navigazione avvenuti cinque secoli fa. Già nella metà del XIX secolo alcuni scrittori si avventuravano a prefigurare "un mondo unitario, più o meno standardizzato in cui tutti i governi avrebbero riconosciuto le verità dell'economia politica e in cui il liberismo sarebbe stato propagato in tutto il globo" (v. Hobsbawm, 1976, p. 83). Come scrivevano Marx ed Engels nel 1948, la borghesia europea portava alla civiltà "anche i paesi barbari e semibarbari [...] All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra un commercio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. Ciò vale sia per la produzione materiale che per quella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano bene comune. L'unilateralità e ristrettezza nazionali diventano sempre più impraticabili, e dalle molte letterature nazionali e locali si sviluppa una letteratura mondiale" (v. Marx ed Engels, 1848; tr. it., p. 11).Questi processi di globalizzazione di lunga data conobbero un'accelerazione negli ultimi decenni del XX secolo, allorché i principali paesi industrializzati entrarono in competizione nell'incrementare gli investimenti in ricerca e sviluppo che determinano la velocità del cambiamento tecnologico, e la diffusione mondiale delle idee neoliberiste creò le condizioni politiche per un'apertura delle economie nazionali. Ma il dibattito su questi processi si è cristallizzato attorno al concetto di 'globalizzazione' solo dopo la fine della guerra fredda e del "conflitto di sistemi" geopolitico e ideologico che fino a quel momento aveva diviso il mondo-economie pianificate versus economie di mercato; mondo comunista versus mondo capitalista. Nell'agosto del 2000, tra i 271 libri della Harvard University Library nel cui titolo figurava il termine 'globalizzazione', solo cinque erano stati pubblicati prima del 1990, mentre l'85 per cento era apparso dopo il 1995.Una parte assai esigua di questa letteratura cerca di utilizzare il termine 'globalizzazione' in modo univoco e preciso, ma gli elementi principali del concetto sono i seguenti:
1. Un aumento della quota delle transazioni internazionali e transnazionali sul totale, di cui sono indicatori approssimativi l'incidenza del commercio mondiale e dell'investimento estero sul Prodotto Nazionale Lordo mondiale. Si è calcolato, ad esempio, che dal 1980 al 1988 la quota delle esportazioni in rapporto al PNL registrò un aumento dal 20% al 25%, con una tendenza all'accelerazione. Negli anni ottanta il PNL aumentò di un tasso annuo del 3,2% e il commercio del 5,2%. Tra il 1990 e il 1998 questi tassi sono stati rispettivamente il 2,4% e il 6,4% (v. World Bank 2000, p. 250). Per i paesi dell'OCSE i flussi di investimento estero diretto che nel 1981 rappresentavano in media lo 0,5% del PNL, ammontavano nel 1999 al 3% di un PNL notevolmente superiore (v. Miyake e Sass, 2000, p. 27). La conseguente internazionalizzazione della produzione - ossia l'incidenza delle imprese multinazionali sull'attività economica globale - è cresciuto a un ritmo accelerato alla fine degli anni novanta. Secondo le stime delle Nazioni Unite, dal 1996 al 1998 le affiliate straniere delle società transnazionali hanno aumentato le vendite del 22%, le esportazioni del 27% e il valore aggiunto lordo del 32% (ai prezzi correnti). Il numero dei loro dipendenti passò da 31 a 35 miliardi. Nel 1998, esse rappresentavano il 7% del PIL mondiale e il 36% delle esportazioni mondiali (v. United Nations, World ..., 1999, p. 5).
2. Concettualmente distinta è l'integrazione dei mercati mondiali, misurata dalla convergenza dei prezzi e dal conseguente annullamento delle opportunità di arbitraggio. Come esempio dei primi stadi di questo processo, il differenziale nel prezzo del grano tra Chicago e Londra nel 1870 era del 60%, ma a quarant'anni di distanza si ridusse al 15% grazie al telegrafo e ai costi ridotti del trasporto navale (v. Harley, 1980; cit. in Temin, 1999).
3. La crescita delle transazioni e delle organizzazioni transnazionali non puramente economiche ma di natura politica, culturale e sociale. Un'utile distinzione tipologica è quella tra organizzazioni internazionali nel senso che sono inter-Stati nazionali, come l'Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale, o l'Organizzazione dei Giochi olimpici, e organizzazioni transnazionali della società civile, come l'Associazione economica internazionale o Médecins sans frontières.
4. Una crescente consapevolezza dell'importanza di problemi globali comuni (il riscaldamento dell'atmosfera, le malattie infettive, la regolamentazione dei mercati internazionali al di là del controllo dei singoli governi) e i progressivi tentativi di trovare soluzioni ad essi in organizzazioni con responsabilità globale.
5. Come conseguenza e nel contempo come fattore di accelerazione dei processi menzionati sopra, l'annullamento delle differenze nazionali e la crescente uniformazione delle culture e delle istituzioni. Il dibattito sulla globalizzazione si incentra perlopiù sui seguenti aspetti, che analizzeremo separatamente:
a) l'effettivo grado di integrazione dei mercati globali;
b) la globalizzazione come processo che mina la sovranità degli Stati nazionali, riducendo la loro autonomia nella definizione della politica economica;
c) gli effetti della globalizzazione sulla distribuzione del reddito nella popolazione mondiale, sia all'interno delle singole nazioni che tra di esse;
d) il problematico sviluppo di una 'società mondiale' transnazionale e di un governo internazionale;
e) l'interazione tra il potere nazionale di tipo economico, politico e militare e quello culturale, e la possibilità e l'auspicabilità di conservare istituzioni nazionali distintive quali espressioni di sistemi di valori e di culture specifici delle singole nazioni.
2. Il grado di integrazione dei mercati globali
Il meno integrato dei mercati è quello della forza lavoro non qualificata. Qui si osserva un netto contrasto tra l'inizio del XXI secolo e la fine del XIX. Tra il 1860 e il 1920, in un mondo senza passaporti, trenta milioni di persone emigrarono negli Stati Uniti. All'inizio del XXI secolo, tutte le nazioni (o, nel caso dell'Europa, gruppi di nazioni) hanno istituito un sistema di controlli alle frontiere sui flussi di popolazione, sebbene l'urgenza di migrare si sia semmai ulteriormente intensificata e l'immigrazione illegale - che spesso espone a pericoli mortali coloro che cercano di migrare - sia stata ovunque una significativa fonte di tensioni politiche, in grado talvolta di decidere le sorti delle battaglie elettorali. Tuttavia a seguito del costante invecchiamento della popolazione nel mondo industrializzato, con la conseguente riduzione della quota della popolazione attiva, in paesi diversi come il Giappone e l'Italia si è affermata in misura crescente la tendenza a favorire l'ingresso di flussi controllati di immigrati non qualificati dai paesi con popolazioni 'giovani', per svolgere quelle mansioni che la popolazione locale non è più disposta ad accettare.Il mercato internazionale della forza lavoro altamente qualificata, per contro, alla fine del XX si è progressivamente globalizzato. Questo processo è stato facilitato da due fattori. In primo luogo, l'intensificazione della concorrenza internazionale su mercati di beni e servizi sempre più globalizzati, e il ritmo accelerato con cui sono state introdotte nuove tecnologie, in particolare nei campi dell'elettronica, dell'informatica, delle telecomunicazioni e delle biotecnologie, hanno determinato ovunque una scarsità di forza lavoro qualificata. Nello stesso tempo, la crescente importanza della 'competitività nazionale' quale obiettivo politico costituisce un forte incentivo ad attirare lavoratori stranieri.In secondo luogo, la crescente diffusione dell'inglese come seconda lingua ha reso possibile l'immediata integrazione di programmatori cinesi e indiani nelle industrie della Silicon Valley, e di dirigenti francesi nelle aziende automobilistiche giapponesi (è quanto è successo, ad esempio, allorché la Renault ha assunto il controllo della Nissan). Alla fine del XX secolo era diventata prassi comune tra le classi medio-alte dell'Europa continentale completare l'istruzione dei figli con un prolungato soggiorno in un paese anglofono, e per i futuri professionisti di tutto il mondo - scienziati, tecnici, economisti - seguire corsi di specializzazione negli Stati Uniti dopo aver conseguito una laurea nel proprio paese. Quest'ultimo fenomeno ha contribuito notevolmente alla fuga di cervelli dai paesi sottosviluppati, cui si deve circa la metà delle nuove imprese della Silicon Valley, ed è stato anche, come vedremo, un importante fattore nell'affermarsi dell'egemonia culturale degli Stati Uniti.
La differente facilità di integrazione per ragioni linguistiche e culturali è ovviamente un elemento che influisce sui differenti tassi di reclutamento di personale oltre frontiera che rende possibile un mercato del lavoro integrato. La misura più ovvia è il grado di uniformità dei livelli retributivi per determinate occupazioni tra paesi con diversi livelli di reddito pro capite. I livelli retributivi dei dirigenti negli Stati Uniti, ad esempio, hanno esercitato una forte pressione al rialzo su quelli della stessa categoria professionale della Gran Bretagna, paese anch'esso anglofono, mentre non hanno influito in misura significativa su quelli dell'Europa continentale, e ancor meno su quelli del Giappone.
Un aspetto della globalizzazione che riduce la necessità di mobilità fisica di forza lavoro altamente qualificata è costituito dall'aumento da un lato delle società multinazionali, e dall'altro di catene di fornitura transnazionali. La città di Bangalore, in India, costituisce un esempio significativo: Microsoft, Motorola, Texas Instruments, Oracle e Airbus sono tutte società che hanno centri di ricerca e sviluppo in questa città. Nello stesso tempo, vi sono svariate imprese indiane indipendenti che realizzano programmi di software e costruiscono computer sotto contratto con numerose imprese americane, alcune europee e poche giapponesi. I dati relativi ai brevetti registrati negli Stati Uniti dalle più grandi società mondiali permettono di calcolare la percentuale basata sulla ricerca in paesi diversi da quelli in cui la società ha sede. Per gli anni 1991-1995 la percentuale era pari all'1% per il Giappone, al 56% per la Gran Bretagna, al 9% per gli Stati Uniti e a una media del 35% per l'Europa (v. United Nations, World ..., 1999, p. 200).
Anche nei mercati dei beni e dei servizi si possono osservare gradi assai diversi di globalizzazione. Per merci come il petrolio il mercato è realmente globale. Sebbene gran parte del petrolio sia scambiato con contratti a termine, i prezzi sono legati a un prezzo di riferimento (benchmark) stabilito quotidianamente sul mercato dei futures londinese, che varia più o meno in accordo con il prezzo di West Texas Intermediate sul mercato di New York. Egualmente globale è il mercato di prodotti altamente complessi di cui esistono pochi produttori, come gli aerei o i supercomputer, sebbene le decisioni d'acquisto siano determinate da ogni genere di interessi societari e relativi alla sicurezza nazionale più che dalla qualità e dal prezzo. All'altro capo della scala, i mercati di prodotti alimentari sono ancora nazionali o locali, tranne che per una piccola frazione di prodotti di marca. Si è molto discusso alla fine degli anni novanta sul ruolo che l'espansione di Internet e la diffusione mondiale del cosiddetto 'commercio elettronico' avrebbero avuto sull'accelerazione della globalizzazione dei mercati. Arrivati al 2000 è diventato evidente che l'impatto sulle vendite dirette dal produttore al consumatore nelle economie nazionali è limitato, e ancora più limitato su quelle transnazionali (fatta eccezione per alcuni beni altamente standardizzati come i libri in lingua inglese).
Per i beni intermedi oggetto di scambio tra imprese commerciali - come ad esempio le macchine utensili - l'effetto sembra più marcato, in quanto il commercio elettronico consente una maggiore riduzione dei costi di ricerca e informazione. Resta da vedere, tuttavia, in che misura l'intensificarsi della concorrenza che con tutta probabilità ne deriverà contribuirà a un più rapido turnover di fornitori - ossia in che misura la riduzione dei costi di ricerca e informazione controbilancerà le considerazioni relative all'affidabilità, alla qualità e al servizio di assistenza tecnica che favoriscono le relazioni con una catena di fornitori stabile (contraenti relazionali).I mercati in cui la globalizzazione sembra pienamente realizzata sono quelli finanziari, e poiché le credenziali finanziarie conferiscono potere, sono anche i mercati la cui globalizzazione ha le conseguenze più estese e controverse.Anche qui si riscontrano differenti gradi di globalizzazione. Il mercato più globale - l'insieme più completo di legami (mediati elettronicamente) tra i centri in cui avvengono le transazioni - è quello valutario quale si è sviluppato a partire dal 1971, con la fine del regime dei tassi di cambio fissi e il rapido collasso del successivo accordo smithsoniano. Si tratta di un mercato autenticamente globale in quanto "una complessa rete di tassi di cambio copre l'intero globo [...] il concetto di tasso di cambio è universalmente compreso, la valuta è un prodotto conosciuto e scambiabile a livello mondiale [...] e non vi sono barriere all'entrata" (v. O'Brien, 1992, p. 34). Le casalinghe di Dayton, nell'Ohio, che effettuano il cosiddetto day trading (transazioni nell'arco delle ventiquattr'ore) possono passare ore al computer comprando e vendendo al margine pesos, yuan ed escudos per milioni con una quota di partecipazione iniziale di 10.000 dollari. Per quanto riguarda l'equiparazione dei prezzi, una variazione di un punto base nel prezzo in yen di un dollaro si riflette nel giro di pochi minuti a New York e a Londra.L'importanza cruciale del mercato azionario è data dal fatto che tutti i flussi finanziari transnazionali (o perlomeno tra zone valutarie) sono mediati da esso. È vero che questi flussi 'reali' rappresentavano solo una piccola parte delle transazioni per un valore di due milioni di miliardi effettuate giornalmente nel 1999, gran parte delle quali era di natura puramente speculativa - dalle operazioni di hedging delle transazioni future alle pure speculazioni sui movimenti valutari futuri non correlate ad altre transazioni.
Nel 1999 il saldo degli scambi di beni e servizi richiedeva transazioni giornaliere per un valore di circa 20 miliardi di dollari, l'investimento estero diretto transazioni per un valore di 2,5 miliardi di dollari e altri flussi di reddito e di capitale (interessi passivi, dividendi dei profitti e investimenti di portafoglio) transazioni per un valore di circa un miliardo.Una spiegazione della rapida crescita delle transazioni valutarie va ricercata nell'incremento del volume e della liquidità dello stock finanziario totale. Secondo alcune stime, tra il 1980 e il 1994 la formazione lorda di capitale fisso nei paesi dell'OCSE registrò una crescita del 2% annuo, mentre lo stock di attività finanziarie liquide crebbe di oltre il 5%, ossia di circa 30.000 miliardi di dollari nel corso dell'intero periodo. L'aumento del valore dei titoli azionari (un incremento - in larga misura inflazionistico - in termini di valori di mercato piuttosto che di nuove emissioni) rappresentava un terzo di quella crescita di 30.000 miliardi di dollari, e l'incremento delle emissioni di titoli di debito pubblico un altro terzo. La quota restante era rappresentata da un incremento della massa monetaria. Ma mentre quest'ultima - perlopiù depositi bancari - crebbe in termini reali solo del 2% annuo, le obbligazioni societarie 'disintermediate' e le polizze di credito commerciale aumentarono dell'11% (v. Bryan e Farrel, 1996). In altre parole, vi è stato un significativo spostamento dalla creazione di credito attraverso il prestito bancario - che ha in misura predominante una dimensione nazionale - verso la creazione di credito mediante l'emissione di titoli, che in via di principio possono essere scambiati a livello mondiale. È questo il fenomeno noto come securitisation.
Il ritmo con cui sono emessi nuovi titoli ha continuato ad aumentare: si è passati da 0,2 trilioni di dollari nel 1988 a 1,2 trilioni di dollari nel 1998 (v. Okina e altri, 1999, p. 4).La distribuzione globale di questo crescente stock di attività finanziarie, tuttavia, è assai squilibrata. Un'analisi delle attività degli investitori istituzionali (compagnie di assicurazione, fondi pensione, società di investimento) misura il loro volume totale in rapporto al PIL del paese in cui risiedono i titolari. Le percentuali variano dal 219% degli Stati Uniti e dal 214% della Gran Bretagna al 70-80% del Giappone e della Germania, sino all'1% della Turchia (cfr. "Financial market trends", 2000, p. 136). La classificazione in base al paese dal quale le attività sono gestite non coincide esattamente con la classificazione in base alla nazionalità dei proprietari beneficiari, ma queste cifre possono fornire un'indicazione approssimativa del differente peso dei servizi finanziari nelle diverse economie.I mercati delle obbligazioni, delle azioni e delle assicurazioni restano tuttavia sostanzialmente nazionali. Persino all'interno dell'Unione Europea si è cominciato a parlare di possibilità di fusione tra le borse di Londra, Francoforte, Parigi e Stoccolma solo nel 2000. Senza dubbio sembra esservi una tendenza consolidata delle borse a muoversi sincronicamente in tutto il mondo, ma ciò non è necessariamente segno di un'autentica integrazione dei mercati. Uno studio dei movimenti di borsa in due periodi, gli anni 1990-1994 e gli anni 1995-1999, ha esaminato le 21 correlazioni accoppiate tra gli utili settimanali in ciascuna delle principali borse mondiali (New York, Londra, Parigi, Madrid, Francoforte, Milano e Tokyo). Solo le sei correlazioni relative a Tokyo non mostravano un incremento tra il primo e il secondo periodo, mentre la correlazione media aumentava da 0,42 a 0,54. Ciò, tuttavia, potrebbe essere più il risultato della globalizzazione dell'informazione, che influisce sugli umori che determinano i comportamenti di vendita e di acquisto, che non di una reale integrazione dei mercati grazie ad un'accresciuta densità degli scambi con l'estero e all'eliminazione delle opportunità di arbitraggio.
Secondo gli autori dello studio in questione, tuttavia, un esame più attento dei dati relativi ai mercati di New York, Francoforte e Madrid dimostrava l'esistenza di una effettiva integrazione, autorizzando a concludere che ciò "significa una maggiore efficienza del mercato finanziario e un miglioramento nelle combinazioni di rischio/remunerazione a disposizione degli investitori" (v. Ayuso e Blanco, 2000).L'assunto di razionalità implicito in tale conclusione - l'idea cioè che i proprietari e i gestori di questo volume in espansione di liquidità finanziaria, che ora si sposta tanto più facilmente nel mondo, possono basare e basano effettivamente le loro decisioni di investimento su attente e accurate valutazioni del rapporto rischi/benefici - sembrerebbe smentito dagli attuali movimenti dei mercati. Quella che è stata definita 'euforia degli scambi', la corsa all'acquisto di titoli in rialzo che determina ulteriori rialzi sino a quotazioni che nessuna aspettativa sui dividendi può giustificare, è sempre stata una caratteristica dei mercati azionari (v. Shiller, 2000), che si è manifestata nel modo più evidente in occasione del boom di Internet alla fine del XX secolo. Questi comportamenti possono essere giustificati come rischio razionale solo da chi è convinto di possedere informazioni, capacità di preveggenza o di intuizione privilegiate che gli consentono di realizzare i propri guadagni prima che la bolla speculativa scoppi. Ma si tratta di un'illusione. Come si legge nel World economic outlook del Fondo Monetario Internazionale (v. IMF 1999, pp. 68-69) "i comportamenti e le mode di massa che si osservano occasionalmente nei mercati maturi si sono diffusi con l'accresciuta integrazione internazionale dei mercati finanziari". La globalizzazione "può ridurre gli incentivi alla raccolta di informazioni", cosicché "le aspettative si formano in un contesto di informazione imperfetta e asimmetrica". Gli economisti classici spiegavano allo stesso modo le ondate di panico in un linguaggio meno anodino: "In particolari momenti una notevole quantità di stupidi possiede una notevole quantità di denaro stupido" (cfr. Bagehot, 1880, cit. in Kindelberger, 1978, p. 1).
Questo comportamento degli investitori è una delle cause della volatilità che caratterizza i mercati valutari. I tassi di cambio oggi sembrano essere determinati più dai flussi di capitali che dai flussi commerciali, e la loro volatilità ha serie conseguenze per le economie più deboli, come ha dimostrato nel modo più evidente la crisi asiatica del 1997. I timori di un crollo della valuta in Thailandia, esacerbati dagli attacchi speculativi mirati a trarre profitto da tale futuro collasso, causarono la liquidazione e il rimpatrio dapprima graduali e poi sempre più frenetici delle partecipazioni straniere in titoli e proprietà immobiliari (nonché una fuga di capitali nazionali da tali mercati), assicurando così il verificarsi del temuto crollo della valuta. Gli effetti a catena sull'intero sistema economico provocarono la disoccupazione e l'impoverimento di una parte considerevole della popolazione. Il contagio (un'inversione delle aspettative relative a un 'boom asiatico' senza fine da parte degli investitori) si estese alla Malesia, all'Indonesia e all'economia ben più florida della Corea del Sud. Secondo le stime dell'Institute for International Finance, il flusso netto di fondi privati dal resto del mondo verso questi quattro paesi, che nel 1996 ammontava a 93 miliardi di dollari, nel 1997 si ridusse a 12,1 miliardi di dollari. Nella sua analisi di questi eventi Rude arriva alla conclusione che essi furono una conseguenza "della natura stessa delle esposizioni in scambi e investimenti assunte dagli operatori del mercato nazionale e internazionale [...] Via via che il capitale straniero continuava ad affluire in quella regione e le conseguenti esposizioni aggregate aumentavano progressivamente [...] gli investimenti assunsero un carattere sempre più speculativo, la qualità delle loro attività peggiorò, aumentarono il grado di indebitamento associato e i rischi legati ai tassi d'interesse, e le maturità si abbreviarono. Inoltre, col diffondersi del ricorso a strumenti finanziari derivati e ad altre forme di operazione 'fuori bilancio', le esposizioni del mercato aggregato divennero più complesse e nello stesso tempo meno trasparenti" (v. Rude, 1999, p. 10).Come vedremo meglio in seguito, è il carattere sistemico di queste crisi ricorrenti che ha riacceso la discussione sull'instabilità di un sistema finanziario mondiale improntato all'anarchia e sulla necessità di nuovi meccanismi di controllo.
La questione di fondo per quel che riguarda la globalizzazione dei mercati dei capitali è direttamente connessa alla questione se vi sia un'inevitabile convergenza verso un modello istituzionale, unitario e omogeneo di capitalismo, ovvero se vi sia una convergenza dei tassi di interesse: le imprese di tutto il mondo dovranno pagare lo stesso prezzo per il loro capitale?Vi sono chiaramente due ostacoli alla realizzazione di tale convergenza. Il primo è rappresentato dal cosiddetto 'enigma della preferenza nazionale', ovvero dalla costante preferenza degli investitori per gli investimenti nella sfera conosciuta, familiare e fidata della propria nazione (gli investimenti interni, osservava Marshall nel 1923, "continuano a conservare un notevole grado di vantaggio pecuniario e attrattiva sentimentale"; v. Asso, 2001). Questa propensione è considerata un 'enigma' dagli economisti che trovano sconcertante il fattore sentimentale. Il secondo ostacolo è rappresentato dalla volatilità dei tassi di cambio. Il cosiddetto 'yen carry trade' alla fine degli anni novanta - l'operazione consistente nel contrarre prestiti in yen a tassi di interesse estremamente bassi da convertire in dollari per investimenti in titoli americani - si è rivelato meno vantaggioso di quanto ci si poteva aspettare dato il costo delle operazioni di copertura dal rischio di cambio.
Resta da vedere se la tendenza sia quella di un graduale superamento di questi due ostacoli. A tale fine occorre stabilire in primo luogo se si vada verificando un mutamento delle preferenze a seguito dei seguenti sviluppi: a) il crescente accorpamento degli investimenti in fondi comuni e fondi pensione che hanno le risorse per raccogliere informazioni su scala mondiale; b) il mutamento strutturale della società verso una maggiore familiarità e una maggiore tolleranza nei confronti di rapporti economici a distanza con perfetti estranei; c) un'accresciuta 'consapevolezza globale'.In secondo luogo occorre chiedersi se le tecniche di copertura siano migliorate in misura sufficiente da ridurre in modo significativo i rischi di cambio. Vi è stata indubbiamente una crescita delle operazioni fuori bilancio che fanno ricorso a strumenti finanziari derivati per frazionare il rischio delle attività. Ciò "rende più regolare il consumo attraverso una diversificazione del rischio" e quindi "migliora l'efficienza del trasferimento del rischio" (v. Okina e altri, 1999), ma se questo migliora senza dubbio i redditi degli operatori in strumenti finanziari derivati, resta in forse se migliori effettivamente l'efficienza delle transazioni o se viceversa contribuisca a renderle meno trasparenti.
La misura della convergenza dei tassi di interesse presenta delle difficoltà concettuali. Ovviamente qui si tratta non dei tassi di interesse nominali, bensì dei tassi di interesse reali. Trattare il tasso di interesse reale come il tasso nominale più l'inflazione corrente può essere utile per i movimenti di capitale a breve e medio termine, ma gli investimenti a lungo termine sono influenzati dalle aspettative relative all'andamento dell'inflazione. E poiché tutte le illazioni su tale andamento sono dubbie, esistono le più svariate interpretazioni su quale sia il 'vero' tasso reale.Un approccio differente, di tipo induttivo, consiste nella misurazione dei flussi di capitale. Nel 1990 i flussi netti di capitale - misurati dal totale degli avanzi di parte corrente in rapporto al PIL nominale delle nazioni - erano ancora inferiori (intorno al livello del 3%) rispetto agli anni precedenti la prima guerra mondiale, quando le esportazioni di capitali della nazione più ricca, la Gran Bretagna., talvolta toccarono punte del 9% del PIL. Una misura analoga - il cosiddetto 'modello di Feldstein-Horioka' - considera la relazione tra risparmio e investimenti. Nel caso degli Stati Uniti, il mercato più integrato che si possa immaginare, la correlazione tra risparmio e investimento nei singoli Stati è prossima allo zero. Se la relazione risparmio-investimento tra Stati indipendenti fosse egualmente bassa, questo sarebbe un chiaro segno di integrazione del mercato. Ma non è così, sebbene si intravveda un certo grado di convergenza. Tra i paesi dell'OCSE, negli anni settanta la correlazione in questione era elevata: il 75% della variazione nella quota di investimento dei paesi membri era rappresentata dalla quota dei risparmi. Negli anni ottanta questa percentuale scese al 60% (v. Wade, 1996, p. 74).I flussi netti di capitale sono probabilmente meno importanti di quelli lordi per la convergenza dei tassi di interesse. Per quanto possano essere inflazionati dal cosiddetto churning (pratica seguita da alcuni gestori di investimenti, che consiste nell'effettuare un gran numero di operazioni di compravendita inutili per aumentare le proprie commissioni), essi sono indubbiamente in crescita. Lo dimostra il fatto che le attività nette sull'estero delle banche dei paesi dichiaranti alla Banca dei regolamenti internazionali aumentarono da 2,5 trilioni di dollari del 1988 a 5,5 trilioni nel 1998 (v. Okina e altri, 1994, p. 4). Sotto il profilo dell'impatto dei mercati finanziari sulle istituzioni e sull'amministrazione delle società, la convergenza dei tassi di interesse potrebbe essere considerata meno importante della convergenza dei rendimenti dei titoli. La letteratura sull'argomento concorda sul fatto che questi ultimi presentano una variazione da nazione a nazione assai maggiore rispetto ai tassi di interesse.
3. Globalizzazione e politica economica nazionale
I tassi di cambio sono un ostacolo all'integrazione del mercato dei capitali, ma nello stesso tempo, quando sono associati alla libertà di movimento dei capitali, costituiscono un fattore decisivo dell'erosione della sovranità e dell'autonomia dei governi nazionali, in quanto limitano le loro scelte di politica macroeconomica.Nel primo periodo di rapida crescita del commercio estero mondiale, tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX (si è calcolato che nel 1913 il volume del commercio espresso come percentuale del PNL mondiale raggiunse un livello altrettanto elevato quanto quello registrato nei periodi successivi sino agli anni settanta), la crescita fu facilitata dal regime aureo, basato sulla piena convertibilità in oro delle principali valute. La crescita degli scambi internazionali ricominciò partendo da livelli assai inferiori dopo la prima guerra mondiale, ma fu soffocata dalle politiche autarchiche che fecero seguito alla depressione degli anni trenta. Secondo le stime di Kindleberger (v., 1986, p. 172), le importazioni di 75 paesi diminuirono costantemente all'aumentare dei dazi doganali, passando dai quasi tremila miliardi di dollari dell'inizio del 1929 a meno di mille miliardi (a dollari a prezzi costanti) nel 1933. La ripresa della crescita registrata nel secondo dopoguerra avvenne in un mondo 'post-Bretton Woods', che aveva imparato qualcosa dalle disastrose conseguenze economiche e politiche della strategia di beggar-my-neighbour degli anni della depressione. Era un mondo in cui si era tornati al regime di cambi fissi, con aggiustamenti periodici mediante svalutazione da parte dei paesi con un alto tasso di inflazione, ma con le valute ancorate al dollaro come moneta di riferimento. Nella conferenza di Bretton Woods in cui venne stabilito il nuovo sistema monetario, venne chiaramente riconosciuto che un prerequisito per il suo funzionamento (e ciò rappresentava una differenza rispetto al periodo precedente al 1913) avrebbe dovuto essere un sistema di controlli sul flusso internazionale di capitali, sebbene la convertibilità delle valute per le transazioni in conto corrente venisse presto istituita in molti paesi europei, e progressivamente in Giappone. Il sistema di Bretton Woods durò solo un quarto di secolo. La convertibilità del dollaro in oro a un prezzo fisso di fatto non era un elemento essenziale del sistema, dato che i paesi del resto del mondo usavano la divisa statunitense come moneta di intervento sul mercato dei cambi per mantenere la parità dei tassi di cambio, avevano riserve in larga parte in buoni del tesoro statunitensi e impostavano la politica monetaria per adeguarsi ai tassi di inflazione americani (v. McKinnon, 1996, p. 45).
Fu nondimeno la decisione del presidente Nixon di svalutare il dollaro rispetto all'oro e di imporre un dazio addizionale sulle importazioni ad affrettare la fine del sistema di Bretton Woods e a portare, dopo due anni di infruttuosi tentativi di stabilire un nuovo sistema di parità, a un regime di tassi fluttuanti. I principali fattori che accelerarono il cambiamento furono una crescita dell'inflazione negli Stati Uniti, dovuta alla guerra nel Vietnam, e l'accumulazione di un ingente volume di depositi in dollari fuori piazza (eurodollari) e fuori della portata della regolamentazione del governo statunitense, associata alla crescita di liquidità finanziaria e del volume dei flussi di capitali monetari a breve termine (il cosiddetto hot money) che speculano sulla svalutazione e contribuiscono ad accelerarla. La resa del mercato dei cambi alle forze del mercato diede notevole impulso allo smantellamento del sistema di controlli sui movimenti di capitale - in Canada, Germania e Svizzera nel 1973, negli Stati Uniti nel 1974, in Gran Bretagna nel 1979, in Giappone nel 1980, in Francia e in Italia nel 1990, in Spagna e in Portogallo nel 1992 (v. Eatwell e Taylor, 2000, p. 3). La crescita del commercio mondiale, facilitata dall'abbassamento delle tariffe doganali e sotto gli auspici del GATT, le crescenti possibilità di nascondere i movimenti di capitale con fatturazioni sottostimate o sovrastimate delle operazioni commerciali, soprattutto dei trasferimenti intramultinazionali, nonché la diffusione di convinzioni ideologiche e di teorie accademiche favorevoli al libero mercato in tutti i campi (v. Yergin e Stanislaw, 1998), contribuirono a rendere sempre più onerosi e inefficaci i controlli sui movimenti di capitale.Il passaggio al sistema dei cambi fluttuanti associato alla liberalizzazione dei flussi di capitale ebbe effetti ambivalenti sulla globalizzazione.
L'incertezza contribuì a far perdere slancio alla crescita del commercio, una valanga di restrizioni quantitative sulle importazioni e le continue controversie commerciali tra Stati Uniti ed Europa, che segnarono l'ascesa del Giappone a principale esportatore di manufatti, furono particolarmente marcate nella prima metà degli anni ottanta, quando il dollaro sembrava fluttuare continuamente al rialzo. Ciò portò a una qualche concertazione degli interventi della banca centrale sui mercati valutari con gli accordi del Plaza e del Louvre, ma sempre in una forma non sistematica e ad hoc. Ma il grado di azzardo del mercato dei cambi aumentò notevolmente l'importanza dei mercati finanziari e accrebbe il potere della più significativa forza globalizzatrice, l'industria dei servizi finanziari.Un'altra conseguenza fu l'accresciuta esposizione delle economie nazionali alle forze del mercato globale, che comportò una riduzione della libertà d'azione dei governi nazionali nella definizione della politica macroeconomica. Come si legge in un'elegante illustrazione della situazione: "I governi e le banche centrali non possono contemporaneamente conservare l'indipendenza della politica monetaria interna, stabilire i propri tassi di cambio e consentire movimenti di capitali in entrata e in uscita senza restrizioni. Poiché in un mercato aperto i tassi di interesse, di inflazione e di cambio si influenzano reciprocamente, nel corso del tempo si possono raggiungere al massimo solo due di questi obiettivi" (v. Pauly, 1997, p. 23, che sintetizza le tesi di Mundell, v., 1962 e di Fleming, v., 1962).L'applicazione più significativa di questo teorema è che le politiche keynesiane di pieno impiego e di sostegno alla produzione adottate nell' 'epoca aurea' del dopoguerra furono rese possibili dall'esistenza di controlli sui movimenti di capitale e di un sistema di cambi fissi. Ora, se si riducono i tassi di interesse per stimolare l'economia sussiste il pericolo di una fuoriuscita di capitali che inibisce gli investimenti e la crescita della produzione, determinando una caduta del tasso di cambio e un'inflazione importata. Il fallimento della politica di crescita economica di Mitterand nel 1982 è citato spesso come classico esempio di come le intenzioni dei governi possono essere vanificate dal peso preponderante di questi condizionamenti.
Dopo la dolorosa esperienza degli anni settanta, il controllo dell'inflazione è diventato il principale obiettivo della politica macroeconomica e varie nazioni, nonché l'area europea nel suo complesso, hanno sancito formalmente l'indipendenza delle loro banche centrali con l'esplicito mandato di mantenere stabile il valore della moneta al fine sia di conservare la fiducia dei mercati finanziari internazionali, sia di evitare i problemi distributivi interni causati dall'inflazione. Questa subordinazione della politica monetaria agli obiettivi anti-inflazionistici (in condizioni di libertà di movimento dei capitali) ha l'effetto, in primo luogo, di rendere la politica fiscale e le politiche dal lato dell'offerta gli unici strumenti per regolare produzione e occupazione, e in secondo luogo di abbandonare il tasso di cambio ai capricci dei flussi di capitale. E come hanno dimostrato all'inizio del XXI secolo i flussi di investimento dall'Europa agli Stati Uniti e il conseguente crollo dell'euro - nonostante i segnali favorevoli di crescita dell'economia europea - questi capricci possono avere notevole peso.Anche l'ultima arma a disposizione degli Stati nazionali, ossia la politica fiscale, è gravemente limitata dalle pressioni esercitate dal regime di concorrenza. I paesi in via di sviluppo alla ricerca di investimenti esteri diretti - spesso non tanto per le capacità tecnologiche e manageriali, e per le opportunità di apprendere tali competenze e di acquisire quelle capacità, quanto per il capitale che apportano - sono da tempo in competizione per offrire agevolazioni fiscali e altri incentivi. E avendo ottenuto tali investimenti notoriamente 'liberi' (in particolare quelli il cui prodotto è destinato all'esportazione anziché al mercato interno del paese ospite), hanno dovuto adattare il loro regime fiscale alla necessità di conservarli (sebbene il Giappone, la Corea e ora la Cina abbiano dimostrato una certa abilità nel lasciarli andar via una volta appreso quanto necessario). Nei paesi industrializzati, in cui il settore dei servizi ha un peso crescente nell'economia, l'investimento interno di cui vanno in cerca, e le attività imprenditoriali nazionali che sperano di non perdere, riguardano in misura crescente il settore dei servizi, e soprattutto quello particolarmente lucroso dei servizi finanziari, che è ancora più 'liberalizzato' di quello industriale.
L'inizio del secolo ha visto una generale riduzione delle imposte sulle imprese in Europa; vi è stata altresì una vivace controversia sulla proposta di una trattenuta alla fonte unificata sulle transazioni nel mercato delle obbligazioni tra la Gran Bretagna (il paese che a suo dire avrebbe avuto più da perdere da una migrazione a New York del giro d'affari legato al mercato obbligazionario ) e il resto dell'Unione Europea. Un rapporto presentato al summit dell'Unione Europea, tenutosi a Helsinki nel dicembre del 1999, identificava 66 diversi tipi di trattamenti fiscali preferenziali concessi dai governi europei per attirare le imprese straniere. In Olanda, ad esempio, il governo intende negoziare segreti accordi preliminari con imprese straniere sull'importo delle tasse che dovranno pagare; a Gibilterra, alcune filiali di società non residenti sono esenti da tasse (v. "Economist Survey", 2000, p. 12).L'importanza prioritaria per i governi delle principali democrazie industriali di mantenere la competitività nazionale conferisce agli interessi legati al mondo dell'imprenditoria un notevole potere di influenza sulle scelte politiche. La tutela dell'ambiente, il rallentamento del riscaldamento del globo possono essere riconosciuti in via di principio come una buona cosa. Ma un paese che cercasse di affrontare questi problemi globali regolamentando le imprese con maggior rigore di altri rischierebbe di essere punito con la fuga all'estero di importanti aziende. La necessità di attrarre o di trattenere le imprese influenza non solo il livello delle imposizioni fiscali sulle aziende e le regolamentazioni ambientali, ma anche i sistemi di controllo, i requisiti di trasparenza e la regolamentazione bancaria.Tale esigenza influenza altresì le imposte sulle persone fisiche, con notevoli implicazioni per la struttura sociale e il sistema di welfare. Le decisioni aziendali non sono prese solo in vista del profitto; i managers che prendono tali decisioni hanno anch'essi delle preferenze - in alcuni casi preferenze forti - relativamente al luogo in cui vogliono vivere e pagare le tasse. La tendenza ad alleggerire la pressione fiscale sui redditi più elevati cominciò all'inizio degli anni ottanta con il presidente Reagan negli Stati Uniti e con il governo di Margaret Thatcher in Gran Bretagna, quando le loro dottrine neoliberiste si affermarono sugli orientamenti socialdemocratici (in America la 'grande società') degli anni sessanta e settanta. 'Remunerare le imprese' cominciò ad apparire più importante che compensare le disparità di reddito attraverso una politica fiscale redistributiva.
Il diffondersi di questa tendenza - nel 1998 il Giappone ridusse l'aliquota massima dell'imposta sul reddito, la Francia e la Germania hanno fatto altrettanto nelle loro riforme fiscali del 2000 - può essere attribuito in parte ai seguenti fattori:
a) l'affermarsi delle ideologie neoliberiste e la convinzione che la concorrenza basata sull'interesse personale, piuttosto che l'utilità pubblica o qualunque altra forma di altruismo, è l'unica motivazione efficace, ed egualmente soddisfacente sul piano morale, per ottenere l'efficienza economica;
2) la maggiore importanza attribuita a tale efficienza economica (la competitività nazionale) nei programmi politici nazionali con l'espandersi del commercio mondiale e l'intensificarsi della competizione internazionale dei mercati;
3) il declino dei legami di solidarietà nazionali che avevano sostenuto in passato la socialdemocrazia (a seguito in parte di una 'atomizzazione privatizzata', in parte di una 'globalizzazione della coscienza' di stampo cosmopolita).
Un altro fattore potrebbe essere individuato negli interessi elettorali: i governi potrebbero trovare difficile essere rieletti se imponessero tasse più onerose degli altri. Ma la competizione dei regimi fiscali - l'esigenza di attirare imprenditori per attirare le imprese - ha avuto indubbiamente un ruolo importante; ma anche l'esigenza di attirare stelle dello sport, dei media e altri personaggi sempre più 'pigliatutto' è un altro aspetto dei mercati globali (v. Frank e Cook, 1995). Luciano Pavarotti, per fare un esempio, ha avuto una lunga controversia legale con il governo italiano il quale sosteneva che il cantante avrebbe dovuto essere considerato ancora residente a Modena, e non a Montecarlo come dichiarava.
La minaccia che le società multinazionali possano cambiare la loro localizzazione fisica - con gravi conseguenze per l'occupazione, la produzione e il gettito fiscale del paese che viene abbandonato - costituisce un limite per le politiche di governo. Un altro limite è rappresentato dall'abilità di tali società di spostare il loro reddito tassabile da una giurisdizione all'altra attraverso il cosiddetto transfer pricing, o 'prezzo di trasferimento' (relativo alle transazioni tra le loro varie affiliate nazionali) e altri espedienti contabili, senza mutare la localizzazione fisica delle loro attività. La News Corporation britannica, una delle principali società mediatiche, avrebbe guadagnato secondo alcuni calcoli 3.000 miliardi di dollari tra il 1987 e il 2000, senza pagare alcuna imposta sulla società (v. "Economist Survey", 2000, p. 2). I paradisi fiscali, di cui le isole Cayman sono l'esempio più famoso, prosperano grazie alla presenza in larga misura solo nominale delle sedi centrali di società multinazionali e alle tasse estremamente basse sui loro ingenti profitti. Un rapporto dell'OCSE del 1998 metteva in luce come tra il 1985 e il 1994 l'investimento diretto totale dei paesi del G7 nei paradisi fiscali dei Caraibi e del Sud Pacifico fosse più che quintuplicato, superando i 200 miliardi di dollari (ibid., p. 13). Uno studio del 1994 stimava che il 26% delle attività e il 31% dei profitti delle multinazionali americane erano registrati in paradisi fiscali, dove lavorava solo il 4% dei loro dipendenti (v. Hines, 1994; cit. in "Economist Survey", 2000, p. 13).All'inizio del nuovo secolo il problema dell'erosione della base imponibile ha cominciato a destare crescenti preoccupazioni. A intensificare tali preoccupazioni ha contribuito l'uso sempre più diffuso di Internet, che riduce enormemente i costi di gestione di imprese globali localizzate nominalmente in paradisi fiscali, e consente a molte transazioni economiche di eludere la tassa sul valore aggiunto. Parleremo in seguito dei tentativi di condurre un attacco concertato ai paradisi fiscali.
4. Distribuzione del reddito
Keynes descriveva nel modo seguente il mondo globalizzato alle soglie della prima guerra mondiale: "Gli abitanti di Londra potrebbero ordinare per telefono, mentre sorseggiano il loro tè a letto, i vari prodotti dell'intero globo nelle quantità desiderate, e aspettarsi ragionevolmente di vederseli consegnare al più presto a casa: nello stesso tempo potrebbero investire le loro ricchezze nelle risorse naturali e nelle nuove imprese di ogni parte del mondo, e partecipare senza sforzo e senza problema alcuno ai loro eventuali profitti (v. Keynes, 1919, pp. 6-7; cit. in Temin, 1999, p. 77).La quota della popolazione mondiale - persino quella della popolazione britannica - che poteva usufruire di questi vantaggi era naturalmente minima. La globalizzazione apporta indubbi benefici alle classi agiate dei paesi egemoni. E secondo la maggior parte degli economisti, si tratta di benefici ampiamente diffusi. È oggi opinione concorde che le tradizionali teorie dei vantaggi comparati statici - che spiegano la ragione per cui il Portogallo e la Gran Bretagna possono guadagnare scambiando lana e vino - hanno scarsa rilevanza nella valutazione pratica degli effetti del libero mercato sulla distribuzione dei benefici della crescita economica in una situazione caratterizzata dal rapido mutamento economico, dalla competizione intensificata nei mercati globali e dal libero movimento di capitali e lavoro altamente qualificato.Una corrente di opposizione alla globalizzazione e al libero mercato è espressa da alcuni gruppi - tra cui, ad esempio, i dimostranti che hanno contestato il meeting del WTO di Seattle del 1999 - secondo i quali per i paesi ricchi consentire il libero accesso ai loro mercati di prodotti provenienti da paesi con manodopera a basso costo significa essere conniventi con lo spietato sfruttamento dei lavoratori in condizioni di miseria e dei minori nei paesi poveri, tutto a beneficio delle società multinazionali dei paesi ricchi. Secondo le stime dell'UNCTAD, nel 1999 il protezionismo sarebbe costato ai paesi in via di sviluppo 700 miliardi di dollari in esportazioni, e si noti che questo argomento è avanzato con particolare forza dalle organizzazioni sindacali, i cui membri potrebbero essere minacciati da queste importazioni.
Negli anni trenta esso assunse la forma di una protesta contro il cosiddetto 'dumping sociale'. Negli anni novanta la terminologia è stata aggiornata e si è cominciato a parlare di "violazione dei diritti umani". E la richiesta che le restrizioni commerciali vengano applicate a paesi che non accettano standard concordati di condizioni di lavoro eque ha acquistato forza, specialmente negli Stati Uniti, tanto da indurre un'amministrazione democratica in fase di campagna elettorale a trasformarla in una proposta formale al meeting del WTO del 1999.All'argomento delle fabbriche sfruttatrici e del lavoro minorile i sostenitori del liberismo ribattono rinviando "agli operai della Cina meridionale, sfuggiti al lavoro massacrante dei campi e alla miseria per andare incontro - lavorando, è vero, in fabbriche sfruttatrici - ad un autentico benessere e ad una vita indipendente" (v. Martin, 1997).Non è difficile trovare esempi a sostegno di tale replica nella storia economica. Nel giro di un secolo e mezzo il Giappone si è trasformato da paese in cui l'85% della popolazione era dedito all'agricoltura e viveva in condizioni di miseria in una ricca nazione industriale. La Corea del Sud e le altre cosiddette economie di nuova industrializzazione o Tigri asiatiche hanno seguito lo stesso percorso essenzialmente con mezzi analoghi, ossia avvantaggiandosi del basso costo della manodopera per aumentare le esportazioni, specialmente di manufatti, e ottenere così la valuta straniera necessaria per importare beni capitali che incorporano tecnologie superiori, per poi appropriarsi di tali tecnologie e sviluppare alla fine la capacità di affiancarsi alle nazioni 'avanzate' quali centri propulsori del progresso tecnologico.Si deve all'economista giapponese Akamatsu la famosa analogia dello 'stormo di oche': le nazioni, cioè, si muovono nella stessa direzione, ma a distanze differenti dal paese leader; le industrie ad alta intensità di lavoro con tecnologie primitive diventano poco remunerative quando il valore aggiunto di tali industrie determina un aumento dei salari, sicché esse vengono passate alle 'oche' della fila che segue.
Si noti, tuttavia, che le condizioni alle quali sinora questo percorso è stato seguito con successo non sono affatto universali - condizioni che Adam Smith ben sintetizzava allorché parlava di "pace, buon governo e riscossione regolare delle tasse" quale prerequisito per accrescere la ricchezza delle nazioni. Tra i requisiti essenziali figurano: un forte governo centrale che può contare su leaders politici e amministrativi di qualità, più preoccupati di promuovere l'interesse nazionale che di avvantaggiarsi con l'uso corrotto del potere; un alto saggio di risparmio; consistenti investimenti nel settore dell'istruzione e della sanità e delle infrastrutture fisiche per l'industria e il commercio; una classe di imprenditori capaci e ricchi di iniziativa, più interessati a costruire qualcosa di durevole che alla speculazione sui movimenti dei prezzi. Questo percorso ha anche comportato, almeno sino a uno stadio di sviluppo piuttosto avanzato, una serie di controlli sul commercio estero, e controlli ancora più rigidi sui movimenti di capitale in uscita e in ingresso - persino in paesi come Taiwan e la Corea del Sud, acclamati all'epoca della guerra fredda come modelli di sviluppo della libera impresa (v. Wade, 1989).L'assenza di alcune o di tutte queste condizioni in molti paesi spiega in larga misura il divario crescente tra i redditi pro capite delle varie nazioni negli anni novanta. L'Human development report 1999 (v. United Nations, Human..., 1999, p. 3) mette a confronto i riusciti percorsi di crescita dei paesi quali quelli asiatici, il Cile, la Repubblica Domenicana, l'India, le Mauritius, la Polonia, la Turchia e molti altri - i quali negli anni novanta hanno avuto un incremento delle esportazioni superiore al 5% - con i 55 paesi, perlopiù localizzati nell'Africa subsahariana, l'Europa orientale e l'ex Unione sovietica, in cui il reddito pro capite nello stesso decennio ha registrato un declino.Lo stesso rapporto fornisce misure significative in merito alla distribuzione notevolmente sperequata del reddito mondiale. Nel decennio considerato, un quinto della popolazione mondiale che si collocava nella categoria a più alto reddito possedeva l'86% del PIL mondiale, l'82% delle esportazioni e il 74% delle linee telefoniche. La popolazione del quintile più povero aveva circa l'1% di ciascuna di queste cose (l'1,5% delle linee telefoniche). L'attivo patrimoniale dei tre cittadini americani più ricchi era superiore alla somma dei redditi annui dei 600 milioni di persone che vivevano in quelli che le Nazioni Unite classificano come "paesi meno sviluppati" (ibid.).
Le condizioni elencate sopra come prerequisiti per partecipare alla crescita economica mondiale si dividono in due categorie: condizioni interne (buon governo, infrastrutture e una classe imprenditoriale capace) ed esterne (la capacità di controllare i mercati e i flussi di capitali). Le prime sono determinate dalla storia - le tradizioni culturali, la localizzazione geografica, le dimensioni e il grado di omogeneità della popolazione, le contingenze della classe politica e delle sfide esterne (è questo il tipo di fattori che spiega il divario secolare tra l'inizio di una industrializzazione autoctona in Giappone e in Cina, due paesi con tradizioni culturali assai simili). Il secondo tipo di fattori è stato spesso determinato da pressioni esterne - dai 'trattati iniqui' che le potenze occidentali imposero al Giappone, alla Corea e alla Cina alla metà del XIX secolo, ai requisiti imposti negli anni ottanta ai paesi in via di sviluppo dal FMI, dalla banca mondiale e da donatori bilaterali quale condizione per ricevere aiuti o per ottenere la cancellazione del debito con l'estero.Assai controversa è la tesi secondo cui questi ultimi fattori - le 'condizioni' imposte dai paesi che erogano gli aiuti - sono responsabili della crescente povertà nel Terzo Mondo. Solo i gruppi di protesta delle organizzazioni non governative li considerano "unici responsabili".
Assai più nutrita è la schiera di quanti sostengono che il deterioramento economico imputabile in larga parte alle condizioni interne sopraelencate (gravemente esacerbate dalla fuga di cervelli che la globalizzazione ha contribuito ad accelerare), è stato ulteriormente acuito dall'imposizione di 'condizioni' ispirate da una preferenza dottrinaria per il libero mercato quale soluzione per tutti i problemi. Altri ancora imputano la povertà del Terzo Mondo non solo alle pressioni degli erogatori di aiuti, ma anche al contagio ideologico - l'adesione alle dottrine liberiste da parte degli imprenditori del Terzo Mondo, in gran parte educati negli Stati Uniti (oppure a una mescolanza delle due cose: una collusione tra gli amministratori dei paesi donatori e quelli dei paesi beneficiari, egualmente favorevoli alla liberalizzazione, che usano la coercizione esterna come strategia per superare l'opposizione interna).
È indubbio che molti responsabili delle politiche per il Terzo Mondo nei paesi più ricchi aderiscono totalmente alle ideologie liberiste (essendo più o meno consapevoli di quanto queste politiche consentano la massima libertà di azione ai banchieri e agli imprenditori dei loro paesi). Vi è però una controargomentazione che prescinde dalle convinzioni dottrinarie, e sottolinea invece come per molti paesi in via di sviluppo l'unica alternativa all'esposizione ai capricci del mercato è lasciare il potere allocativo nelle mani di burocrati incompetenti e corrotti. E il mercato in questo caso resta la scelta migliore. Quanto allo sfruttamento da parte delle società transnazionali, è spesso vero che l'unica cosa peggiore dell'essere sfruttati è non essere sfruttati, ovvero essere lasciati in balia della povertà.La stesura del World development report 2000 della Banca Mondiale è stato un terreno di scontro su questi problemi tra i sostenitori più radicali delle due posizioni, e tuttavia la conclusione del rapporto ha incontrato vasto consenso (cfr. "International Herald Tribune", 14 settembre 2000, p. 17): "Numerosi studi recenti dimostrano che nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo i poveri beneficiano quanto qualsiasi altro gruppo, se non in misura maggiore, delle politiche di apertura dei mercati al libero commercio e di controllo dell'inflazione [...] Ma [...] la crescita economica ha mostrato la tendenza ad essere maggiore nei paesi in cui il divario tra ricchi e poveri era inferiore e i governi formulavano programmi efficaci di equiparazione dei redditi. [Inoltre] poiché anche i mercati che funzionano in modo ottimale tendono a sottoinvestire in attività come la messa a punto di vaccini o di colture resistenti alla siccità, gli interventi del governo saranno necessari per salvare una regione che si trova intrappolata nella povertà [ossia i paesi africani devastati dalla siccità e dall'AIDS]".Resta il problema se vi sia la volontà politica di aumentare il flusso di risorse dai paesi ricchi ai paesi poveri per aiutare tali interventi governativi.
La tendenza sembra di segno opposto. Nel 1990 i fondi stanziati per l'assistenza allo sviluppo rappresentavano l'1,4% del PNL dei paesi beneficiari, nel 1997 lo 0,7% (rispettivamente 14 e 11 dollari pro capite). Il DAC (Development Assistance Committee) dell'OCSE aveva stabilito già negli anni settanta un obiettivo dello 0,7% del PNL dei paesi ricchi erogatori degli aiuti, obiettivo che non è mai stato raggiunto, fatta eccezione per i paesi scandinavi e l'Olanda, in cui nel 1997 la percentuale oscillava tra lo 0,79% e lo 0,97%. La quota media nei 28 paesi del DAC era pari allo 0,33% del PNL negli anni 1986-1987, e allo 0, 22% nel 1997. Particolarmente significativo è stato il calo del contributo statunitense dopo la fine della guerra fredda, dallo 0,21 del 1987 allo 0, 09 del 1997.Un ultimo aspetto del problema del divario di reddito tra Nord e Sud e della controversia relativa al libero mercato e alle politiche di crescita economica investe non solo la globalizzazione, ma anche le pressioni da parte delle organizzazioni globali e l'influenza degli Stati Uniti sulle loro politiche. Si tratta di una nuova versione del problema vecchio di un secolo e mezzo relativo alla protezione dell'industria nascente, che è tuttora valido nella sua forma originaria, e cioè: la Cina dovrebbe accettare Intel e Microsoft, o tenerle a distanza mentre sviluppa una propria industria informatica? In riferimento alla situazione odierna, si pongono fondamentalmente due questioni: in primo luogo, se il principio della protezione debba essere esteso a industrie antiquate in fase di ricostruzione (le acciaierie in Russia e nell'Europa orientale), oppure se sia più opportuno confidare nella terapia shock della liberalizzazione istantanea - apertura alla globalizzazione - nella speranza che il caos alla fine si riveli creativo (o nella convinzione, piuttosto forte all'inizio degli anni novanta, ma indebolitasi dopo i dieci anni di caotico declino della Russia, che più forte è lo shock e più dolorosa la reazione, tanto più veloce sarà la ripresa).La seconda questione è se per l'industria finanziaria valgano gli stessi argomenti che valgono per l'industria manufatturiera.
È oggi opinione concorde che una prematura liberalizzazione della finanza abbia contribuito ad accelerare la crisi asiatica: "All'inizio degli anni novanta, i paesi dell'Est asiatico avevano liberalizzato i loro mercati finanziari e di capitali - non perché avevano bisogno di attirare più fondi (i tassi di risparmio erano già al 30% o più), ma a causa delle pressioni internazionali, tra cui anche quella del Dipartimento del Tesoro statunitense" (v. Stiglitz, 2000). Un'opinione altrettanto diffusa è che i rimedi alla crisi voluti insistentemente dal FMI, in particolare gli alti tassi di interesse, abbiano esacerbato i problemi interni dei paesi interessati, e abbiano inoltre contribuito a globalizzare (o americanizzare) il controllo sulle loro economie mandando in bancarotta le imprese e gli istituti di credito locali (ibid.).A prescindere dal divario nel reddito medio tra i diversi paesi, una questione a sé è se la globalizzazione e gli effetti del fattore di equiparazione dei prezzi causato dalla liberalizzazione degli scambi siano un elemento, o il principale elemento che contribuisce ad accrescere le disparità di reddito osservate all'interno dei paesi ricchi, e in particolare in paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, caratterizzati da un mercato del lavoro estremamente 'flessibile', in cui occupazione e salari sono meno vincolati dagli accordi o dalle contrattazioni tra le organizzazioni di categoria e lasciati completamente ai meccanismi di domanda e offerta del mercato. Su questo problema si possono individuare tre punti di vista.
1. La liberalizzazione del commercio produce in effetti lo schema dello 'stormo di oche'. Abbassa i salari, e nei paesi ricchi determina l'abbandono della produzione ad alta intensità di lavoro e a basso valore aggiunto, che finisce per essere sostituita da importazioni a basso costo di manodopera. Il protezionismo, pertanto, soprattutto nella forma di accordi 'anti-dumping sociale' mirati a innalzare i salari nei paesi a basso reddito, è necessario, patriottico e giusto.
2. Gli effetti negativi della liberalizzazione degli scambi sulla produzione ad alta intensità di lavoro sono evidenti, come sono evidenti gli effetti altrettanto negativi sull'occupazione e sui salari, cui il sistema di previdenza sociale dovrebbe ovviare. Ma si tratta di una distruzione creativa, perché comporta una liberazione delle risorse per investimenti in nuove produzioni ad alto valore aggiunto. Se i mercati incanalano adeguatamente le risorse finanziarie e imprenditoriali verso questi nuovi settori, e se adeguate infrastrutture per l'istruzione e la formazione professionale riqualificano la forza lavoro in esubero, si può ottenere un incremento del reddito pro capite senza squilibri nella distribuzione. Gli squilibri effettivamente osservati - l'aumento dell'ineguaglianza intranazionale cui abbiamo fatto cenno - sono dovuti a un livello di istruzione e a una formazione professionale inadeguati, e possono essere superati.
3. La soluzione non è così semplice, per quanto eccellenti possano essere le infrastrutture educative. All'aumentare della complessità tecnologica aumentano le capacità di apprendimento richieste per l'acquisizione delle nuove competenze. L'efficacia nell'apprendimento dipende non solo dall'accesso alle opportunità di istruzione, ma anche dalla capacità di apprendimento della popolazione che, nella maggior parte dei casi, è distribuita in modo normale. Quando aumenta il livello di istruzione richiesto, le capacità di apprendimento sono spinte al loro limite, e ciò determina un aumento sia della ricompensa in termini retributivi per elevate capacità di apprendimento, sia della penalizzazione retributiva per capacità scarse.
Una implicazione a lungo termine della terza posizione, forse la più convincente, è che la crescente ineguaglianza dei redditi tra i diversi paesi e quella all'interno di uno stesso paese non sono di fatto problemi separati. La globalizzazione può essere vista come un processo che porta a una nuova struttura di classe mondiale, in cui i subappaltatori di Motorola a Bangalore e le stelle della lirica rumene si ritrovano assieme ai banchieri di Wall Street nella fascia di reddito più elevata, mentre l'operaio delle fabbriche di vestiario di Shangai e l'ex impiegato di una defunta industria di scarpe di Nottingham si trovano entrambi relegati al fondo della scala sociale.La questione è se ciò che era accaduto all'interno dei singoli paesi nei primi stadi manufatturieri dell'industrializzazione si ripeterà su scala mondiale - se le categorie di reddito transnazionali faranno nascere una solidarietà transnazionale, una coscienza di classe mondiale.Non è difficile discernere il potenziale ruolo di classe dominante negli esponenti di quella che Huntington ha definito 'cultura di Davos' - le convinzioni comuni relative all'individualismo, al libero mercato e alle molestie della politica democratica condivise dal migliaio di partecipanti al forum sull'economia mondiale tenutosi a Davos, reclutati tra i ranghi di coloro che "controllano virtualmente tutte le istituzioni internazionali, molti governi del mondo e il grosso delle capacità economiche e militari mondiali" (v. Huntington, 1996, p. 57).
Un giornalista del "Financial Times" li ha definiti 'cosmocrati': "Cosmopoliti nei gusti e angloamericani nell'aspetto, sono persone che hanno frequentano le più prestigiose scuole per managers, riempiono i posti in prima classe negli aerei e formano i quadri dirigenti della maggioranza delle imprese mondiali. Essi costituiscono la classe dominante più meritocratica che si sia mai vista, e la più vasta, forse anche la più inquietante, ma nondimeno una classe dominante" (cfr. "Financial Times", 27 maggio 2000).Ma affinché una classe dominante acquisti consapevolezza del suo interesse collettivo a conservare il proprio potere e cominci a coordinare le sue attività a questo scopo, è necessario che percepisca una minaccia da parte dei dominati. Alcuni hanno visto una tale minaccia catalizzatrice nell'improvvisa comparsa alla fine del XX secolo di gruppi di protesta organizzati a livello mondiale, capaci di mettere in crisi i meetings di organizzazioni internazionali come il WTO, il FMI e la Banca Mondiale, e di organizzare il boicottaggio di società multinazionali come Monsanto. Il carattere repentino del fenomeno si spiega facilmente con la rapidità della diffusione della comunicazione via Internet. La prima di queste campagne, cui hanno partecipato oltre 600 organizzazioni di 70 paesi, è stata la "l'ondata di opposizione pubblica amplificata elettronicamente" all'Accordo multilaterale sugli investimenti, un'iniziativa dell'OCSE che aveva il vasto obiettivo di garantire un 'trattamento nazionale' alle imprese di proprietà straniera (v. Kobrin, 1998, p. 97).
La protesta contribuì in modo determinante a far abbandonare la proposta. Nell'estate del 2000, solo nel settore ambientale, l'Unione delle associazioni internazionali ha proclamato nel suo sito web di essere una "stanza di compensazione per l'informazione su oltre 40.000 organizzazioni e associazioni non profit internazionali".Prima di arrivare alla conclusione che questi fenomeni sono una conferma su scala mondiale della tesi di Marx ed Engels secondo cui "tutta la storia è storia della lotta di classe", è importante osservare in primo luogo che gli operai delle fabbriche di abbigliamento di Shangai e l'organico in esubero della fabbrica di scarpe di Nottingham non hanno avuto pressoché nessun ruolo in quel movimento di protesta, se non come oggetto di preoccupazione da parte di attivisti simpatetici delle classi medie. In secondo luogo, i movimenti di protesta attirati da enti internazionali hanno un carattere estremamente eterogeneo e non sono affatto tutti agenti della lotta di classe. Vi sono ambientalisti più interessati alla preservazione delle specie animali che a quella degli esseri umani; membri delle organizzazioni sindacali fautori del protezionismo che mirano a conservare i posti di lavoro dei compagni piuttosto che a crearne di nuovi a Shangai; contestatori viscerali che trovano le strade intorno ai palazzi in cui hanno luogo i meetings internazionali un luogo per scatenarsi più eccitante degli stadi di calcio; vi sono, infine, diligenti organizzazioni non governative della 'lobby dello sviluppo', animate da una altruistica preoccupazione per i poveri del mondo.Nella storia delle rivoluzioni nazionali - e della concessione di riforme da parte delle classi dominanti timorose delle rivoluzioni - gli attivisti della classe media hanno avuto spesso il ruolo di catalizzatori, ma la protesta popolare per le strade è stata un fattore cruciale. Forse la corrispettiva alleanza di forze su scala globale sarà (come è stata di fatto nel caso del fallimento dell'Accordo multilaterale sull'investimento) una cooperazione tra attivisti dei paesi ricchi e quei leaders dei paesi in via di sviluppo che non si sono integrati nella 'cultura di Davos'.
La minaccia (l'equivalente odierno della folla che minacciava di prendere la Bastiglia nella Rivoluzione francese) potrebbe essere costituita da quelli che il Dipartimento di Stato statunitense usava chiamare 'Stati incontrollabili' e che nel 2000 ha ribattezzato 'Stati di interesse particolare'. Uno sviluppo di questo tipo, tuttavia, sembra improbabile, considerato il fallimento di tutti i tentativi di organizzare un fronte comune tra i governi dei paesi poveri, a partire dal naufragio negli anni ottanta della conferenza dei paesi non allineati.
5. Società globale e governo globale
La 'lotta di classe' implica l'esistenza di una società chiaramente individuabile, all'interno della quale si scatena la lotta per il potere. Qualsiasi idea di una lotta di classe globale implica di conseguenza l'esistenza di una società globale. A questo riguardo si pongono due questioni: la prima riguarda il costituirsi di una società civile mondiale, la seconda l'emergere di uno 'Stato mondiale'.Per quanto riguarda la potenziale formazione di una società civile mondiale, ci si chiede se l'intensificazione dei contatti personali transnazionali e la crescita delle cognizioni scientifiche che portano a una acuita consapevolezza dei problemi comuni globali (il riscaldamento della terra, la scomparsa della biodiversità, l'esaurimento delle risorse naturali, l'inquinamento atmosferico, ecc.) possano sfociare in una corrispondente 'globalizzazione della coscienza' - il senso di appartenenza a una società mondiale che compete, talvolta superandolo, con il senso di appartenenza nazionale, allo stesso modo in cui, nel XIX secolo i Napoletani e i Piemontesi giunsero a considerarsi italiani, ben prima che lo Stato italiano diventasse una realtà concreta.La risposta non può che essere affermativa. Per secoli non vi è stata traccia nella società civile di associazioni transnazionali al di fuori della Chiesa cattolica, l'unica religione con una organizzazione unificata e con pretese universalistiche anziché puramente nazionali.
Oggi tali associazioni proliferano a un ritmo straordinariamente veloce. Uno studio di Hinsley (v., 1963) ha messo in luce come la formazione di tali associazioni abbia subito un'accelerazione all'inizio del XX secolo: 131 furono fondate tra il 1875 e il 1899, e 353 tra il 1900 e il 1919. A distanza di un secolo, sono centinaia le nuove associazioni che nascono ogni settimana. I gruppi di protesta antiglobalizzazione sono solo una piccola frazione della vasta gamma di associazioni internazionali - gruppi professionali (come l'Associazione internazionale degli ingegneri strutturisti, o l'Associazione internazionale dei centri di informazioni turistiche), gruppi di cultori di vari hobbies (associazioni internazionali di scuole di arti marziali, di intagliatori del legno, di filatelici) e gruppi di 'movimento' (nuove religioni, associazioni femministe, di agopuntori, di coltivatori di ortaggi biologici).
La società civile transnazionale ha anche il suo lato oscuro - coalizioni di trafficanti internazionali di droga, reti internazionali di pedofili e via dicendo.Un fattore meno importante, ma più evidente, della 'globalizzzione della coscienza' è l'omogeneizzazione del materiale urbano, delle culture artistiche e musicali del mondo. Negli anni cinquanta si parlava a questo proposito di 'Cocacolonizzazione', negli anni novanta di 'Macdonaldizzazione' del mondo, sebbene il predominio americano sia lungi dall'essere totale: se vi è una cultura mondiale emergente, le opere di Mozart, il sushi, la pizza, il ballo salsa, il karate ne fanno tutti parte, anche se è in larga misura la versione americana di queste espressioni culturali a diffondersi.Secondo Huntington questi processi superficiali di omogeneizzazione non indicano l'emergere di un consenso sui valori. "L'essenza della cultura occidentale è la Magna Charta, non il Magna Mac": le civiltà sono ancora destinate a scontrarsi; gli individui che indossano i jeans e ascoltano la musica pop americana possono ancora fabbricare bombe per far saltare in aria aerei americani (v. Huntington, 1996, p. 58).
A ciò si possono contrapporre fenomeni quali il lento sviluppo nel corso di mezzo secolo di procedure e principî via via più efficaci in seno alla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite (v. Farer, 1988), o la creazione nel 1998 della Corte di giustizia internazionale per i crimini di guerra, che attestano una maggiore consapevolezza del carattere transnazionale delle responsabilità morali - consapevolezza che è parte integrante di quello che si intende per coscienza globale.Alla questione della nascita di una società civile globale è strettamente connessa quella dell'emergere di uno 'Stato mondiale'.
Se realmente vi fosse un profondo e diffuso senso di appartenenza a un 'vicinato globale' (v. Commission on global governance, 1995), sarebbe più facile raggiungere l'accordo, per fare un esempio, sulla riduzione delle emissioni inquinanti per risolvere i problemi comuni di tale 'vicinato'. Le nazioni sarebbero meno disposte a comportarsi opportunisticamente nella realizzazione del bene pubblico internazionale, adoperandosi ad esempio - per andare al nocciolo coercitivo di quello che è il potere governativo - per la creazione di una forza di intervento rapido delle Nazioni UniteSenza arrivare a quella che sembra ancora una visione utopica, in contesti più ordinari in cui non vi sono grossi conflitti di interesse, e in cui c'è molto da guadagnare dalla cooperazione, le organizzazioni internazionali - i frammenti di un potenziale sistema di governo mondiale - hanno presentato pochi problemi. L'Unione postale internazionale, l'Organizzazione marittima mondiale, l'Ufficio meteorologico mondiale - tutte organizzazione internazionali, e non transnazionali, sotto il controllo dei singoli governi ma con un notevole grado di autonomia - sono da tempo operanti con grandi benefici e scarsi attriti internazionali.
L'Organizzazione mondiale per il commercio è già più controversa, ma proprio in quanto (al pari dei parlamenti nazionali) costituisce un forum per raggiungere un difficile accordo sulle regole che le nazioni dovrebbero osservare nei rapporti economici e (al pari delle corti di giustizia nazionali) per decidere l'interpretazione delle regole che sono state concordate.L'ambito in cui sussiste un vuoto reale, un'assenza quasi totale di regole o strumenti per applicarle è quello della finanza. La preoccupazione suscitata dalle ripetute crisi finanziare degli anni novanta (in Messico, in Asia, in Russia) ha provocato un dibattito acceso e dai toni quasi convulsi sulla necessità di una nuova 'architettura finanziaria'.A destare le maggiori preoccupazioni sono due conseguenze ben distinte del carattere anarchico, privo di regole e improntato all'azzardo dei mercati finanziari (v. Strange, 1986 e 1999). La prima è la vulnerabilità, in particolare delle economie deboli dei paesi in via di sviluppo, ai repentini spostamenti di capitali internazionali. Alcuni rimedi demandati a organizzazioni specifiche, come il piano Soros per un sistema transnazionale di assicurazione sui prestiti, gestito da un organo di controllo che ponga limiti all'afflusso di capitali alla luce dei probabili effetti macroeconomici sul paese verso cui sono diretti (v. Weinstein, 1998), hanno incontrato scarso favore (il punto dolente sta nei dettagli), ma vi sono molti che propugnano una soluzione basata su una evoluzione graduale. Il Forum per la stabilità finanziaria, fissato a seguito della crisi russa nel corso del meeting dei G8 del 1998, dovrebbe diventare secondo alcuni una Autorità finanziaria mondiale, con il compito di definire regole prudenziali sviluppate gradualmente (v. Eatwell e Taylor, 2000).Più diffusa è la convinzione che il rimedio non vada cercato in una organizzazione internazionale, bensì in una riaffermazione dello Stato nei confronti del mercato. Gli Stati-nazione dovrebbero rivendicare una parziale sovranità sulle proprie economie istituendo o reintroducendo un sistema di controlli sui capitali. Anche il Fondo Monetario Internazionale, che prima delle crisi asiatica e russa premeva (dietro impulso americano) per una piena convertibilità dei capitali in tutti gli Stati membri, ha fatto marcia indietro, sebbene sia ben lontano dal raccomandare una deviazione dai principî del libero mercato (v. Blinder, 1999, p. 57).
Il sistema cileno di tassazione dei flussi di capitale in ingresso incontra maggior favore delle misure per controllare i capitali in uscita quali quelle imposte ad hoc in Malesia nel 1998.L'altro aspetto del problema è quello del contagio finanziario, vale a dire il timore che data la notevole interdipendenza delle istituzioni finanziarie, e dato che il rischio è insito in sistemi i cui profitti dipendono da assunzioni di debito a breve termine e da concessioni di credito a lungo termine, il crollo di una banca o di una società finanziaria importanti potrebbe avere disastrosi effetti a catena - crollo della fiducia, e quindi del credito, ulteriori fallimenti, e un generale rallentamento economico che, come negli anni trenta, potrebbe diffondersi su scala mondiale. Questi timori trovarono conferma con il quasi crollo dell'Hedge Fund Long Term Capital Management, con un alto rapporto di indebitamento, che sull'onda della crisi russa sembrò in procinto di dover liquidare in tutta fretta i suoi investimenti per un valore di un migliaio di miliardi con effetti disastrosi sui mercati finanziari. La volontà di scongiurare una crisi di fiducia nel mercato in vista del 'bene pubblico' (cui si aggiungeva, forse, la considerazione dell'interesse personale più immediato di singoli individui) indusse la Federal Reserve a organizzare la frettolosa mobilitazione di un fondo di salvataggio di 3,6 miliardi di dollari USA da parte di varie banche e società finanziarie. È ovvio che si rendono necessarie misure meno occasionali. Il modello, o perlomeno l'impalcatura di tale modello, è già pronto, ed è rappresentato dal Comitato di Basilea per la regolamentazione dell'attività bancaria e le procedure di vigilanza, operante all'interno della Banca dei regolamenti internazionali, e dalla Organizzazione Internazionale dei Commissari di Borsa (IOSCO).
Entrambe le organizzazioni hanno negoziato accordi relativi alla vigilanza dei mercati finanziari e dei loro partecipanti, con particolare riguardo alle riserve di capitale minime di cui le banche e gli intermediari finanziari devono disporre per poter operare a livello internazionale. Le regole sono diventate progressivamente più circostanziate - quasi sempre in reazione a determinate crisi - ma si tratta di iniziative che "restano frammentarie e inadeguate come forma di governo del sistema finanziario" (v. Underhill, 1997, p. 43). Il Forum per la stabilità finanziaria istituito nel 1998 - ancora una volta in reazione ad una crisi - non si è certo dimostrato più capace di creare qualcosa di meno frammentario e inadeguato delle istituzioni esistenti.
6. Considerazioni conclusive e prospettive
I termini 'crescita' e 'aumento' sono stati usati anche troppo spesso nelle analisi precedenti. Se si estrapolano le tendenze implicite in queste analisi, si potrebbe assumere che il mondo va verso un'integrazione e un'interdipendenza crescenti, una crescente interpenetrazione delle culture. La strada alternativa - ossia un arresto della globalizzazione, la riaffermazione dell'autonomia dello Stato-nazione, un maggior grado di protezionismo commerciale, un maggior controllo politico sui mercati - è sempre possibile, specialmente se le instabilità dei mercati finanziari globali continueranno a provocare crisi e depressioni economiche su scala mondiale.Ma se il futuro sarà quello di un'ulteriore globalizzazione, l'interrogativo che si pone è se questa continuerà a essere improntata all'anarchia, o se la preoccupazione per il bene pubblico indurrà ad arricchire progressivamente e adeguatamente il quadro delle regole di mercato necessarie a prevenire la ricorrenza delle crisi, sia che queste derivino da eccessi speculativi (definiti meno crudamente 'inadeguata gestione del rischio') o dall'incapacità di coordinare le politiche macroeconomiche nazionali.Il concetto di 'bene pubblico' evoca l'immagine di una comunità di cittadini egualmente preoccupati del destino della loro società, egualmente pronti a sacrificare i propri interessi a breve termine in favore di obiettivi comuni.
La realtà del potere mondiale offre un quadro ben diverso. Nella regolamentazione finanziaria, "la natura chiusa delle società politiche e la crescente dipendenza dei responsabili del controllo e della sorveglianza da interessi di mercato privati ha fatto sì che gli standard della regolamentazione fossero sempre più in linea con le preferenze dei più importanti soggetti operanti nel mercato globale" (v. Underhill, 1997, p. 43). E si tratta di soggetti prevalentemente americani, oggi in misura ancora maggiore di quando vennero scritte queste parole; dal 1997 le banche d'affari americane hanno rafforzato il loro predominio nella City di Londra e hanno cominciato a penetrare in misura crescente a Tokyo e a Francoforte.Un tipico esempio della mescolanza di interesse pubblico e privato nella creazione di istituzioni di controllo è l'accettazione americana del progetto relativo ai requisiti di capitale proposto dal Comitato di Basilea negli anni ottanta (una precondizione per la sua adozione), motivata tanto dalla preoccupazione di stabilire condizioni di gioco leali per difendere le banche americane dalla competizione delle banche straniere con requisiti meno rigorosi, quanto dall'intento ispirato dall'interesse per il bene pubblico di adottare regolamentazioni prudenziali al fine di assicurare la stabilità del sistema (v. Underhill, 1997, p. 29).
È il potere del governo statunitense, che opera in armonia con le istituzioni finanziare del paese, di dominare i processi di regolamentazioni mirati a creare un ordine internazionale - nella Banca Mondiale e nel Fondo Monetario Internazionale come nella Banca dei regolamenti internazionali - a corroborare assai più dell'esistenza di Hollywood o delle catene MacDonald la tesi secondo cui la globalizzazione significa di fatto americanizzazione.Ciò non significa che le influenze culturali non contino. Quello che Nye (v, 1990) ha definito 'zoccolo duro del potere ' - il potere militare e quello economico, la capacità di costringere gli altri a fare ciò che si vuole - e il potere 'molle' - le influenze culturali e ideologiche, la capacità di indurre gli altri a volere le stesse cose che vogliamo noi - sono strettamente interrelati. L'effetto retroattivo di gran lunga più rilevante si ha attraverso la diffusione mondiale dell'ideologia liberista - la convinzione che la competizione del libero mercato e la sovranità del consumatore costituiscano l'unica ricetta per l'efficienza economica e il progresso, che i mercati sono in grado di allocare le risorse in modo più efficiente dei governi, e che si dovrebbe far ricorso all'allocazione delle risorse da parte dello Stato (a prescindere dalle reti di sicurezza sociale minimali) solo in caso di palesi fallimenti del mercato (ad esempio nel settore della viabilità e in quello della difesa); la convinzione, infine, che le società dovrebbero essere gestite in modo tale da massimizzare il profitto degli azionisti, e che l'uso del mercato azionario come strumento di compravendita del controllo delle società sia una garanzia di efficienza essenziale.
La diffusione di questa ideologia è stata favorita in misura notevole dal fatto che - grazie al prestigio che circonda il potere americano e grazie alle generose borse di studio stanziate dal governo statunitense - le scuole post-laurea americane di economia, di diritto e di scienze politiche hanno formato buona parte dell'élite mondiale degli opinion leaders. Nello stesso tempo, e per le stesse ragioni, le università europee e giapponesi dove studiano coloro che non si recano negli Stati Uniti hanno cominciato in misura crescente ad adottare la stessa ideologia. E questa ideologia, che propugna una competizione di mercato con 'regole del gioco' leali in tutto il mondo, avvantaggia le squadre che hanno i giocatori più forti. Essa consente loro di assorbire (comprare) in misura crescente gli avversari, e di rafforzare così ulteriormente il potere, il prestigio e la ricchezza che hanno conferito agli Stati Uniti la loro egemonia culturale.
Tra le principali potenze industriali, il Giappone e in varia misura i paesi dell'Europa continentale restano fedeli a istituzioni basate su un'ideologia differente, un'ideologia che, pur riconoscendo le virtù della competizione di mercato in molte sfere:
a) accetta di sacrificare la flessibilità del mercato del lavoro sia alla tutela dei lavoratori, sia allo sviluppo di legami di fedeltà tra interessi organizzati;
b) accetta che questi legami di fedeltà precludano la compravendita di società attraverso la borsa;
c) accetta che i managers abbiano un ventaglio di responsabilità - nei confronti sia dei dipendenti che dei soci - più ampio del mero imperativo della massimizzazione dei profitti;
d) conserva, come forma residua di solidarietà dei cittadini e di mutua responsabilità, un cospicuo settore pubblico per la sanità, l'istruzione e la previdenza sociale che, ispirandosi al principio dell'eguaglianza universale dei diritti, dovrebbe minimizzare la necessità di reti di sicurezza.
Le differenze istituzionali tra i paesi orientati al neoliberismo e quelli che abbracciano l'ideologia del secondo tipo, che può essere definita approssimativamente socialdemocratica, ha dato luogo a una cospicua letteratura su differenti tipi di capitalismo (anglosassone, renano, asiatico; v. Albert, 1991; v. Crouch e Streeck, 1997). Alla fine del XX secolo risultava evidente che l'ideologia socialdemocratica era sulla difensiva. In Germania (paese che con la sua industria organizzata in base al principio della codeterminazione rappresentava il più perfetto esempio europeo di socialdemocrazia) vi è stato un sintomatico conflitto sui tentativi del direttivo della concorrenza europea, con l'appoggio delle banche commerciali tedesche, di ridurre il ruolo pubblico (privilegiato) delle banche dei Länder.All'inizio del nuovo secolo non vi sono dubbi sulla direzione verso cui premono le forze di mercato. I flussi di capitali che hanno causato il crollo dell'euro e gettato un'ombra sull'intero progetto europeo sarebbero irrefrenabili secondo i funzionari governativi americani (la cui cooperazione negli interventi in favore dell'euro sarebbe essenziale) "a meno che e fino a che l'Europa non dimostri maggior impegno nel rivedere il suo mercato del lavoro restrittivo e i generosi sistemi di welfare che sono considerati una barriera alla crescita" (cfr. "International Herald Tribune", 20 settembre 2000).
La questione che si pone a questo punto è se sarà possibile una difesa contro queste pressioni, o se le forze di mercato (specialmente la crescente integrazione dei mercati finanziari) associate all'egemonia culturale americana ristruttureranno tutte le economie del mondo secondo lo stesso modello neoliberista, come alcuni prevedono fiduciosi (v. Friedman, 1999). La possibilità di sopravvivenza di un modello diverso è maggiore nell'Asia orientale, non da ultimo in quanto il divario culturale tra gli Stati Uniti e il Giappone, la Corea e la Cina è assai superiore a quello tra gli Stati Uniti e l'Europa. Molto dipenderà dal tasso di crescita, e dal conseguente peso nell'economia mondiale della Cina, un paese la cui popolazione è dieci volte quella del Giappone, trenta volte quella della Corea e quattro volte quella degli Stati Uniti (v. Dore, 2000).
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