globalizzazione
Comprare, vendere e produrre in qualsiasi parte del mondo
La globalizzazione, che produce un annullamento delle frontiere, si fonda su quattro elementi: liberalizzazione degli scambi e degli investimenti internazionali, rivoluzione telematica, moltiplicazione dei concorrenti, delocalizzazione (spostare la produzione in un altro paese). L'attuale globalizzazione è l'erede della globalizzazione di inizio Novecento, bruscamente interrotta dalle guerre e dal crollo di Wall street (1929). I suoi avversari sostengono che tale fenomeno è responsabile di un peggioramento delle condizioni dei lavoratori e di un aumento delle disuguaglianze
All'interno della parola globalizzazione c'è la parola globo e per globo si intende lo spazio dove l'umanità vive e lavora, il nostro pianeta. Ma che cos'è la globalizzazione? La globalizzazione è ciò che rende una realtà grande come il mondo vicina e familiare quanto un villaggio. Una magia? No, piuttosto il lavoro continuo di due grandi tendenze: la tendenza a una sempre maggiore libertà degli scambi e la rivoluzione tecnologica.
C'è libertà degli scambi quando vengono abolite le barriere doganali tra paese e paese, permettendo alle merci di circolare senza difficoltà. Questa facilità di movimento, in una globalizzazione vera, riguarda non soltanto le merci, ma anche i capitali, i servizi e le persone.
La rivoluzione tecnologica è sotto gli occhi di tutti: di anno in anno computer, cellulari, automobili migliorano le proprie prestazioni. Ma la punta di diamante della rivoluzione tecnologica, quella che ha più relazione con la globalizzazione, è la telematica, il 'matrimonio' fra comunicazioni e informatica. La telematica annulla le distanze e permette, per esempio, a un'impresa di lavorare in strettissimo contatto con i propri fornitori anche a un continente di distanza, scambiandosi disegni o progetti, risultati di test, parlandosi 'faccia a faccia' in videoconferenza. Abbiamo definito i due fattori essenziali della globalizzazione, ma perché la ricetta riesca servono altri due ingredienti: la moltiplicazione dei concorrenti e la delocalizzazione.
Liberalizzare gli scambi commerciali non basta, deve anche aumentare la concorrenza tra prodotti simili nelle diverse nazioni. Gradatamente si supera la distinzione fra nazioni industriali, che immettono sul mercato prodotti finiti, e paesi economicamente arretrati, che esportano materie prime e importano manufatti.
Ma la concorrenza fra prodotti non è sufficiente, è necessario che si affermi ‒ e qui entra in scena la delocalizzazione ‒ la concorrenza fra insediamenti. Che cosa vuol dire? Vuol dire che il produttore, mettiamo, di scarponi da sci di Montebelluna non si deve solo preoccupare della concorrenza di scarponi da sci fabbricati in Romania, ma può tranquillamente pensare di spostare la produzione proprio in Romania.
La globalizzazione non è un fenomeno nuovo. Anzi. Il nostro 'ieri', l'inizio del 20° secolo, ha rappresentato un periodo della storia di diffusa e intensa globalizzazione; forse, nel complesso, anche più di adesso, se consideriamo che allora non c'erano ostacoli all'emigrazione.
Poi, nel 1929, la globalizzazione conobbe i tempi bui della crisi. Globale fu il contagio del crollo della Borsa di Wall Street e negli anni Trenta i paesi si chiusero a riccio, innalzando di nuovo le barriere che li separavano. Prima della crisi di Wall Street, però, lo sviluppo della globalizzazione era già stato ostacolato da una serie di tragici eventi: le guerre coloniali, quelle cino-giapponese (1894-95) e russo-giapponese (1904-05), e, soprattutto, la Prima guerra mondiale. Nel secondo dopoguerra, invece, proprio come reazione agli orrori e alla devastazione del conflitto, ci furono l'impeto della ricostruzione, l'abbraccio della libertà degli scambi e molti decenni di pace: ciò che permise al lievito della liberalizzazione di far montare la torta del reddito e della ricchezza.
Vi sono dunque solo risultati positivi? La globalizzazione è un farmaco miracoloso senza controindicazioni? Molti non la pensano così. Chi ha paura della globalizzazione ‒ c'è chi la definisce 'il mostro senza volto' ‒ punta il dito contro alcuni effetti negativi di cui la globalizzazione sarebbe responsabile.
La delocalizzazione, per esempio, innescherebbe una concorrenza verso bassi salari e bassa protezione sociale, con la giustificazione che bisogna competere con i paesi poveri. Un'azienda, insomma, potrebbe opporsi alle richieste di aumenti salariali e di migliori condizioni di lavoro minacciando di spostare la produzione in paesi dove il costo del lavoro è inferiore. La storia però dimostra che la globalizzazione non impedisce l'aumento del benessere e la riduzione del tasso di disoccupazione, purché siano garantiti, nel paese che delocalizza, la flessibiltà e lo spostamento di risorse da settori in declino a settori in espansione.
Un altro importante capo d'accusa è che la globalizzazione provoca una peggiore distribuzione del reddito e dunque una maggiore disuguaglianza. La maggioranza degli studi ha portato tuttavia a individuare un altro colpevole: la tecnologia.
La rivoluzione tecnologica ha favorito la parte di popolazione più istruita, innalzando la domanda di questo tipo di conoscenze, e ha fatto calare la domanda di abilità generiche, riducendo quindi i salari relativi ai possessori di queste ultime.
Bisogna inoltre considerare che all'esterno dei paesi ricchi, cioè nelle relazioni tra paesi ricchi e paesi poveri, la globalizzazione riduce le disuguaglianze. Quando ci si lamenta che un programmatore in Italia viene scartato a favore di uno in India, questo è molto triste per il programmatore in Italia ma è molto bello per quello in India. E, dato che l'India è un paese molto più povero dell'Italia, le differenze fra Italia e India si riducono.
La globalizzazione è un fenomeno irreversibile? O, come quella di ieri, potrà essere revocata da delusioni e ripiegamenti? La risposta è che con ogni probabilità si tratta di un fenomeno irreversibile, se non altro a causa della rivoluzione tecnologica.
Naturalmente, anche la globalizzazione, come ogni grande trasformazione, nasconde pericoli e insidie, ma rifiutarla perché può portare a problemi è come rifiutare di allargare le corsie delle autostrade solo perché con un'autostrada migliore si può correre di più e provocare più incidenti.
La libertà di movimento dei capitali è - come abbiamo visto - una delle caratteristiche della globalizzazione. Questa libertà tuttavia si deve accompagnare a un sistema finanziario che rispetti i valori di trasparenza e correttezza, altrimenti, come è accaduto in Asia nel 1997, la globalizzazione 'impazzisce' e si ha una grave crisi.
Ai tempi della forte crescita asiatica, quando sembrava che quei paesi stessero stabilendo un modello di virtù espansiva, i capitali internazionali si sono riversati nel Sud-Est asiatico. Ma nel 1997 è venuta la resa dei conti. È risultato chiaro che l'alta quantità della crescita copriva una bassa qualità. I sistemi bancari in Asia non svolgevano la funzione di intermediazione classica - prendere il risparmio e dirigerlo verso l'investimento - ma sceglievano i destinatari dei prestiti secondo criteri in cui la corruzione e il nepotismo avevano troppa parte. Così l'Asia si è svegliata un giorno con il 'mal di testa economico' degli eccessi speculativi, e le banche si sono trovate con in mano il pugno di mosche di molte sofferenze: tanti crediti che non erano più esigibili.