Globalizzazione
Con la locuzione globalizzazione dell'economia mondiale si descrivono fenomeni diversi, che rappresentano più aspetti dinamici dello stesso processo di internazionalizzazione: liberalizzazione, apertura e integrazione internazionale dei mercati di merci, servizi, capitali, lavoro e tecnologia. Quando si parla di g. entrano naturalmente in gioco anche altri aspetti (come le dimensioni culturale, politica e ambientale), che tuttavia non saranno trattati in questa voce. La tendenza all'internazionalizzazione dell'economia mondiale non è un fenomeno nuovo, come non lo è la maggior parte delle conseguenze della globalizzazione. Nel corso del tempo ci sono stati diversi periodi nei quali l'integrazione dell'economia mondiale è stata particolarmente rapida e intensa. Già nel 16° sec. esistevano legami fortissimi tra Paesi che erano anche molto distanti fra loro. A partire dalla fine del Ottocento, poi, si sono avute tre fasi principali di crescente integrazione e una di chiusura.
La prima fase del moderno processo di g., fra il 1870 e il 1914, fu caratterizzata da una imponente crescita dei flussi di capitali e dei flussi migratori, e dal raddoppio del commercio mondiale (cresciuto in media del 3,5% all'anno). La tendenza dei Paesi ad aprirsi nei confronti dell'esterno, sospinta da politiche di liberalizzazione commerciale e dallo sviluppo della tecnologia, che aveva ridotto i costi di trasporto (in particolare grazie a invenzioni come quella del motore a combustione interna), restò limitata a un numero ristretto di Paesi industrializzati, e venne bruscamente interrotta fra le due guerre mondiali, quando, complice anche la crisi del 1929, si verificò un ritorno al nazionalismo e al protezionismo. Commercio, flussi di capitale e migrazioni tornarono ai livelli del 1870, mentre povertà e disuguaglianza aumentavano.
La seconda fase, dal 1960 al 1980, ebbe caratteristiche parzialmente diverse da quella precedente, soprattutto perché vi fu coinvolto un maggior numero di Paesi. Le esportazioni come percentuale del PIL crebbero infatti non solo nei Paesi industrializzati, come all'inizio del secolo, ma anche in molti Paesi in via di sviluppo (PVS), sebbene con differenze notevoli: le economie di nuova industrializzazione dell'Asia (Newly Industrialized Economies, NIEs) aumentarono nettamente i propri legami con l'economia mondiale, mentre l'Africa venne solo marginalmente coinvolta nel processo di integrazione. Tuttavia, mentre nel 1980 il commercio mondiale tornava ai livelli raggiunti nel 1914, i flussi di capitale e le migrazioni restarono su livelli decisamente inferiori. In particolare, i mercati dei capitali soffrirono della mancata liberalizzazione (gli unici a deregolamentare furono i Paesi industriali, verso la fine degli anni Settanta), mentre le migrazioni ebbero una scarsa rilevanza in termini di quota della popolazione mondiale, rispetto al picco del 10% dei primi anni del Novecento.
Durante la terza fase, iniziata nel 1980 e tuttora in corso, il rapporto fra i flussi di esportazioni e importazioni e il PIL è aumentato (salvo un breve momento di stallo seguito allo scoppio negli Stati Uniti della bolla speculativa della 'nuova economia' e alla crisi successiva agli eventi del sett. 2001), arrivando a livelli mai raggiunti in precedenza. Si è assistito, al tempo stesso, a una radicale trasformazione della struttura del commercio: sono aumentati notevolmente sia il commercio intraindustriale fra Paesi con uno stesso livello di sviluppo sia gli scambi, perlopiù interindustriali, fra Paesi in fasi di sviluppo diverse. A partire dai primi anni Novanta si è accelerata anche la g. finanziaria, come dimostra il rapido aumento simultaneo di attività e passività sull'estero di molti Paesi (Lane, Milesi-Ferretti 2005). Sono nel contempo sensibilmente diminuiti i flussi di capitale ufficiali (inclusi gli aiuti) e aumentati gli investimenti di portafoglio e soprattutto gli investimenti diretti, che facilitano la divisione internazionale del lavoro e si orientano verso Paesi e settori diversi rispetto al 19° secolo. Hanno assunto particolare rilievo gli investimenti che riducono i costi di produzione, e molte imprese dei Paesi industriali hanno delocalizzato in Paesi a basso costo del lavoro le fasi produttive a minor valore aggiunto. La diffusione delle tecnologie ha avuto una forte accelerazione; il progresso tecnico, con i suoi effetti sui costi di trasporto e comunicazione, ha ridimensionato le barriere naturali agli scambi. In questo mercato 'globale', le aziende multinazionali sono diventate il principale motore del crescente processo di g. (De la Dehesa 2005; OECD 2005a). Le nuove tecnologie hanno facilitato il coordinamento di attività geograficamente distanti tra loro e hanno favorito la frammentazione dei processi produttivi e la delocalizzazione dei loro segmenti in Paesi diversi, in funzione delle opportunità di crescita e di profitto delle imprese. In risposta alla forte concorrenza internazionale e al crescente bisogno di interazione strategica, le imprese hanno usato le tecnologie delle telecomunicazioni e dell'informazione per organizzare reti transnazionali. Oltre a ciò, grazie anche all'Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization, WTO), le restrizioni normative alla libera circolazione di merci e capitali si sono gradualmente ridotte, le politiche commerciali di molti PVS che hanno aderito alla WTO hanno mutato indirizzo e si sono notevolmente aperte, inducendo un effetto moltiplicativo sull'espansione dei flussi di commercio e capitali. I movimenti di lavoratori, invece, sono rimasti a un livello inferiore a quello dei primi anni del 20° sec., e hanno continuato a essere regolamentati, con molti mercati nazionali di Paesi industriali protetti da legislazioni restrittive.
Il forte sviluppo del commercio e dei mercati finanziari ha dato vita a un ampio dibattito sui vantaggi e i costi della globalizzazione. I fautori della g. mettono in evidenza che l'integrazione permette una maggiore crescita, e che l'apertura di nuovi mercati corrisponde a un aumento del benessere sociale. Grazie ai più intensi scambi commerciali e ai più facili trasferimenti di risorse finanziarie e umane, l'economia mondiale può infatti conseguire miglioramenti sia sul terreno dell'efficienza sia su quello della crescita. I capitali dovrebbero muoversi verso i Paesi a più bassa intensità di capitale, consentendo un aumento della convergenza dei principali indicatori economici, in particolare del tasso di crescita del PIL.
La g., spinta dall'innovazione tecnologica, ha facilitato il trasferimento di tecnologie, che a sua volta ha contribuito a un allungamento delle aspettative di vita, oltre che a un sensibile miglioramento della salute e del tasso di alfabetizzazione di molti PVS. Tra il 1970 e il 2000 (IMF 2005) le aspettative di vita sono raddoppiate in Cina (raggiungendo i 70 anni), sono aumentate di venti anni in India (64 anni) e anche negli Stati Uniti sono passate da 70 a 77 anni; la mortalità infantile è calata dal 109‰ al 59‰ nei PVS e dal 16‰ al 6‰ nei Paesi sviluppati. Nello stesso periodo l'analfabetismo è sceso di circa 30 punti percentuali in Paesi quali Cina, India, Corea del Sud e Messico.
Tuttavia, nonostante questi dati confortanti sul miglioramento degli standard di vita, e nonostante il forte incremento dei flussi di commercio e una crescita più rapida nei PVS (in media il 5% negli anni 1985-2004, contro il 2,2% dei Paesi industriali), non si è assistito a un aumento della convergenza fra Paesi. Come viene messo in evidenza dalle nuove teorie del commercio internazionale (Krugman 1995), in condizioni di concorrenza imperfetta e rendimenti di scala crescenti viene meno la relazione tra prezzi relativi dei beni e prezzi relativi delle risorse, che costituisce la base delle ipotesi di convergenza; Paesi diversi possono specializzarsi in beni diversi e mantenere tassi di crescita diversi, pur avendo forti legami commerciali e finanziari. Di conseguenza, in presenza di imperfezioni e di condizioni differenti dalla concorrenza perfetta, i principali vantaggi della g., identificati con efficienza, maggior crescita e convergenza, possono venir meno. La g. pone anche un problema di equità: non è detto che gli eventuali benefici si distribuiscano in modo uniforme tra Paesi, né all'interno di essi. Nei Paesi industriali si riscontra per es. un ampliamento della differenza fra i salari dei lavoratori specializzati e non. Nei PVS si ha un aumento della disuguaglianza, dovuto probabilmente a un potere di mercato di ristrette fasce della popolazione (per es. i proprietari di risorse naturali). L'aspetto dominante della g. è indubbiamente l'integrazione economica. Nelle successive sezioni del lemma verranno esaminati separatamente i flussi di commercio, capitale e lavoratori, con particolare attenzione al nuovo fenomeno dell'internazionalizzazione della produzione. Un aspetto cruciale è capire se, tenuto conto delle interazioni fra commercio, flussi di capitale e cambiamenti dei modi di produzione, esistano strumenti adeguati per misurare e valutare gli effetti economici del processo di g. in corso (tab. 1).
I flussi commerciali
Il livello d'integrazione commerciale può essere misurato in modi diversi, ma, nonostante il problema della misurazione della g. sia molto complesso, l'indicatore tuttora più usato è il rapporto tra le esportazioni e il PIL. L'enfasi sul solo commercio e sulla competitività non permette, però, di tenere conto dell'interazione con fattori di g. quali gli investimenti diretti, che possono essere complementari o sostitutivi delle esportazioni.
Il rapporto fra esportazioni e PIL, che aveva raggiunto un livello pari a circa l'8% prima della Prima guerra mondiale, scese a un minimo storico subito dopo la Seconda guerra mondiale (5,5% circa); a partire dagli anni Cinquanta è cresciuto in modo piuttosto stabile, sia nei Paesi industrializzati sia nei PVS.
L'aumento dell'interscambio mondiale però non ha coinvolto in modo omogeneo tutti i Paesi né tutti i settori produttivi. Nella prima fase della g., i PVS, nella misura in cui furono in grado di integrarsi nell'economia mondiale, si specializzarono in beni primari e ricevettero investimenti esteri soprattutto in infrastrutture e miniere; nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale i PVS che aumentarono i propri legami furono quelli che si specializzarono nella produzione di manufatti e ricevettero investimenti diretti per lo sviluppo delle capacità produttive manifatturiere. A partire dagli anni Ottanta, tuttavia, i PVS hanno iniziato - o ripreso, come nel caso dell'America Latina - a partecipare più attivamente al commercio mondiale, e l'integrazione ha coinvolto un numero sempre maggiore di Paesi. Il caso più eclatante è la crescente integrazione internazionale della Cina e delle NIEs, dove flussi di commercio e investimenti diretti sono aumentati nettamente più della media mondiale. Alcuni Paesi e un intero continente, l'Africa, sono restati ai margini del processo di internazionalizzazione.
Come risultato di questi andamenti, il peso delle economie in via di sviluppo nel commercio mondiale è progressivamente aumentato (quello di Cina, India e NIEs è passato dal 12,8% al 24% fra il 1985 e il 2004, secondo i dati del Fondo monetario internazionale), mentre si è ridotto quello delle economie avanzate (dal 60% al 55% circa); secondo l'UNCTAD (tab. 2) la quota di queste ultime sulle esportazioni mondiali è passata dal 75% del 1970 al 64% circa del 2003, e quella della Cina dallo 0,7% al 6% circa.
Le variazioni della composizione settoriale del commercio che hanno accompagnato il processo di integrazione sono state assai rilevanti. Nel 1913 i manufatti rappresentavano il 35% circa delle esportazioni mondiali di beni (di questi il 6,3% erano macchine), nel 1955 il 45%; tra il 1985 e il 2004 si è avuto un fortissimo incremento, e i manufatti hanno raggiunto il 75% (di cui il 38,3% macchine), in gran parte flussi intraindustriali. Al contempo è scesa la quota delle materie prime (commodities come minerali e prodotti agricoli), prodotte in generale dai Paesi più poveri. Nei primi anni del nuovo secolo si è inoltre particolarmente intensificato il commercio di servizi (UNCTAD 2005). Diversi Paesi dell'Asia orientale, infine, soprattutto a partire dal 2000, sono stati caratterizzati da una buona crescita del processo di integrazione commerciale all'interno dell'area, anche grazie alla creazione di 'filiere di produzione', per cui ogni Paese si è specializzato in una particolare fase produttiva (molto rilevanti sono, per es., i fenomeni di delocalizzazione di alcune fasi della produzione di beni a elevato contenuto tecnologico dalla Corea del Sud alla Cina).
La maggiore integrazione commerciale che si è verificata negli ultimi decenni del Novecento è stata determinata dall'interagire delle scelte di politica economica e di quella commerciale con i cambiamenti tecnologici, che hanno prodotto costi decrescenti sia nelle telecomunicazioni sia nei trasporti. Tale diminuzione dei costi ha infatti ridotto le barriere naturali tra i diversi mercati. L'evoluzione del settore dei computer e di Internet ha anche indotto e facilitato nuovi modi di produzione per tutti i settori dell'economia, con benefici per consumatori e produttori, ha stimolato il commercio di beni, e ha permesso ai mercati di funzionare per ventiquattro ore al giorno (per es., le Borse telematiche). La tecnologia ha eroso i confini fra beni commerciabili e non, favorendo la crescita del commercio di servizi, una delle caratteristiche dominanti degli sviluppi successivi agli anni Ottanta. Tra i fattori di stimolo dell'integrazione commerciale, sicuramente hanno avuto un ruolo di rilievo anche i cambiamenti realizzati nelle politiche commerciali. Si è assistito a una riduzione delle barriere tariffarie (in media, nei PVS da oltre il 30% nel 1985 a oltre il 10% nel 2004, e nelle economie avanzate dal 9-10% al 4%), nonostante un incremento delle misure di tipo non tariffario. Un dato particolarmente significativo riguarda la Cina, dove in soli dieci anni (1992-2002) le tariffe medie ponderate sono passate dal 40,6% al 6,4%; una variazione simile si era avuta nei Paesi industrializzati in cinquant'anni (1950-2000).
Flussi di capitale
Misurare la g. finanziaria non è semplice, perché i flussi considerati sono fra loro molto diversi e includono investimenti di portafoglio, investimenti diretti, aiuti ufficiali. Contrariamente a quanto avviene per i flussi commerciali, non esiste in questo caso un indicatore generalmente usato.
Si è menzionato in precedenza che i vincoli ai liberi movimenti di capitale sono stati eliminati a partire dalla fine degli anni Settanta (inizialmente solo nei Paesi industriali). Dopo gli ampi flussi che avevano caratterizzato i Paesi industriali fra la Prima guerra mondiale e il 1930, e il successivo periodo di stasi (solo nel 1980 lo stock di attività estere sul PIL tornò ai livelli del 1914), la g. finanziaria ha riacquistato vigore a partire dal 1980. Questa nuova fase è stata caratterizzata da un aumento particolarmente elevato dei flussi di capitale privato verso i PVS. Parallelamente a tale aumento sono diminuiti fortemente gli aiuti ufficiali allo sviluppo; inoltre la composizione dei flussi privati si è notevolmente modificata, con uno spostamento verso gli investimenti diretti all'estero, che sono divenuti la categoria più importante. Questi ultimi nel complesso si sono più che triplicati fra la fine degli anni Ottanta e il 2000. Il rapporto fra lo stock di investimenti diretti esteri e il PIL, pari all'8% nel 1990, ha superato il 20% nel 2004 (UNCTAD 2005), e l'aumento è avvenuto sia nei Paesi industriali sia nei PVS. Questo sviluppo è particolarmente importante perché ha messo in evidenza l'esistenza di sinergie fra movimenti di capitale e flussi di commercio che non si pensava potessero esistere. A partire dal 1985, ma soprattutto dal 1995, le transazioni finanziarie sono cresciute nel complesso più velocemente del commercio. Tuttavia, mentre gli investimenti diretti sono rimasti in generale piuttosto stabili perché hanno un elemento intrinseco di irreversibilità, gli investimenti di portafoglio e i crediti bancari sono stati caratterizzati da un'elevatissima volatilità (per es., sono triplicati fra il 1995 e il 1999, diminuiti sensibilmente fra il 1999 e il 2003, dopo le crisi finanziarie dell'Asia orientale, per poi riaumentare successivamente). Come per il commercio di beni, anche nell'ambito degli investimenti internazionali il peso dei Paesi industriali si è notevolmente ridimensionato a favore dei PVS, sia come beneficiari sia come investitori, anche se con differenze importanti al loro interno. Nel corso del decennio successivo al 1995 la quota degli investimenti diretti nei Paesi industriali è scesa, anche se nel 2004 sembra esserci stata un'inversione di tendenza; gli Stati Uniti restano il primo Paese per afflussi di capitale (anche perché hanno un enorme disavanzo corrente, pari nel 2005 a circa il 6% del PIL). L'attuale fase di crescente integrazione finanziaria ha molti aspetti comuni con quella del periodo 1870-1914 (Obstfeld, Taylor 2004). In primo luogo l'entità degli afflussi di capitale: all'inizio del 20° sec. gli elevati attivi di parte corrente di Francia, Germania, Paesi Bassi e Gran Bretagna fornivano i fondi che affluivano verso gli Stati Uniti, l'Argentina e il Canada (principali Paesi di destinazione). In questi Paesi, i disavanzi erano superiori al 5% del PIL. Ci sono però anche importanti differenze; la principale riguarda il meccanismo di aggiustamento.
Nel corso del tempo sono ciclicamente mutate la direzione e la natura dei flussi. Fra il 1865 e il 1914 solo il 4% circa degli investimenti esteri della Gran Bretagna era localizzato nell'industria manifatturiera (il resto soprattutto nelle infrastrutture). Nel secondo dopoguerra gli Stati Uniti, divenuti esportatori di capitali, investivano i loro capitali privati in eccesso in attività produttive (per lo più nell'industria manifatturiera) in Europa, America Latina e Asia. Dopo la crisi petrolifera del 1973 i Paesi industriali hanno iniziato ad avere problemi di finanziamento delle bilance correnti e sono nettamente diminuiti i capitali privati, quasi completamente sostituiti da quelli pubblici. Gli Stati Uniti hanno cominciato ad attrarre fondi (che avevano un ammontare molto limitato ancora nei primi anni Sessanta): fra il 1998 e il 2003 hanno ricevuto il 18% dei flussi di investimenti diretti mondiali e oltre il 25% dello stock, insieme alla maggior parte dei flussi speculativi di portafoglio (ICE 2005). Alla fine degli anni Settanta il Giappone ha iniziato ad avere un fortissimo attivo corrente e a esportare capitali, assumendo un ruolo sempre più importante fino a diventare, negli anni Ottanta, il principale esportatore di capitali speculativi a breve termine, nonché un importante fornitore di fondi per investimenti diretti. Negli anni Novanta le NIEs, e successivamente anche la Cina, hanno attratto notevoli flussi di capitale, soprattutto nel settore finanziario e immobiliare. La crisi finanziaria del 1997-98, che ha colpito il Sud-Est dell'Asia e ha indotto un deflusso di capitali per più di 50 miliardi di dollari, è stata superata nei primi anni del 21° sec.; molti Paesi emergenti, soprattutto asiatici, sono divenuti esportatori netti di capitali verso il resto del mondo, e sono aumentati i flussi di investimenti diretti Sud-Sud. Molti Paesi dell'Asia orientale, in particolare Cina, Giappone e Corea del Sud, hanno registrato avanzi di conto corrente di dimensioni crescenti e hanno accumulato un ammontare di riserve ufficiali senza precedenti.
Questo sviluppo dei mercati dei capitali è associato a tre fatti principali: la diminuzione dei costi di transazione (che ha spinto a commerciare in diversi strumenti finanziari), la liberalizzazione finanziaria interna e esterna, l'interazione fra g. reale e finanziaria (un aumento dei flussi di commercio tende infatti a indurre maggiori movimenti dei capitali che devono finanziare gli scambi).
L'integrazione delle economie nazionali attraverso i movimenti di capitali non è molto diversa da quella che avviene con il commercio di beni e servizi, né per quel che riguarda le cause (sfruttamento di opportunità di profitto offerte dall'arbitraggio) né per le conseguenze. I movimenti di capitali permettono ai Paesi di trarre beneficio dalle loro diversità, attraverso trasferimenti di risorse in luoghi dove queste sono più produttive e possono avere effetti positivi, con un aumento dell'efficienza dei mercati finanziari. Tuttavia, si deve notare che i movimenti di capitale a lungo termine non si sono diretti verso i Paesi a più bassa intensità di capitale, come suggerito dai modelli teorici, e in un certo senso ciò rappresenta un fallimento della globalizzazione.
L'internazionalizzazione della produzione
L'espansione del commercio internazionale e la liberalizzazione dei movimenti di capitale, grazie anche alla diffusione delle nuove tecnologie, hanno portato una maggior concorrenza a livello internazionale. Le imprese, al fine di essere più competitive nei differenti mercati e nelle diverse aree geografiche, hanno pertanto iniziato a trasferire all'estero il processo produttivo, in parte oppure interamente, in modo tale da ridurre i costi laddove uno o più fattori della produzione (generalmente il lavoro) sono meno costosi e abbondanti, e in modo da raggiungere più facilmente i mercati di sbocco o di approvvigionamento delle materie prime, sfruttando inoltre, in alcuni casi, le esternalità positive derivanti dalla presenza di altre imprese o istituzioni nel Paese estero nel quale hanno deciso di investire.
A partire dagli anni Novanta, la frammentazione della produzione, con la delocalizzazione di alcune fasi della produzione all'estero, anche in subappalto (outsourcing), ha coinvolto in misura maggiore il settore dei servizi (in particolare quelli delle telecomunicazioni e dei servizi alle imprese). Molte di queste attività (ricerca e sviluppo, back office, call center, programmazione di software, data entry ecc.) risultano infatti più semplici da trasferire all'estero, per la minore necessità di contatto diretto con la 'casa madre' e i progressi nelle nuove tecnologie della comunicazione e dell'informazione. Hanno inciso in tale processo anche la deregolamentazione e la liberalizzazione nel settore dei servizi, e i maggiori investimenti in istruzione in Paesi quali l'India e la Cina, che hanno aumentato l'offerta di lavoro qualificato rendendola disponibile a un costo più basso rispetto a quello delle economie avanzate. Il fenomeno dell'outsourcing di servizi, iniziato negli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta e notevolmente diffusosi nel corso degli anni Novanta, sta subendo una progressiva trasformazione: inizialmente limitato ad attività non particolarmente qualificate, quali quelle di back office, attualmente si sta riorientando verso quelle con un più alto valore aggiunto (UNCTAD 2005).
Far riferimento esclusivamente agli investimenti diretti esteri non consente di stabilire un quadro esatto del fenomeno: l'attività di internazionalizzazione delle imprese cresce infatti più di quanto misurato dai flussi di investimenti diretti, a causa del proliferare di forme di relazione non azionarie fra imprese appartenenti a Paesi diversi, che possono accompagnarsi e talora sostituire le più tradizionali forme di internazionalizzazione produttiva.
Flussi di lavoratori
La g. dell'economia mondiale si è manifestata, specialmente nel passato, con migrazioni di lavoratori, che inducono un abbassamento del costo del lavoro nel Paese di destinazione e fanno aumentare il reddito nel Paese di origine, attraverso l'invio di rimesse. Inoltre le migrazioni di ritorno permettono di trasferire esperienze e tecnologie nei PVS. Fra il 1870 e il 1914 circa 36 milioni di persone lasciarono l'Europa alla ricerca di nuove opportunità. Si diressero nelle Americhe e indussero un forte aumento della produttività nelle industrie caratterizzate da eccesso di offerta di lavoro. Il flusso degli emigranti in seguito diminuì, soprattutto dopo l'introduzione di misure protezionistiche a difesa dei lavoratori nazionali indotte dalla Grande depressione del 1929. Negli anni Sessanta e Settanta i movimenti migratori ripresero, soprattutto dal Sud verso l'Europa settentrionale, e a partire dal 1985 hanno registrato un ritmo crescente, soprattutto dai Paesi della sponda sud del Mediterraneo e dall'Asia. Questo aspetto della g. tuttavia è meno sviluppato che in passato: basti pensare che la quota della popolazione mondiale residente in un Paese diverso da quello di origine era il 3% circa all'inizio del 21° sec., contro il 10% circa all'inizio del 20°, come già si è detto.
Nel tempo sono mutate la natura e la direzione dei flussi: l'America Meridionale, per es., era terra di destinazione negli anni Venti, ed è diventata a partire degli anni Settanta continente di invio. In Australia, in Canada e negli Stati Uniti gli afflussi di lavoratori, dopo un boom nell'immediato dopoguerra, a partire dal 1970 sono stati molto lenti, anche se si è registrato un forte sviluppo di immigrazioni illegali (difficilmente controllabili), soprattutto negli Stati Uniti; oltre a ciò è notevolmente aumentata lo proporzione di lavoratori asiatici sul totale degli emigranti. In Europa, il periodo di maggiori migrazioni si è avuto negli anni Sessanta, e si è registrato un crollo dopo la crisi petrolifera del 1973, quando sono state imposte severe restrizioni all'entrata di lavoratori stranieri. Alcuni Paesi europei tradizionalmente di invio, come l'Italia e la Spagna, sono divenuti, a partire dagli anni Novanta, Paesi di destinazione.
La maggior parte delle migrazioni avviene fra PVS o da PVS verso Paesi industriali, al contrario del commercio di beni, prevalentemente intraindustriale, e dei movimenti di capitali, dove i flussi bilaterali tendono a essere prevalenti. È probabile che le migrazioni possano essere il meccanismo che porterà a una convergenza dei salari a livello globale, anche se per il momento tale fenomeno non si è verificato. Le rimesse degli emigranti rappresentano una delle più ampie fonti di finanziamento esterne dei PVS: i loro flussi totali si sono quintuplicati fra il 1980 e il 2003, raggiungendo l'1,6% del PIL dei PVS; e si tratta di statistiche ufficiali, probabilmente sottostimate in quanto prescindono dalle rimesse degli immigrati illegali, che sono un numero cospicuo, e non considerano l'invio attraverso canali diversi da quelli ufficiali.
Le politiche economiche
L'influenza delle politiche economiche in presenza di mercati dei capitali integrati dipende dal sistema dei cambi in vigore e, forse, una delle conseguenze principali della maggiore libertà dei flussi di capitali e dell'integrazione finanziaria è il fatto che è diventato più difficile mantenere tassi di cambi fissi e condurre una politica monetaria indipendente, con obiettivi interni. Se i tassi di cambio fra due Paesi sono fissi, i tassi di interesse devono essere uguali; ogni piccola deviazione positiva infatti indurrebbe afflussi di capitale (e una negativa indurrebbe deflussi), mettendo sotto pressione il cambio. Anche in presenza di ampie riserve valutarie, le banche centrali si trovano in difficoltà a difendere il tasso prefissato. In presenza di mercati mondiali dei beni, dei servizi e dei capitali fortemente integrati, la soluzione alla contraddizione del 'quartetto inconciliabile' (il libero scambio, la piena mobilità dei capitali, i cambi fissi, le politiche macroeconomiche autonome) può essere ricercata in tassi di cambio fissi solo nella misura in cui le politiche monetarie nazionali siano realmente coordinate e quindi limitate nella propria autonomia.
La g. ha ulteriori importanti effetti sulla condotta della politica economica in generale e monetaria in particolare. Sono cambiati infatti, a seguito della maggiore integrazione finanziaria, i meccanismi e i canali di trasmissione della politica monetaria, ma soprattutto è aumentata nettamente la necessità di coordinamento.
Tuttavia, nonostante, come già detto, l'aumento dell'integrazione internazionale avutosi nel 20° sec. sia anche il frutto di scelte di politica economica, il grado di coordinamento di tali politiche non ha proceduto in misura corrispondente all'elevata integrazione commerciale e dei mercati finanziari, neanche nella seconda metà del secolo. La maggior parte dei Paesi ha infatti continuato a decidere e perseguire politiche monetarie e fiscali che davano la priorità a obiettivi interni, anche se questi erano in contrasto con l'internazionalizzazione. Se non coordinate in ambito internazionale, anche le politiche tradizionalmente considerate 'di competenza interna', come la fissazione di standard di qualità, la sicurezza dei lavoratori, le politiche antitrust, la regolamentazione ambientale e delle tasse, influenzano la concorrenza internazionale erischiano di essere usate in modo discriminatorio, andando in direzione opposta rispetto ai processi di internazionalizzazione in corso. Per es., per la tutela dell'ambiente, in assenza di accordi internazionali vincolanti, l'adozione di misure particolari, come il divieto di importare beni con particolari caratteristiche, può mascherare l'intento di attuare politiche commerciali restrittive e si possono creare strategie unilaterali di dumping ambientale. L'indirizzo prevalentemente 'domestico' delle politiche monetarie e fiscali non coordinate con le politiche interne (cioè la fissazione di obiettivi indirizzati unicamente a risolvere squilibri interni, senza la preoccupazione dei riflessi delle misure prese al di fuori dei propri confini) e alcune misure di protezionismo selettivo adottate da parte dei Paesi industrializzati, hanno costituito, fra il 1960 e il 1990, una minaccia ai processi di integrazione mondiale.
In seguito, tuttavia, si sono registrati decisi progressi, in particolare per quel che riguarda le politiche commerciali. A partire dalla fine degli anni Ottanta, infatti, l'aumento dell'integrazione e la g. dei mercati nell'area della politica commerciale sono divenuti evidenti: dal 1986 24 PVS hanno aderito al GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), e molti altri ancora al suo successore, la WTO, nata il 1° gennaio 1995 quale sede privilegiata di confronto per la regolamentazione del commercio internazionale. Con l'ingresso della Cina (2001), di Taiwan (2002), dell'Arabia Saudita (2005), fanno parte della WTO 149 Paesi, pari a più di quattro quinti della popolazione mondiale e a oltre il 90% del commercio mondiale (fra i grandi Paesi resta fuori la Russia, che dovrebbe tuttavia entrare nel 2007). Il grande numero di adesioni all'organizzazione e la crescente rilevanza che essa ha assunto non sono stati però sufficienti a risolvere le numerose divergenze commerciali. Negli anni, infatti, sono aumentate anche le critiche e la sfiducia nei confronti del le capacità della WTO di dare adeguate risposte ai problemi economici dei PVS e, per quelli meno avanzati, di riuscire a contenere efficacemente i rischi di marginalizzazione, sempre più accentuati in un contesto di crescente integrazione mondiale. Il processo di liberalizzazione e regolamentazione multilaterale degli scambi sta vivendo un momento di incertezza. Lo stallo verificatosi in seguito all'insuccesso registrato nel 2003 alla Conferenza di Cancún, nonostante le dichiarate disponibilità ad avviare sostanziali aperture dei mercati sia da parte dei Paesi industriali (che difendono le forme di sostegno riconosciute ai propri mercati interni) sia da parte dei PVS (che chiedono importanti eccezioni e strumenti di flessibilità), sembra esser stato superato nella conferenza interministeriale di Hong Kong del 2005.
Tuttavia rimangono irrisolti alcuni importanti nodi, come il timing dell'abolizione dei sussidi agricoli e il problema dei diritti di proprietà. Parallelamente a queste critiche, e di fronte al lento e difficoltoso avanzamento dei negoziati multilaterali, si è andata affermando la tendenza a dare maggiore spazio alla contrattazione commerciale nel quadro di accordi bilaterali o di accordi regionali, piuttosto che in ambito multilaterale. Una marcia indietro rispetto ai negoziati multilaterali.
Questioni aperte
In un mondo sempre più globale, le distanze hanno perso d'importanza e i 'confini' nazionali sono diminuiti. Le imprese multinazionali sono percepite come uno dei motori della g., insieme alla liberalizzazione (multilaterale) del commercio e a una serie di riforme economiche nei Paesi emergenti come Cina e India, che hanno indotto un forte aumento del prodotto mondiale, del commercio e dei flussi di investimenti diretti. Nel periodo 1974-2004 il reddito pro capite della Cina è aumentato di ben sei volte e quello dell'India è raddoppiato; in Cina il PIL è passato dal 3% di quello mondiale al 13%, le esportazioni dall'1% di quelle mondiali al 6% e gli investimenti diretti in entrata dal 2% al 10%.
In questo quadro i guadagni della g. non sono equamente divisi. Si è registrato un aumento della disuguaglianza, tanto fra Paesi quanto al loro interno. Oltre a ciò, i Paesi che sono rimasti esclusi dal processo, come la maggior parte di quelli africani, hanno aumentato la distanza dagli altri PVS e corrono il rischio di essere decisamente tagliati fuori dall'aumento del benessere.
Sono evidenti i problemi di coordinamento delle politiche, di divisione dei guadagni, di marginalizzazione dei Paesi che non si sono integrati per volontà o per struttura economica. Tuttavia, le imprese, i risparmiatori e i lavoratori dovranno sempre più confrontarsi con il mondo globale e non soltanto con il proprio Paese. Le decisioni di produrre, investire, studiare o lavorare non possono essere prese dentro i confini nazionali, e tutto ciò ha importanti conseguenze in termini di successo e vincoli imposti dalle politiche economiche.
In un mondo così complesso è sempre più difficile misurare il processo di internazionalizzazione in corso usando gli indicatori statistici esistenti; per misurare davvero l'entità della g. gli indicatori che si usavano in passato devono essere affiancati da nuovi concetti e nuove misure, tenendo conto del fatto che esportazioni e investimenti diretti sono spesso complementari e non sostitutivi, che molte imprese delocalizzano fasi della produzione, che logistica e distribuzione diventano sempre più importanti, e infine che per il sostegno all'internazionalizzazione i servizi finanziari sono necessari almeno quanto quelli reali.
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