GONZAGA, Luigi, detto Rodomonte
Nasce il 16 ag. 1500 a Mantova, e non a Gazzuolo residenza ordinaria dei suoi, da Ludovico e dalla genovese Francesca (ma chiamata pure Franchetta) di Gianluigi Fieschi, già moglie di Pietro Fregoso e di questo rimasta vedova. Primogenito, gli sono sorelle la celebre Giulia e Paola, maritata a Galeazzo Sanvitale; fratelli Pirro, che diviene cardinale, Alfonso, morto adolescente, Gianfrancesco detto Cagnino.
Sbalorditiva, fuor di misura già nella puerizia, la robustezza fisica del G.; una forza eccezionale, cui il fanciullo deve il soprannome di Rodomonte, forse suggerito dalla lettura dell'Orlando boiardesco. Ma tanto vigore corporeo è accompagnato da doti d'ingegno e disciplinato e ingentilito da un'accurata istruzione. Precettore del G., dall'inizio del 1512, è Giovanni Bonavoglia (umanisticamente Benivelus), a Mantova titolare della cattedra di eloquenza e arcidiacono.
È questi a introdurre il G. allo studio, a incoraggiarlo alla poesia, sicché il fanciullo fortissimo e, insieme, precoce nel verseggiare si presta da subito a una mitizzazione encomiastica cui non è estraneo T. Folengo ammirante nel G. "magnanimum pectus, forzamque leonis / grandizamque animi" - convocante su di lui la numinosa tutela d'Apollo e Marte, in lui riscontrante la "robur" d'Achille e una vocazione "Hetruscis numeris" a tal punto imperiosa da preconfigurare, quasi, "alter Homerus", come azzarda, senza tema d'esagerare, un epigramma latino di Gianmatteo Toscano. Prima ancora che dia prova di sé e con le gesta e con meno immaturi versi - e quando la darà di gran lunga eccedenti la sua modesta portata le amplificazioni che ne esalteranno il profilo post mortem, sfruttato, vien da dire, a mo' di pretesto per svarianti modulazioni sulla tastiera offerta dall'animo gentile racchiuso in un corpo possente, dall'intreccio nobiltà di sentire e maestosa figura - il G. è innalzato da una affabulazione in costante crescita anche perché incentivata dall'orgoglio del padre e dall'ambizione del precettore di brillare di gloria riflessa.
Non aveva ancora compiuto 12 anni, che da Modena, il 15 apr. 1512, il dottore in legge Francesco Fazio gli indirizzava una propria satira latina perché la sottoponesse al giudizio del suo maestro Bonavoglia non senza sollecitare pure la sua opinione.
Fatto sta che, anche quando Bonavoglia si trasferì a Pesaro, il G. resta timbrato dalla fama che questi l'abbia iniziato al poetare, mentre s'infittiscono le dicerie sulle sue inaudite esibizioni di forza: con le mani aprirebbe i ferri da cavallo, spezzerebbe grossissime funi, scaglierebbe pesantissimi pali di ferro a una distanza doppia di quella raggiungibile a un valente lanciatore. Un solo tiro del G., insomma, varrebbe "doi tiri" di quest'ultimo. Ottimo cacciatore, altresì, il ragazzo; appunto un cane da caccia gli regalò Baldassarre Castiglione il 17 giugno 1517. Ma come è assiduo nel cacciare, altrettanto lo è in impegnative letture. Desumibile da una lettera, del 2 nov. 1518, di un libraio mantovano l'imminente arrivo di testi richiesti dal giovane: Cicerone, Sallustio, Valerio Massimo, Giovenale, Terenzio in edizione aldina. Tutti autori latini. Da dedurne che il greco gli era estraneo. In compenso, stando a dei versi del conte Nicolò d'Arco, tra gli interessi coltivati dal G. ci sarebbero anche i "sydera", ossia, se non proprio l'astronomia, l'astrologia. Ma alternare partite di caccia e letture al G. non bastava: scalpita per un qualche impiego fuori casa. Era già stato mandato in Francia suo fratello Gianfrancesco. Anch'egli vorrebbe andarsene. Ma il padre non glielo consente. Al più può andare a Mantova. Qui frequentò il dotto agostiniano napoletano Ambrogio Flandino. Probabilmente partecipò alla giostra del 19 febbr. 1520. è notato il trionfo di imitazione petrarchesca da lui composto per salutare l'insediamento, del 3 apr. 1519, del nuovo marchese. Un'occasione, per lui, di una personale assunzione di responsabilità le "credenziali" inviategli, il 23 maggio 1520, dal padre perché possa "negoziare", al posto suo, nella ricomposizione di differenze insorte tra non precisati "signori" evidentemente ricorsi alla mediazione e all'arbitraggio di Ludovico. È, per il G., la "prima legazione", il primo incarico di fiducia che deve al padre, il quale nel suo senno nutre "speranza".
Ed è alla fine del 1520 che il G. - beneficiario di una pensione spagnola - lascia per la Spagna la casa paterna. Una mossa riconducibile all'opportunità di bilanciare l'eccessivo esporsi della famiglia con le propensioni filofrancesi dello zio paterno Federico, di riequilibrare il significato dell'andata in Francia del fratello del G. Gianfrancesco. In certo qual modo il G. ora gioca un ruolo di ostaggio, adoperabile a trattenere i suoi parenti da ulteriori pencolamenti per il re Cristianissimo, virtuale strumento di ricatto e garanzia che il padre non è antiasburgico. Durante questo soggiorno ha modo di distinguersi negli esercizi cavallereschi. Ma a mettere in luce la sua strepitosa forza è occasione la sfida alla lotta da parte di un moro gigantesco e tutto muscoli: avvintisi fortemente i due, il G. riesce a sciogliersi dal soffocante abbraccio, a sollevare l'avversario, a girarlo per ben sette volte attorno a sé per poi scaraventarlo a terra. Subito clamoroso l'episodio e immediatamente rimbalzato in Italia: "un signore italiano ha bracciato con un fortissimo moro", ha roteato il nero monumentale, l'ha atterrato. Esito scontato, il G. assurga, nel crescendo affabulatorio, a Ercole trionfante su Anteo. Impressionato favorevolmente dalla sua vittoria, l'imperatore Carlo V lo prende in simpatia e lo vuole al suo seguito nella sua puntata in Inghilterra. Anche il G., allora, s'imbarca a Calais e sbarca a Londra il 6 giugno 1522.
Anch'egli è ospitato nel castello di Windsor e si distingue per la valentia nelle battute di caccia. "Intesi", si complimenta con lui, il 21 agosto, da Genova Ottobono Fieschi, "quanto la Signoria Vostra era ben veduta ed accarezzata dalla cesarea maestà e serenissimo re d'Anglia" Enrico VIII nonché delle "prove" nelle "caccie". Ma, se lo zio materno si limita a riconoscere che il G. quando caccia è proprio a suo agio, è abile, è valente, c'è chi - Girolamo Muzio in una sua egloga - non si trattiene dal farne un impavido "Alceo" che, con sprezzo dell'"unghiute branche dell'orso", irridente al "setoso cinghiar", si staglia, a mo' d'"eccelso abete", ben al di sopra dei compagni, "alto" tra "l'umili vermene".
Nel frattempo, un altro zio paterno del G., Pirro, si schiera con la Francia. Donde - a replica punitiva di Carlo V - il diploma, sottoscritto dall'imperatore a Valladolid il 13 genn. 1523 - assegnante al G. le terre di quello. Lo "stato" di Pirro Gonzaga girato con qualche tratto di penna alla "persona" del nipote. Ma più imbarazzante che rallegrante per il padre del G. un "privilegio" del genere. Semplice per l'imperatore disporre da lontano. Arduo, invece, insediarsi realmente nei "castelli" confiscati di Pirro. Chi, invece, sa approfittare dell'occasione è il marchese di Mantova Federico Gonzaga - caro a Carlo V per la difesa di Pavia e celebrato dal G. con un tempestivo sonetto -, il quale mette mano, senza tanti riguardi, sui feudi di Federico Gonzaga, lo zio paterno del G. pure militante per la Francia. Tergiversante, invece, il padre del G.; e d'accordo con lui la madre e, anzi, con tutta probabilità, suggeritrice convinta di cautela. Tant'è che - ancor prima del "privilegio" imperiale al figlio -, quasi paventandolo, gli aveva scritto, il 3 luglio 1522 da Sabbioneta, di guardarsi dal far cenno ai "castelli" dei suoi due "barba" in armi per la Francia, di schivare, se possibile, ogni discorso in proposito.
Ritornato in Italia, nel 1525, con il titolo di capitano cesareo, il G. non risulta tuttavia esitante nel portarsi a Ostiano, a lui devoluta per la defezione (tale è agli occhi imperiali) dello zio Pirro. Senza risultato, invece, immediatamente soddisfacente il suo soggiorno milanese, tra settembre e ottobre, mirato al recupero di Casalmaggiore di cui - in virtù d'un diploma, ancora del 2 genn. 1517, dell'imperatore Massimiliano - era stato investito suo padre. Ma non disdetto quello se - mentre il duca Francesco Sforza, asserragliato nel castello, subisce l'assedio cesareo - il G., di quello memore, forte delle ragioni paterne, riesce, insistendo, a riattivarle, ché di Casalmaggiore ottiene la guardia e l'usufrutto. E glieli confermano, l'11 giugno 1526, una patente a firma d'Antonio de Leyva e del marchese del Vasto Alfonso Avalos d'Aquino, ove, appunto, viene stabilito egli "posseda" la "terra" di Casalmaggiore, disponendo delle relative "intrade" con la facoltà di "levare" o "posar offitiali in essa", pronto, però, a restituirla "ad ogni requesta" imperiale. Un recupero relativo, allora, che, con sentenza cesarea del 7 settembre, si rafforza poiché riconosciuta in quella la titolarità del possesso paterno.
Ma, occupata Casalmaggiore da Francesco Maria Della Rovere, il G. è catturato, ancora nell'agosto, da Marcantonio Martinengo della Pallata da Verola e rinchiuso a Soncino. Per sua fortuna per poco: il governatore della fortezza - Giovanni Francesco Ziletti, il padre del Giordano che sarà stampatore a Venezia -, visto che, ancorché a suo avviso mantenibile, deve cederla al commissario sforzesco Giovan Battista Speciano, perché così ha disposto il provveditore veneto Pietro Pesaro, non senza polemica con questo, preferisce, d'accordo col Martinengo, liberare, prima di sgomberare, il Gonzaga. Certo, che questi deve essersi fatto catturare per imprudenza, se Francesco Boccalino - un letterato mantovano un po' suo compagno, un po' suo segretario - coglie il destro della disavventura per scrivergli, con tutta probabilità dietro sollecitazione dei suoi genitori, il 15 novembre da Sabbioneta, una sorta d'esortatoria alla "prudenza".
Una virtù improntante il "buon cavaliero" che il G. dovrebbe aver assimilato se non altro perché, tra gli autori da lui "molto bene letti", c'è Valerio Massimo. Sia prima prudente - questo il senso della missiva - sì da gestire con avvedutezza "la strenuità, l'animosità, la fortezza, l'umanità, la benignità, la affabilità, la cortesia". Non metta, per avventatezza, a repentaglio la propria sorte. Segue, il 26, un'altra lettera di Boccalino, anche questa - viene da ipotizzare - concordata con i genitori del G., spedita dietro loro pressione. Vivamente sconsigliato il G. dal portarsi in Lomellina ad adunarvi 2000 fanti e 500 cavalli. Meglio torni nelle sue terre per qui, con minor spesa, assoldare fanti e cavalli.
Accolto dal G. il consiglio: colonnello di un reggimento reclutato nel Mantovano, si aggrega all'esercito cesareo procedente alla volta di Roma, dove Pirro - il fratello secondogenito - ha intrapreso la carriera ecclesiastica. Non sta partendo per un'impresa cavalleresca. Sta andando al sacco, rispetto al quale l'Affò, il suo biografo settecentesco, gli fa credito di un'intima riluttanza.
Ma, stando alle imprese, ossia alle associazioni di motto e figura, adottate dal G., quella dello scorpione illustrato da un perentorio "qui vivens laedit morte medetur", esibita in occasione dell'entrata di Carlo V a Mantova del 25 marzo 1530, promettendo la morte all'eventuale offensore, non è indicativa di magnanimità cavalleresca. È un programma di aggressività vendicativa. Ancor più sintomatica altresì l'impresa antecedente, quella escogitata, appunto, nell'assalto alla Roma papale: tra i più animosi nello scatenare i suoi contro i difensori e tra i primi a entrare tra la porta Aurelia e la Settimiana, sceglie per figura dell'impresa il tempio di Diana Efesina (incendiato da Erostrato nel 356 a.C. per e pur di diventare famoso) con la scritta "sive bonum, sive malum fama est". A prescindere dalla bontà o meno della causa, quel che conta è sortirne con la gloria della nomea, buona o cattiva che sia.
Infuria intanto il saccheggio. Atterrito, il papa ripara a Castel Sant'Angelo e tra quanti quivi si rifugiano Pirro, il fratello del Gonzaga. Non resta al pontefice che la capitolazione del 5 giugno 1527. Tra i sottoscrittori di questa per la parte cesarea è il Gonzaga. Saccheggiato il saccheggiabile è tempo di ottenere l'ottenibile dal papa in difficoltà. Il G. ottiene la promozione al cardinalato, del 21 novembre, del fratello. Naturalmente la porpora è un grosso favore in cambio di un favore equivalente, di una consistente benemerenza. Con sollievo dell'Affò - preoccupato, nel profilarlo, di far risaltare la nobiltà di comportamento del G. a mo' di costante nella sua breve esistenza -, il G. è colui che si propone a scorta dell'avvilito Clemente VII in luogo sicuro. Il 6 dicembre, nottetempo, si presenta a Castel Sant'Angelo con una trentina di uomini a cavallo e con un nutrito gruppo d'archibugieri. Fatto salire a cavallo il papa, come nascosto dalla mobile siepe degli uomini del G., il gruppo si porta a Montefiascone e, quindi, l'8 a Orvieto.
Apprezzato il G. dal pontefice in quest'occasione del trasferimento da lui organizzato con efficienza tempestiva. Comprensibile ricorra a lui per riportare l'ordine a Paliano. Inerme Giulia - la sorella del G. rimasta vedova di Vespasiano Colonna morto il 13 marzo 1528 - quando vi entra con prepotenza Sciarra Colonna e sin prigioniera poi di Napoleone Orsini che, battendo il Colonna, a Paliano si insedia. Ma soccorrevole il G. che, per espresso incarico del pontefice, caccia l'Orsini da Paliano e libera la sorella. Con questa c'è la figliastra Isabella - figlia di prime nozze del defunto Vespasiano Colonna - destinata dal padre al matrimonio con il giovanissimo Ippolito de' Medici, il figlio naturale del duca di Nemours nonché nipote del papa. Ma tutt'altro che determinata Giulia a rispettare questa volontà testamentaria dello scomparso consorte. Non è un mistero che Ippolito de' Medici ama lei e che, dovendo sposarsi, è con lei che s'accaserebbe. Che Isabella sia, invece, promessa al fratello pare alla matrigna la migliore delle soluzioni. Al G. la fanciulla non dispiace. E impensabile il G. non piaccia a lei: è bello, è in fama di grande amatore.
Stando all'egloga di Muzio ha fatto strage di cuori e in alta Italia, tra l'Oglio e il Mincio e altri affluenti del "vago Po", e più giù nella zona del Volturno. Ardenti d'amore per lui un'"Ambra", una "Napea", per lui piangente e sospirante una "Tirrenia" (pettegolezzo senza fondamento, comunque, costei sia Tullia d'Aragona), enumera Muzio velando l'identità delle conquiste del Gonzaga. Irresistibile il suo fascino per tante nobili donzelle "invan" desiose di "passar e giorni e notti" tra le "amorose e forti braccia" sue.
Ma titubante, a tutta prima, Isabella: si fa scrupolo di non venir meno alla volontà del padre, paventa le ire del pontefice. Ma, a fugare le sue perplessità, a sgomberare i suoi timori, si precipita a Paliano il neocardinale Pirro Gonzaga: Clemente VII, assicura, non ha nulla in contrario alle sue nozze con il G., anziché con Ippolito de' Medici. A ogni buon conto, l'8 aprile, Pirro scrive una lettera al papa; e il latore della missiva, Federico Santafede, torna a Paliano a ripetere quel che Pirro Gonzaga ha già detto, ossia che il papa non si oppone, che il papa è d'accordo. Di certo vi è che il neocardinale ha messo le cose per iscritto. Ma manca una risposta scritta del papa. E non è detto che Santafede gli abbia mostrato realmente la lettera. L'impressione è che i tre fratelli - il G., Giulia, Pirro -, forzando i tempi, puntino sul fatto compiuto; e non siano gran che scrupolosi per e pur di fugare gli scrupoli d'Isabella. Fatto sta che questa si lascia convincere e il 16 si obbliga per iscritto al matrimonio con il G.; non sposerà "altro marito", sinché questi - suo "legitimo sposo" - vivrà. Lo promette nel suo "palazzo di Palliano in la salvarobba", testimoni i mantovani Paris Biondo e Francesco Boccalino e Giachetto Favisino d'Alessandria. Un impegno vincolante, una promessa solenne, non ancora, tuttavia, un matrimonio. E la sensazione è quella di una messa in scena con regia forte di Giulia, con pieno consenso del G., con connivenza di Pirro, laddove Isabella è più pressata e coartata alla recita della parte per lei stabilita dalla matrigna che realmente libera di decidere. Indicativo, altresì, il presunto assenso papale lo garantisca il cardinale, non le sia dato modo di appurarlo direttamente.
E intanto il G. - cui dà man forte, a capo d'una compagnia, il capitano mantovano Giorgio Collegrano; e, in aggiunta, c'è il consistente "soccorso" dei cavalli e fanti spediti dal papa - affronta, il 6 maggio, Sciarra e Prospero Colonna mossisi in armi alla volta di Paliano per "racquistar terra". C'è una battaglia vera e propria che dura cinque ore, "con mortalità grande", come racconta al duca di Ferrara Alfonso I Roberto Boschetti. Leggermente ferito di striscio da due colpi di archibugio il G. epperò "vittorioso". Battuti i due Colonna. Ancora per un po' a Paliano il G., quel tanto che basta a fortificarne la rocca e, quindi, a Roma, dove s'ammala, mentre il suo impegno nuziale si sta facendo problema spinoso. "Se intendea" - così, il 25 luglio, da Firenze al duca estense Alessandro Guarini - "che 'l papa" aveva "deputata" Isabella Colonna a Ippolito de' Medici. E "senza resolutione" a suo favore il G. cui la Signoria fiorentina rilascia "una lettera di passo molto onorevole et amorevole" per il suo transito in Lombardia. Ma le accoglienze fiorentine - così sempre Guarini in una lettera ad Alfonso I del 12 agosto - non lo sollevano di morale. È "male sodisfato" di Clemente VII, che "gli ha negato la moglie, la quale è gravida". Una diceria senza riscontro questa data per sicura dall'inviato estense. Probabile, piuttosto, che alla promessa di matrimonio sia seguita la consumazione. Almeno così andrà dichiarando il fratello del G. Cagnino, quasi a sventare il rischio dell'invalidazione insita nel mancato assenso papale. "Come disperato", comunque il G. a Firenze per l'atteggiamento ostile del pontefice: smania, dà di matto, è fuori di sé. "Si ha voluto getare giuso da una finestra ed ha fatto molte altre pazzie", riferisce Guarini al suo signore. Certo che - poiché Ippolito de' Medici, lungi dal protestare reclamando il rispetto del testamento di Vespasiano Colonna a lui destinante la figlia, s'è messo a perorare presso il papa la causa del G. - il negato assenso papale suona deliberatamente punitivo, sin crudele. Forse il papa è animato dal risentimento perché, di fatto, è stato scavalcato, perché il suo consenso non è stato chiesto realmente prima di far promettere Isabella. Forse ne fa una questione di principio. Fatto sta che, se non altro per puntiglio, Clemente VII pare irremovibile.
E il G., lasciata Firenze, a metà settembre, è a Fontanellato ospite, per un po', della sorella Paola e di suo marito, Galeazzo Sanvitale signore di quel castello. Investito, nel contempo, dal padre del feudo di Rivarolo, un po' si consola raddoppiando la qualifica di "Caesareus capitaneus" con quella di "Riparoli dominus" sicché, se dispone qualcosa, ecco che il relativo dettato è "datum in terra nostra Riparoli". Nella bega tra parenti alla lontana coinvolgente altri parenti vicini e lontani non senza rischio di sfociare in guerricciola il G. è al fianco d'Uberto Pallavicino, marchese di Zibello e marito d'una sua zia paterna, di contro alle minacce di Ludovico Rangone, marito questi di una sua cugina. Solo che Rangone è spalleggiato dal pontefice al punto che i due fratelli minori del Pallavicino, tremebondi, si dichiarano neutrali. Coraggioso, invece, il G. si mette a dirigere i lavori di fortificazione a Zibello. Con il che non smussa di certo l'irrigidimento di Clemente VII di contro alle sue nozze con Isabella. Anzi - proprio mentre s'aderge a campione di Zibello - il pontefice sembra prestare orecchio ai Colonna che vanno premendo a che Isabella si sposi con un membro della loro famiglia sì che la sua dote - proveniente dall'eredità di Vespasiano - resti patrimonio colonnese.
Per fortuna, la nomina a cardinale, del 10 genn. 1529, di Ippolito de' Medici vanifica la disposizione testamentaria di Vespasiano Colonna in merito alle nozze d'Isabella. Questo pretesto per negarla al G. non sussiste più. E, morto il 29 il cardinale Pirro Gonzaga, i benefici di cui questi godeva - a cominciare dalla commenda della chiesa di S. Maria a Sabbioneta - sono girati, pare, parzialmente al neocardinale Medici. E sgomberata l'affacciatasi possibilità di nozze colonnesi per Isabella dall'esplicito divieto di Carlo V a una combinazione matrimoniale del genere e vano il supplicare, da parte d'Ascanio Colonna, un'investitura imperiale delle terre già di Vespasiano. Nobile realmente intanto pare il comportamento del G. agli occhi di Carlo V, ché, anziché rivendicarli, a essi rinuncia chiedendo, il 3 maggio, che ne "reinvestiat" i due figli di Pirro, Carlo e Federico. Una generosa donazione la sua ai cugini a rendere esecutiva la quale è probabile il G. - portatosi a Genova ad accogliere, allo sbarco del 12 agosto, Carlo V e al suo seguito sino a Piacenza - abbia insistito nei tre colloqui concessigli dall'imperatore che, in effetti, a Bologna, il 15 febbr. 1530, quella donazione la conferma.
E più che probabile che, nei tre colloqui, il G. abbia pure avuto modo di accennare alla non risolta questione delle sue nozze. La quale si complica laddove si fa avanti un altro pretendente alla mano d'Isabella. Ed è un personaggio di maggior peso del Gonzaga. È Ferrante Gonzaga, il fratello del marchese di Mantova Federico. Ha gran credito, aderenze, prestigio. E con il suo candidarsi scalza l'appoggio della corte mantovana alle ragioni del Gonzaga. Se questa deve mobilitarsi, non può che farlo per Ferrante, il quale - appellandosi al papa e all'imperatore - esibisce una dotta allegazione del giurista Burgundio Leoli, ove s'argomenta la nullità degli impegni nuziali d'Isabella con il Gonzaga. Ma è il fratello di questo Cagnino ad addurre documentazione comprobante il contrario e a guadagnare al fratello l'appoggio del priore di Roma Bernardo Salviati. Nel contempo il G. - che già è comparso a Bologna il 13 nov. 1529 -, torna a farvisi vedere, presenzia, distinguendosi "tra li primi italiani" dagli "abbigliamenti ricchi e sontuosi", alla solenne incoronazione del 24 febbr. 1530, contatta dignitari, personalità del seguito papale e di quello imperiale, parla di sé, dei suoi contrastati sponsali, non senza suscitare attenzione, simpatia, comprensione. E alla povera Isabella - che, nel frattempo, attende di sapere se la promessa con la quale s'è inchiodata è, invece, schiodabile con il disquisir dei giuristi e che, comunque, ha modo di percepire quanti appetiti desti la sua dote - il G. invia versi sin raggelanti tanto sono ammanierati e privi di autentico calore. Come seppe imitare "i duri giorni" di Briseide - sottratta ad Achille da Agamennone, epperò a lui restituita intatta -, ora imiti la capacità di paziente aspettazione di Penelope. È evidente che il G., nell'esortarla, si sta elogiando: si accosta ad Achille, si paragona a Ulisse. È alla promessa del 16 apr. 1528 cui, d'accordo con la sorella e con il fratello cardinale, l'ha indotta, che fa appello, non al sentimento. È in virtù di quella che la giovane deve serbarsi a lui e attendere - con la dote, è sottinteso -, il suo arrivo di trionfatore sui contendenti.
E mentre il G., il 25 marzo, è a Mantova per l'ingresso di Carlo V - ed è in quest'occasione che, nella sopravveste di raso turchino risalta lo scorpione ricamato colla minacciosa promessa di morte a chi oserà fargli torto -, il 28 Isabella, a Civita Castellana, viene puntigliosamente esaminata alla presenza di Giambattista Montebuona e Diego de Soto. Ed essa dichiara e ridichiara di non voler altri per isposo che il Gonzaga. È quel che basta agli esaminatori per rimanere persuasi che questa è la sua effettiva volontà, per ritenere valido l'impegno da lei antecedentemente assunto. E Ferrante Gonzaga, a questo punto, si fa da parte; e si sposa segretamente con Isabella Di Capua, figlia del duca di Termoli, chiedendo poi il consenso cesareo. Eliminati, dunque, per il G. tutti gli ostacoli per la celebrazione del matrimonio. Questa non è immediata, perché, al soldo del pontefice, sta cooperando al ripristino sulla repubblicana Firenze del giogo mediceo. Del 15 genn. 1531 le nozze, a Roma, "con grandissime feste" e con la "permissione" cesarea, come si premura di precisare l'inviato estense Antonio Romeo. Ragguardevole la dote della sposa: il ducato di Traetto e la contea di Fondi. Circa tre i mesi che con lei il G. trascorre per congedarsi solo quando sicuro che è rimasta incinta. E - nell'accommiatarsi - il dono, da parte d'Isabella, di una gemma legata in un anello d'oro e con scolpiti due occhi attorniati da sei epigrammi latini di Angelo Colocci, da sette di F.M. Molza, da uno di Aonio Paleario. A Mantova a metà aprile, il 7 maggio, a Bozzolo - terra del fratello Cagnino - arbitra un duello tra Pier Bernardino Nicelli detto Giovanni da Niceto e Gianfrancesco Asinelli, due gentiluomini piacentini: questi si battono per un'ora e mezzo; dopo di che il G. invita i contendenti, entrambi prodi, alla pace. Ancora nel Mantovano il G. impegnato, in autunno, nella caccia come è desumibile dalle patenti, del 27 settembre, del duca Federico concedentigli, appunto, di cacciare nelle riserve ducali. Qui apprende che, il 6 dicembre, a Fondi, la consorte ha dato luce a un figlio maschio, Vespasiano.
Rallegrato dalla notizia, a metà mese parte alla volta della corte cesarea, forse per caldeggiarvi, per conto del papa, una qualche iniziativa antiturca. Nell'aprile del 1532 risulta di nuovo nel Mantovano e il 13 è senz'altro a Rivalta sul Mincio, in "bona convalescentia" della quale con lui "se alegra" il cugino Carlo venuto a fargli "riverentia". Incamminatosi, quindi, per Roma, fa sosta a Ferrara ove visita Ariosto, del cui Furioso è imminente la ristampa.
Lieto, lietissimo il G. delle due menzioni - è evidente che è lo stesso Ariosto ad anticipargliele - che lo concernono in questa: è il prode e valoroso "Luigi di Gazolo" nel canto XXVI; è il cavaliere caro a Marte e caro alle Muse nel XXVIII, "degno" consorte di Isabella, a sua volta "degna ella di lui". Un "onore" che l'"alto dir" di tanto poeta, dal divino "spirto" e "sacro ingegno", lo nomini così favorevolmente. "Troppo il merto" suo "eccede" - così la "bassa musa" del G. nel tentativo di ringraziare in versi - il comparire nel Furioso. Ma sicuro il G. che l'"alta impresa" cui il "signor suo", Carlo V, sta chiamando "Italia, Francia e la Romana Chiesa" sarà per lui l'occasione per meritarsi veramente i versi celebranti di "messer Lodovico": in essa ripone "speme […] se non di lode", almeno d'"onesta morte"; e se poi, per grazia celeste, ne sortirà vivo, sarà talmente "di ricche spoglie adorno" da suscitare il plauso. A suo modo il G. si sta prenotando ulteriori encomi ariosteschi, si tratti di esaltarlo come eroe caduto o si tratti di cantarlo come eroe vittorioso.
Mitizzante, qui, con questi suoi versi e anche mistificante il Gonzaga. Non è che stia accingendosi a conquistare Gerusalemme, a togliere all'Infedele il Santo Sepolcro. Non gran che "alta" l'"impresa" per la quale si reca a Roma. Quella che qui si sta organizzando ha per obiettivo Ancona. E accampata pretestuosamente la motivazione che questa, solo se saldamente in mano pontificia, sarà adeguatamente presidiata e fortificata sì da poter fronteggiare eventuali minacce turche. In realtà è la semilibertà repubblicana della classe dirigente locale, l'aristocrazia mercantile, quella che si vuole sopprimere. E all'uopo mobilitato il G., il quale si porta nei pressi d'Ancona a capo di contingenti armati cui s'aggiungono, il 20 settembre, altre milizie pontificie guidate da Bernardino Castellari, il governatore della Marca. Non c'è che da muovere all'assalto. E sbandiera ai suoi il premio del sacco. Ma non occorre combattere. Il 21 gli Anziani della città s'arrendono. All'intimazione di cedere cedono. Occupata agevolmente la città. Vi tumultuano ora le milizie defraudate del sacco promesso e quanti sono accorsi dai territori circostanti improvvisandosi militi per e pur di saccheggiare. Fermo, da parte di Castellari, interprete in questo della volontà dello stesso pontefice, il diniego del saccheggio. Lo scatenarsi di ruberie e violenze - argomenta - potrebbe suscitare una reazione disperata ardua da domare; e, ancorché domata, resterebbe nella memoria urbana tenace l'avversione per il dominio papale. Costrette, il 22, le avide milizie alla disciplina, rispediti a casa loro gli aspiranti saccheggiatori accorsi da fuori. Sotto controllo la situazione in città al cui governo s'insedia Castellari. Delusi per il mancato bottino gli uomini del Gonzaga. Tuttavia, se non ad Ancona, un po' si sono dati da fare a Civitanova. Angosciato Annibal Carlo, allora a Roma, per la sorte dei due fratelli e d'una sorella ivi abitanti: "due giorni sono", scrive il 23 a Benedetto Varchi, che gli è giunta notizia "che Civitanova è ita a sacco da le genti" del Gonzaga. "Sto di malissima voglia, tantopiù che gli miei non mi scrivono e dubito di gran male".
Successivo compito del G. guidare la spedizione contro il ribelle abate di Farfa Napoleone Orsini arroccatosi a Vicovaro. Mossosi alla volta di questa in ottobre, la cinge d'assedio incontrando vigorosa resistenza. Sferrato, il 30 novembre, l'assalto, finalmente il G. entra vittorioso. Ma non tutti si arrendono. Un colpo di archibugio anonimo colpisce il G. alla spalla sinistra. Senza volto di per sé l'autore del tiro proditorio. Ma un poeta del pari anonimo attribuisce al "crudel Orsin" l'"affocata palla" che sorprende il "cavaliere ardito".
Mortale il colpo, ma non subito fulminante. Al rallentatore la morte: trasportato nel palazzo cittadino - assistito dalla moglie: i racconti in prosa e in versi sulle ultime ore del G. concordano nel farla presente al suo fianco -, il G. ha modo, prima di spirare, di dettare minuziose disposizioni testamentarie. Le trascrivono i due notai pubblici di Vicovaro essendo testimoni, tutti "videnti et intelligenti", il mantovano Giovan Francesco Capi "colonnello generale" pontificio, il medico lodigiano Tommaso Cadimosto, il "phisico" romano Damiano de Damianis, il mantovano Emilio Boccalino, il nobile Roberto Pallavicini, il milanese "maestro" Dionisio de Bonatti. Lucida la volontà testamentaria del G. - "marchese, duca di Trajeto, conte di Fundi et capitano generale" della Chiesa; questi i titoli di sua spettanza -, il quale, "sano di mente, senso et intellecto", nell'imminenza della morte, dispone con chiara "dictatura".
Il G. spira il 3 dic. 1532, "nella terra di Vicovaro, nel palazzo di detto loco, sotto la diocesi tiburtina".
La notizia della sua scomparsa si diffonde immediatamente. "Emmi grandemente doluta la morte" del G., scrive, il 25 dicembre, Bembo da Roma a Carlo Gualteruzzi. "La povera Italia" - commenta - "dopo tante altre perdite, ha or fatto questa: che ha perduto il più valoroso uomo che ella nelle armi avesse". Trasportata a Fondi la salma e quivi sepolta, mentre Gandolfo Porrino, segretario della sorella Giulia, compone in versi le Pompe funerali. "Spietata" la parca - così a Giulia Bernardo Tasso - ha "spento" uno dei "lumi maggiori" della penisola nel pieno della "gloria" dei suoi "fatti egregi". Persistente la memoria del G. anche con il passare degli anni perché lo ricorda G.P. Lomazzo, perché Torquato Tasso lo colloca tra i "primi eroi", perché, in un dialogo sulla scherma stampato nel 1575, interlocutore competente in fatto di "seconda guardia", del colpire con la spada dall'alto di punta per poi rientrare nella posizione iniziale di "rovescio tondo". E il suo nome rispunta nel 1775, con la collocazione, nel museo della mantovana Accademia, di un presunto busto di Virgilio che il G. avrebbe sottratto alle acque del Mincio e che suo figlio Vespasiano avrebbe poi custodito gelosamente. E già riesumata la sua figura l'11 ott. 1771 - nell'"azione lirico drammatica" svoltasi a Mantova per le nozze di Ferdinando Carlo d'Austria con Maria Beatrice d'Este - sì da essere in quella, con altri mantovani illustri (e quindi con Virgilio, Castiglione, Folengo), personaggio.
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