GRAMMATICA (γραμματική, grammatica)
Antichità classica. - Fino al Medioevo grammatica non significò strettamente quella disciplina che noi così chiamiamo; all'idea di grammatica formale si avvicina, al più, lo stoico Seneca (Epist., LXXXVIII, 3, 44; CVIII, 30-34), per parlarne con quell'aria di dispregio con cui la consideravano gli stoicizzanti di Pergamo. Essa si viene via via formando attraverso i secoli su esperienze storiche per opera di pensatori e di filologi, e solo nel sec. II d. C. si può dire costituita, ma non ancora distinta dall'esegesi e dalla critica dei testi, al cui servizio particolarmente è sorta. Che se i filosofi la tennero a battesimo né furono estranei alla sua evoluzione, non però ebbe, né poteva avere, fra Greci e Romani carattere filosofico; perché da loro s'ignorò la vera natura dell'arte e della lingua che al mondo dell'arte appartiene: ebbe carattere pratico ed empirico, mirò a fissare le forme e le norme del dire, prima in base alla lingua greca, poi anche alla latina. Legate all'indagine sull'essenza dell'arte sono bensì le speculazioni dei filosofi sul linguaggio, se sia per "natura" (ϕὺσει) o per "convenzione" (νόμῳ, ϑέσει), di che a noi è massimo documento il Cratilo platonico; ma il problema non ebbe limpida impostazione, né portò a "sceverare la facoltà linguistica da quella propriamente logica e a considerarla in unione con la facoltà poetica e artistica" (Croce), o, se conato ci fu, "restò a mezzo" anche con Aristotele. Dalla ricerca filosofica si passa a un indirizzo più empirico e formalistico con la Stoa; la logica non si muove più nel campo della speculazione teoretica, sì del pensiero comune, d'ogni giorno: e con gli stoici, dopo i primissimi elastici avviamenti venuti da sofisti (Protagora, Ippia) e da filosofi (Platone, Aristotele; v. filologia, XV, p. 340), nasce la teoria delle forme grammaticali, comincia insomma a evolversi la grammatica di senso specifico e di natura empirica, quale si è poi trasmessa a noi. Veri sbozzatori di essa sono gli stoici; elaboratori e perfezionatori, i filologi: punto centrale nella storia del suo sviluppo, la famosa disputa fra anomalisti e analogisti, che scaturisce dal problema del linguaggio (ϕύσις o ϑέσις), come gli stoici lo intesero. Partendo dal concetto dell'anomalia, a dimostrare che nel parlar comune c'è incongruenza fra cosa e suono o parola, lo stoico Crisippo (sec. III a. C.) e i suoi seguaci sottoposero ad analisi sistematica le diverse categorie di voci, creando la terminologia grammaticale, senza che si possan precisare le tappe di questo divenire, che va dalla fissazione degli elementi di cui si compone la parola (24 lettere o στοιχεῖα) alle "parti del discorso" alla declinazione e coniugazione, ai "generi" delle voci, ai tempi, forse anche ai modi, sebbene non sia provato. Le parti del discorso, già nel secolo II a. C., sono otto secondo Aristarco di Samotracia (v.), e categorie e termini stoici entrano definitivamente nella Γραμματική del suo allievo Dionisio Trace (v.), che resta fondamentale per tutta l'antichità. Il principio dell'analogia fu proprio dei grammatici alessandrini. Nel caos, nell'incertezza, nell'oscurità delle forme in cui essi, i restitutori critici dei testi della poesia nazionale, trovarono Omero e gli altri poeti, si aveva bisogno d'un criterio discernitore e riconoscitore: il quale fu appunto l'armonia o proportio nei reciproci rapporti degli elementi linguistici, l'analogia. Qui non si tratta più di rispondenza o meno fra concetto e parola, ma analogia ha altro valore e altro oggetto di considerazione, che la parola in genere (Varrone): per gli analogisti si tratta piuttosto di racLogliere in determinati canoni i fenomeni, stabilendo in quali casi esista una similitudo o relazione analogica. Il contrasto fra alessandrini e stoici, o meglio stoicizzanti, nasce solo con Cratete di Mallo (v.), il grammatico o critico pergameno, che l'anomalia stoicamente intesa applica alla formazione e alla flessione, sostenendo l'irregolarità, l'inaequalitas declinationum. Di qui l'urto fra due campi opposti, i cui riecheggiamenti più notevoli ci restano in Varrone e in Sesto Empirico. È evidente che dalle regole, a mezzo dell'analogia fissate prima sul fondamento dei tipi formativi e flessivi e quindi anche al di là di essi, si passò poi a discutere sull'"esattezza" (ὀρϑότης) intrinseca del linguaggio, a saggiare la ὀρϑο0της, ad ammetterla o ripudiarla secondo i casi. La controversia naturalmente ebbe i suoi errori e i suoi eccessi, ma fruttò la costituzione definitiva della grammatica, al che contribuirono entrambe le parti coi loro principî, quello formatore e ordinatore dell'analogia, e quello critico e correttore dell'anomalia. "Nel processo del divenire della grammatica (dice H. Steinthal) gli analogisti diedero la base, gli anomalisti l'acido, questi furono il fattore che suscitò il fermento". "La grammatica, soggiunge B. Croce, è stata giustamente considerata come una sorta di transazione tra i due opposti indirizzi, perché se gli schemi di flessione (κανόνες) valgono ad appagare l'esigenza degli analogisti, la loro varietà appaga quella degli anomalisti; onde, teoria dell'analogia dapprima, la grammatica finì con l'essere definita "teoria dell'analogia e dell'anomalia" (ὁμοίου τε καὶ ἀνομοι0ου ϑεωρία)". In Grecia, comunque, prevalse in genere, sin quasi a vincere, l'orientazione alessandrina. Foneticamente e morfologicamente le linee sostanziali della grammatica sono già in Dionisio Trace: ciò che vien dopo è una maggior chiarificazione e una più distinta terminologia. Altro si deve dire della sintassi, i cui germi sono già di nuovo in certe osservazioni degli stoici sulla proposizione, anzi in certi concetti della sofistica del sec. V a. C. Sistematicamente costruita essa ci apparisce solo con Apollonio Discolo (v.) nel sec. II d. C.; ma è una lenta elaborazione di generazioni, a cui han contribuito certo anche i Latini: fra i Greci particolarmente, pare, Trifone d'Alessandria sul principio dell'età imperiale di Roma; fra i Latini L. Elio Stilone, il maestro di Varrone, Varrone stesso nella 3ª parte del De lingua latina, Remmio Palemone, il maestro di Quintiliano. Prisciano nel secolo V-VI d. C., mentre di solito dichiara di copiare Apollonio, nella sintassi dice d'attenersi a lui più liberamente; ci attesta dunque, trascrittore com'egli è, l'esistenza costì di altre fonti autorevoli. La prima Ars grammatica romana di cui sia esplicita memoria, apriva i Disciplinarum libri di Varrone, ed era sicuramente breve e sommaria, ristretta a un libro: comprendeva, pare, fonetica e flessione. Una costruzione un po' diversa, uno studio diretto della grammatica sotto il riguardo dell'analogia e dell'anomalia, è l'opera De lingua latina, in parte rimastaci, comprendente l'etimologia, la morfologia, la sintassi. Fonte principale fu in Roma l'Ars varroniana a una grammatica scolastica, che ebbe fortuna secolare, in varie recensioni e riadattazioni, e diede materiali e direttive a parecchi eruditi durante l'impero (p. es., Donato): molto vicina alle correnti stoiche e pergamene, aggiunse alla grammatica vera e propria quelle considerazioni stilistiche che furon così care alla scuola di Cratete e ignote invece alla alessandrina, e cioè il capitolo, abituale tra i Latini, sulle κακίαι τοῦ λόγου o de vitiis et virtutibus sermonis. Invece Palemone, colui che primo costruì per i Romani un'Ars in grande, ivi incluse questioni di sintassi: sembra che seguisse dappresso la tradizione alessandrina e Dionisio Trace, pur sentendo anche l'efficacia dell'altro indirizzo. Egli influì a sua volta largamente sulla grammatica avvenire, ben presto fattasi compilatoria (v. filologia, XV, pp. 340-341): così, le otto parti del discorso entrano per opera sua nella grammatica romana. Dopo Palemone per ampiezza e importanza di trattazione sono da ricordare Terenzio Scauro e Arrunzio Celso (sec. II d. C.); nel sec. III l'Ars grammatica più alta si allarga ad abbracciare la latinitas (ortografia ed ortoepia) e la metrica; poi siamo ai compendî.
Fonti principali sono Dionisio Trace (v.), i Grammatici Graeci (edd. R. Schneider e G. Uhlig, Lipsia 1878-1910), Erodiano (v.), Varrone (De lingua latina, ed. G. Goetz e F. Schoell, Lipsia 1910), i Grammatici latini (ed. H. Keil, Lipsia 1857-1880), i Grammaticae Romanae Fragmenta (ed. H. Funaioli, Lipsia 1907).
La grammatica dalla decadenza della cultura romana al sec. XVI. - Con la decadenza della cultura romana, intendono a mantener integra la lingua letteraria latina i grammatici Elio Donato (355 circa) e Prisciano di Cesarea (inizio del sec. VI), che domineranno a lungo nelle scuole: il primo con l'Ars grammatica (in doppia edizione: la fortunatissima Ars minor, ch'è elementare, e in forma catechetica tratta la teoria delle otto parti del discorso; e l'Ars maior, divisa in tre parti); il secondo con le Institutiones grammaticae, concernenti pure la sintassi. L'età della decadenza romana si può conchiudere con Cassiodoro (490-583 c.), a cui spetta il merito di avere cristianizzato la grammatica pagana. Quando poi la cultura si affievolisce in Italia, qui vengono a mancare anche gli autori di testi grammaticali, e si fa ricorso o ai tardi grammatici, specie a Prisciano, o ai trattati della Rinascenza anglosassone e carolingia, specie a Beda (673-735) e Alcuino (730-804), diventato subito famoso in Germania e in Italia, nella quale si diffuse così il metodo catechetico. Successivamente, una grande novità (tale da poter far credere all'aprirsi di un nuovo periodo) è segnata dai testi grammaticali in versi, sorti in Francia e in Inghilterra, ma che furono importati anche in Italia: sono da registrare il Doctrinale di Alessandro di Villedieu (1170-1250 circa; si estese largamente, era fondato sulla latinità medievale, così da aiutare il formarsi di una nuova unità linguistica, almeno per l'uso dei dotti, e consigliava ai maestri di giovarsi pur del volgare), il Graecismus di Everardo di Béthune (circa 1212), le opere dell'inglese Gaufredo di Vinsauf (sec. XII-XIII) e quelle, numerosissime, di Giovanni di Garlandia (nato verso il 1180 e morto dopo il 1252), il quale però si sa che in Italia godette di scarsissimo favore. A reggere in qualche modo la concorrenza del Doctrinale sopravvenne il Catholicon di Giovanni Balbi da Genova, scritto circa il 1280 e formato di una grammatica, apprezzatissima, e di un glossario, che è da rammentar con quelli di Uguccione da Pisa e di Papia.
Il periodo della decadenza della cultura latina è quello della scuola municipale romana, quindi della gotica e degl'inizî della scuola cristiana: il metodo grammaticale che si adotta è l'espositivo. Nell'epoca sassone e carolingia fiorirono le grandi scuole cenobiali e la scuola carolingia, pure vescovile e cenobiale, ma di stato: la grammatica si apprese mediante il metodo catechetico. Il tempo dei trattati metrici è quello in cui la scuola viene retta dalla Chiesa. La grammatica medievale mira sempre più a dar la prevalenza al lato logico della lingua anziché alla considerazione formale, e ciò perché, opponendosi artes e auctores, la grammatica si era straniata dallo studio dei classici, e perché inoltre, nella storia del pensiero, come maestro si riconosceva Aristotele in luogo di Platone e la patristica si trasformava in scolastica. Nello stesso Doctrinale, che è documento significativo in alto grado, "gli elementi della lingua sono studiati nei loro rapporti logici, la parte più notevole è dedicata alla sintassi dei casi, e poiché il pensiero logico da cui si parte ha naturalmente forma nell'uso linguistico del tempo, le dottrine che vi sono insegnate traggono alimento non più dal latino degli scrittori classici ma dal latino medievale" (Pagliaro). Con la scolastica si va anche più in là: basta pensare alla Grammatatica speculativa di G. Duns Scoto (morto nel 1308) o al più tardo Donatus moralizatus di Giovanni di Gerson (1363-1429).
Instaurandosi la riforma degli umanisti, l'Italia rivendica la funzione di maestra, nel reagire ai testi grammaticali prodotti durante l'età media e nel ristabilire il contatto con i classici. Lorenzo Valla con gli Elegantiarum linguae latinae sive de linguae latinae elegantia l. VI (editi a Roma e Venezia nel 1471) indirizza la scuola al gusto della corretta latinità e quali modelli assume Cicerone e Quintiliano: ad attuare il nuovo deale del Valla collaborano varî umanisti minori, come Sulpicio Verulano, Antonio Mancinelli da Velletri, Aldo Manuzio. Guarin0 Veronese, invece, nelle sue Regulae grammaticales (stampate a Venezia nel 1470), se anche semplifca la grammatica, sciogliendola dal peso dei vani filosofemi, e attinge a Prisciano, nel complesso rientra però nella cornice medievale, per i testi seguiti, per il metodo, per la ripartizione della materia. Come opposizione al Medioevo, benché non ancora liberi dalla forma catechetica, sono pure da allegare i Rudimenta grammatices di Niccolò Perotti (stampati a Roma nel 1483). In Germania tenne gran campo la grammatica latina di Filippo Melantone (1525-26). Anche la tendenza speculativa, già rilevata negli scolastici, continua, e attrae quanti vogliono il riscatto dalla servitù delle grammatiche empiriche e prescrittive, i quali tuttavia incappano nel logicismo, secondo cui nel fatto linguistico e grammaticale non è da scorger altro che un fatto logico: i De causis linguae latinae l. XIII di Giulio Cesare Scaligero, pubblicati a Lione nel 1540, muovono appunto dalla logica di Aristotele; criterî logici e sistematici reggono gli scritti di Pierre de la Ramée (Petrus Ramus) e l'importantissima Minerva seu de causis linguae latinae commentarius (Salamanca 1587) di Francesco Sánchez (Sanctius, Sanzio). Da quest'ultimo discende, fra altre, la Grammatica philosophica di Gaspare Scioppio (Milano 1628). Per la tendenza logicizzante, e per chi indaga le relazioni della storia della grammatica con la storia dell'estetica, sono da mettere in pieno rilievo i Grammaticalium libri tres editi a Parigi nel 1638 da Tommaso Campanella come philosophiae rationalis pars prima.
La grammatica italiana. - Il trionfo della letteratura in volgare e il principio umanistico dell'imitazione portano al sorgere della grammatica italiana, compilata sugli schemi di Donato e Prisciano, con carattere essenzialmente normativo e fondata sull'uso dei grandi trecentisti. Il legislatore classico del Cinquecento è Pietro Bembo, il quale nelle Prose della volgar lingua (Venezia 1525), ispirandosi a un programma arcaicizzante e aristocratico, pone limiti rigorosi al fiorentino, e prescrive che si tengano a modello specialmente (pur richiamandosi anche all'uso vivo di Firenze) il Petrarca e il Boccaccio. Sempre informata a intendimenti pratici resta la grammatica, quando si vuole che all'uso dei trecentisti si sostituisca quello degli scrittori eccellenti di ogni parte d' Italia: teoria della "lingua cortigiana" rappresentata dalla Grammatichetta di Gian Giorgio Trissino (Vicenza 1529); e quando i Toscani (in un'acuta discussione su cui s'innalza Claudio Tolomei, giustamente ritenuto fra i più fecondi precursori della grammatica storica) proclamano e difendono il proprio diritto di osservare e raccogliere le norme grammaticali, e si arriva alla legiferazione di Pier Francesco Giambullari (Della lingua che si parla e scrive in Firenze ecc., Firenze 1551), rispettosa essa stessa del canone classicistico e del concetto della regolarità. Col procedere del tempo, nelle grammatiche che via via compaiono e nelle dispute di Ludovico Castelvetro (insigne la sua prima Giunta, pubblicata a Modena il 1563) e di altri, si sviluppa l'elemento storico e si affina e ferma il metodo, mentre il purismo si consolida tenacemente e ha il suo rappresentante in Girolamo Muzio "cavaliere della fede e della grammatica". Tutto il vasto lavorio grammaticale del Cinquecento è coronato dalla codificazione del toscano a opera del purista Leonardo Salviati (Degli avvertimenti della lingua sopra 'l Decamerone, Venezia 1584), convinto della sovraeccellenza della lingua e della letteratura dei Fiorentini, e che a base del proprio edificio pone il Boccaccio.
Se nel corso del sec. XVI la grammatica è, come si è visto, asservita ai fini pratici dell'apprendimento della lingua, giusta le richieste dell'età, non manca tuttavia di sorgere e alimentarsi l'interesse per il problema delle categorie grammaticali e sintattiche: interesse che preparò la strada alla grammatica di Port-Royal e quindi alla grammatica generale dell'Enciclopedia. Il primo introdursi dell'intellettualismo o logicismo nella grammatica e l'inizio della dissoluzione della grammatica empirica avvengono nei due libri Della lingua toscana (Firenze 1643) di Benedetto Buonmattei (1581-1647), "il principe dei grammatici italiani": si collega egli alla corrente dello Scaligero e del Sanzio e piecorre la grammatica di Port-Royal, ma nella parte pratica aderisce alla Crusca.
Le grammatiche ragionate e filosofiche furono inaugurate dalla Grammatica ragionata della lingua italiana del padre Francesco Soave (Parma 1770). Ma la grammatica filosofica fallisce, perché se ne avvertono il vuoto sostanziale e l'infecondità e perché, in reazione al francesismo, nel ridesto sentimento nazionale, si giunge al purismo. Si fa ritorno quindi alla grammatica empirica: a quella dei puristi (va ricordata la Grammatica di Basilio Puoti, Napoli 1841), propria "di letterati e non di popolo", e, successivamente, a quella dei manzoniani (citiamo la Grammatica italiana di L. Morandi e G. Cappuccini, del 1894, tuttora in uso nelle scuole), che s'ispira a tendenze letterarie ed etiche della "scuola liberale" formatasi nel Risorgimento italiano.
Altri paesi. - Per la Francia, e non per essa solo, fu un avvenimento importante l'apparire, nel 1660, della grammatica di Port-Royal, perché conteneva una teoria del linguaggio, che segnava stabilmente "l'état métaphysique" della grammatica. F. Malherbe aveva propugnato una lingua regolata, chiara e pura; e Vaugelas (continuatore, non senza riduzioni, delle teorie di Malherbe) nelle Remarques sur la langue françoise (1647) aveva dato a base della grammatica, definitivamente, "l'usage des honnêtes gens". Alle Remarques, che si limitano a osservare e constatare, si oppose appunto la Grammaire générale et raisonnée di Port-Royal (dovuta al grande Arnauld, anziché alla collaborazione di Claudio Lancelot e Arnauld), animata dall'ardore, tutto razionalista o cartesiano, di spiegare in luogo di constatare e di render ragione in luogo di meramente descrivere. La Grammaire ebbe un successo straordinario, e costituì, come è stato detto, la carta grammaticale del sec. XVIII, dell'impero e della restaurazione.
Nel sec. XVIII, guardato nel suo insieme, "si scrissero grammatiche generali o ideologiche (Du Marsais, Beauzée, Condillac, Batteux, Harris), si discusse se il linguaggio fosse d'origine umana o divina (Rousseau, Monboddo, Süssmilch, Tiedemann), si ricercarono le leggi delle formazioni delle lingue (De Brosses, Court de Gébelin, e da noi il Cesarotti che segue il De Brosses, D. Colao Agata e il Soave); ma né nel campo della teoria della lingua, né in quello della grammatica empirica fu questo un periodo fruttuoso, giacché si concepì la lingua come un complesso di segni convenzionali e non si ebbe sentore alcuno della concezione della lingua come arte che già il Vico aveva messa innanzi" (Pagliaro).
Proprio attraverso le speculazioni dei filosofi sul linguaggio doveva la grammatica pervenire al pieno e chiaro concetto di sé stessa, e, in quanto ragionata o arbitrariamente normativa, dissolversi. Mentre in Europa ci s'industriava ancora a mostrar che chi parla si serve di schemi astratti, G. B. Vico affermava che la fantasia è indipendente dall'intelletto e che all'attività fantastica è da riportare la lingua, e giudicava vano ogni tentativo o disegno di grammatici (come lo Scaligero e il Sanzio) ragionanti di lingua con i principî della logica aristotelica. Anche F. De Sanctis, "per naturale bisogno speculativo, si diè a investigare le dottrine dei grammatici con l'intento di sistemarle, ma da questo tentativo passò via via alla critica e al superamento". E lo stesso Manzoni, benché chiuso nelle strettoie di un sistema che si fonda sul concetto razionalistico dell'espressione, mosse numerosissimi appunti, e molto acutamente, alla grammatica ragionata. Solo con B. Croce Estetica: v. 6ª ediz., p. 161 segg.), essendosi infine posta "la natura estetica, e perciò teoretica e non pratica dell'espressione del linguaggio", si è potuto individuare "l'errore scientifico, ch'è nel concetto di una grammatica (normativa), che stabilisca le leggi del ben parlare. Una tecnica del teoretico rappresenta una contraddizione in termini. E che cosa vorrebbe essere la grammatica (normativa) se non appunto una tecnica dell'espressione linguistica, ossia di un atto teoretico?". Ma "ben diverso è il caso in cui la grammatica viene intesa come mera disciplina empirica, cioè come raccolta di schemi utili all'apprendimento delle lingue, senza pretesa alcuna di filosofica verità. Anche le astrazioni delle parti del discorso sono, in questo caso, ammissibili e giovevoli". In breve, fuori dell'Estetica, che dà la conoscenza della natura del linguaggio, e della grammatica empirica ch'è un espediente pedagogico, non resta altro che la storia delle lingue nella loro realtà vivente, cioè la storia dei prodotti letterarî concreti, sostanzialmente identica con la storia della letteratura"
Bibl.: Uno sguardo generale, abbastanza particolareggiato, in A. Pagliaro, Sommario di linguistica arioeuropea, I, Roma 1930, p. 28 segg. - Per i grammatici classici: R. Schmidt, De Stoicorum grammatica, Halle 1839; L. Lercsh, Die Sprachphilosophie der Alten, Bonn 1838-44; E. Egger, Essai sur l'histoire des théories grammaticales dans l'antiquité, Parigi 1854; H. Steinthal, Geschichte der Sprachwissenschaft bei den Griechen und Römern, Berlino 1890-91; J. Jeep, Zur Geschichte der Lehre von den Redetheilen bei den lateinischen Grammatikern, Lipsia 1893; A. Gudemann, Grammatik, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VII, col. 1780 segg.; J. E. Sandys, History of classical scholarship, I, 2ª ed., Cambridge 1906; H. Delbrück, Einleitung in das Studium der indogermanischen Sprachen, 6ª ed., Lipsia 1919, p. 1 segg.; K. Barwick, Remmius Palaemon, Lipsia 1922, passim. - Per i trattati grammaticali nel Medioevo: C. Thurot, Notices et extraits des manuscrits de la Bibl. imp., ecc., XXII, ii, Parigi 1868; J. J. Baebler, Beiträge zur einer Geschichte der lat. Gramm. im Mittelalter, Halle 1885; G. Manacorda, Storia della scuola in Italia, I, ii, Palermo [1914], p. 213 segg.; E. Faral, Les arts poétiques du XIIIe siècle, Parigi 1923; M. Manitius, Geschichte der lat. Literatur des Mittelalters, I-III, Monaco 1911-1931. - Per la grammatica degli umanisti: R. Sabbadini, Il metodo degli Umanisti, Firenze [1922]. Per la grammatica italiana (e non solo per essa), e per la moderna critica del concetto di grammatica, C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, Milano 1908 (e cfr. C. Vossler, G. Vidossich, C. Trabalza, M. Rossi, G. Gentile, Il concetto della grammatica, con prefaz. di B. Croce, Città di Castello 1912); B. Croce, Ostetica, 6ª ed., Bari 1928; G. Gentile, La filosofia dell'arte, Milano 1931; K. Vossler, Metodología filológica, Madrid 1930. - Sui metodi che i glottologi credono più appropriati nella compilazione di una grammatica pratica, v. Actes du premier congrés internat. des linguistes à La Haye (1928), Leida 1931, p. 33 segg. Per la grammatica francese, cenni e bibliografia in A. Dauzat, Hist. de la langue franç., Parigi 1930, p. 18 segg., e G. Harnois, Les théories du langage en France de 1660 à 1821, Parigi [1929]. Per la gramm. tedesca, M.H. Jellinek, Gesch. d. neuhochdeutschen Gramm. von den Anfängen bis auf Adelung, Heidelberg 1913-14.