grammaticalizzazione
La grammaticalizzazione è il fenomeno per cui forme linguistiche libere (per es., parole) perdono gradualmente l’autonomia fonologica e il significato lessicale, fino a diventare forme legate con valore grammaticale (diventando, per es., desinenze). L’introduzione del termine grammaticalizzazione (fr. grammaticalisation) si deve ad Antoine Meillet (1948: 131). In questo fenomeno si ravvisano un aspetto sincronico e uno diacronico: tuttavia, il suo fondamento è intrinsecamente diacronico.
Tre meccanismi interrelati sono necessari, ma non sufficienti, perché si abbia grammaticalizzazione: indebolimento semantico (all’ingl., semantic bleaching), riduzione morfologica ed erosione fonetica.
Per indebolimento semantico s’intende la perdita di tutto (o quasi) il contenuto semantico di una parola o espressione. Quando un’espressione passa da un significato lessicale a uno grammaticale, è probabile che perda gli elementi morfologici che erano caratteristici della sua categoria di partenza, ma che ora non sono più rilevanti: si parla perciò di riduzione morfologica (o decategorizzazione). La decategorizzazione (Hopper & Traugott 1993) è spesso una transcategorizzazione, cioè un passaggio da una categoria a un’altra (Heine, Claudi & Hünnemeyer 1991: 236). Ad es., forme verbali possono essere usate come avverbi o preposizioni: è il caso dell’italiano tranne, in origine una forma di imperativo (tràine «togline») o di forme come il francese pendant, il tedesco während, l’inglese during e l’italiano durante, in origine tutte forme verbali di participio che hanno perso ogni legame con il proprio paradigma (cfr. Ramat 2005b).
Con l’erosione fonetica un’espressione linguistica, sottoposta a grammaticalizzazione, subisce una graduale perdita della sostanza fonetica: si tratta di un processo comune del mutamento linguistico, non confinato solo alla grammaticalizzazione.
Secondo Croft (2000: 157) i più comuni processi di grammaticalizzazione sono i seguenti:
(a) verbo lessicale > ausiliare > affisso di tempo, modo o aspetto;
(b) verbo > adposizione (per es., preposizione);
(c) adposizione > marca di caso;
(d) adposizione > congiunzione subordinante;
(e) pronome personale > clitico > affisso di accordo verbale;
(f) dimostrativo o articolo > congiunzione subordinante;
(g) numerale uno > articolo indefinito.
Si tratta di fenomeni comuni a lingue di famiglie linguistiche diverse: la diffusione di questi percorsi di grammaticalizzazione non è casuale, ma può trovare una spiegazione in alcuni meccanismi cognitivi, di carattere metaforico e metonimico.
3.1.1 Forme verbali perifrastiche. Le categorie di tempo e aspetto sono spesso espresse attraverso costruzioni perifrastiche, formate da un ausiliare + un verbo che veicola il significato lessicale (➔ ausiliari, verbi; ➔ fraseologici, verbi; ➔ perifrastiche, strutture). L’italiano, come le altre lingue romanze, non fa eccezione: costrutti perifrastici sono tuttora, o sono stati in fasi precedenti nel cammino verso la grammaticalizzazione, utilizzati per esprimere categorie tempo-aspettuali.
È il caso, ad es., del ➔ passato prossimo, di cui si ripercorrono qui brevemente gli stadi. In latino e nelle fasi più antiche delle lingue romanze i costrutti del tipo habere (e tenere) + participio passato esprimevano il possesso di un’entità che si trovava nello stato descritto dal participio passato:
(1) in ea provincia pecunias magnas collocatas habent «possiedono grandi capitali investiti in quella provincia» (lett. «in quella provincia denari molti investiti hanno») (Cicerone, in Harris & Campbell 1995: 182)
In questa costruzione, il participio (collocatas) si accorda con il complemento oggetto (pecunias) del verbo habere; nel passaggio successivo habere acquista il valore di ausiliare e la struttura della frase viene rianalizzata (➔ rianalisi): la frase non esprime più il possesso di un’entità che si trova ad essere nello stato descritto dal participio, ma significa che qualcuno ha compiuto l’azione espressa dal participio, come nell’italiano attuale:
(2) hanno investito grandi capitali in quella banca
dove il participio (investito) non concorda più con l’oggetto del verbo avere, che diventa un vero e proprio ausiliare, cioè puro mezzo flessivo veicolante le sole informazioni di carattere morfologico, mentre il participio, diventato invariabile, veicola le informazioni di carattere lessicale.
Un altro esempio è rappresentato dallo sviluppo del ➔ futuro nelle lingue romanze. L’italiano e le lingue romanze non hanno continuato la forma latina del futuro (il tipo amabo «amerò» e legam «leggerò») ma, come nel caso del ➔ condizionale, di cui si parlerà poco oltre, l’hanno sostituita con una costruzione perifrastica. Tale costruzione, costituita da una forma del verbo habere + infinito del verbo principale, cominciò a diffondersi già nel latino volgare; ma il processo non si arrestò lì. Progressivamente, da forma analitica diventò sintetica, con un passaggio frequente tra le lingue. Il processo di grammaticalizzazione, per l’italiano, può essere rappresentato dunque in questo modo:
(3) cantare habeo (forma analitica) > *kantarajo (forma sintetica) > canterò (forma sintetica)
In realtà, non tutte le lingue romanze hanno seguito il modello. Il romeno, ad es., presenta tre forme di futuro:
(a) lat. *volere (per velle) + infinito: per es., *voleo (per volo) cantare > voi cânta (lett. «voglio cantare»). Si tratta di una forma nota anche in altre lingue: non solo in alcuni dialetti italiani settentrionali, ma anche in inglese, dove l’ausiliare will, forma desiderativa, si è grammaticalizzato come marca di futuro;
(b) habere + congiuntivo: am să cânt, lett. «ho che io canti»;
(c) *volere + congiuntivo (ma tutte le forme dell’ausiliare sono neutralizzate nel solo o): o să cânt, o să cânţi, lett. «vuole + che (io) canti», «vuole + che (tu) canti».
Per quanto riguarda il condizionale, il latino non lo possedeva, ma esprimeva i suoi valori con il congiuntivo o, a volte, con l’indicativo. Si tratta dunque di un’innovazione romanza: il costrutto aveva struttura molto simile a quella utilizzata per il futuro: l’ausiliare è ancora una volta il verbo habere, con l’infinito del verbo principale: cantare habebat > fr. chanterait; spagn., port., provenz. e dialetti italiani cantarìa; cantare hebuit (=habuit) > it., tosc. canterebbe, con, ancora una volta, il passaggio da una forma analitica a una forma sintetica.
Il sardo (➔ sardi, dialetti) si discosta, sia nel caso del futuro sia in quello del condizionale, dal comportamento della maggioranza delle lingue romanze: il futuro ha una costruzione perifrastica costituita dal verbo aere «avere» seguito dalla preposizione a + infinito: app’a fugghire, lett. «ho a fuggire»; anche per il condizionale utilizza una costruzione perifrastica, costituita dal verbo déppere «dovere» + infinito: deo dia domare, lett. «io dovevo domare».
In alcune zone dell’Italia centromeridionale non sono attestate forme di condizionale analitico, ma si sono conservate invece forme di antico trapassato latino (➔ meridionali, dialetti): laziale merid. avèra < lat. habueram, sicil. fora < lat. fueram.
Costruzioni perifrastiche sono utilizzate anche per l’espressione dell’➔aspetto progressivo, vale a dire per azioni in corso. Si tratta di costruzioni molto diffuse nelle lingue romanze, ma ignote al latino classico e rare nel latino postclassico (stetit cunctando «ristette esitando», in Ammiano Marcellino, Res Gestae a Fine Corneli Taciti 17, 8; stellas ire trahendo comas «le stelle andar trascinando la chioma», in Fortunato, Poesie V, 5).
3.1.2 Verbi di movimento. Nelle lingue romanze alcune costruzioni sono invece molto produttive: si tratta del tipo italiano stare + gerundio (spagn. estar + gerundio, ecc.), in cui il valore di azione progressiva o di stato durativo è espresso da una forma verbale di modo finito (tipicamente verbi di stato o di moto, come stare, andare, ecc.), che ha valore di ausiliare, fortemente desemantizzato e che veicola le informazioni di tempo, modo/aspetto, persona, mentre l’informazione lessicale è espressa dal gerundio.
In italiano antico era già diffuso l’uso di questi costrutti; in origine, l’ausiliare andare esprimeva un reale movimento:
(4) andrà per la terra e per lo nostro contado uccidendo e rubando e ardendo amico e nimico (Bono Giamboni, Fiore di Rettorica, cap. 36)
In seguito, esso è passato a indicare lo svolgimento di un’azione:
(5) E pur conven che l’alta umiltà mia
vad’a forza l’orgoglio vostro abbassando
(Guittone d’Arezzo, son. X, 12)
I verbi di movimento (➔ movimento, verbi di), come andare e venire, sono spesso implicati in processi di grammaticalizzazione, a causa di fattori quali l’alta frequenza, il significato generico, la tendenza ad assumere significati metaforici. L’italiano e, più in generale, le lingue romanze, mostrano diversi esempi di grammaticalizzazione con verbi di questo tipo: oltre a quelli appena visti, si possono citare il francese aller «andare» + infinito con valore di futuro: je vais manger «sto per mangiare, mangio tra poco»; in portoghese la prima persona plurale del verbo ir «andare» seguita da infinito ha assunto il valore di marca di imperativo: vamos levá-lo para o carro «andiamo a prenderlo alla macchina»; in italiano, andare e venire + participio passato possono codificare la forma passiva (➔ passiva, costruzione): la lettera venne scritta; andare + participio passato può esprimere la ➔ modalità deontica: questo libro va letto («questo libro deve essere letto»).
In italiano stare + gerundio è la perifrasi più grammaticalizzata (come lo è in spagnolo quella formata da estar + gerundio): il verbo stare ha subito un processo di desemantizzazione evidente dal fatto che si trova spesso accompagnato da verbi di movimento come andare (sto andando in libreria).
Uno degli esempi più noti di grammaticalizzazione è rappresentato dalla formazione degli ➔ avverbi in -mente. Il suffisso italiano -mente, che presenta paralleli nelle altre lingue romanze (fr. -ment, spagn. -mente, ecc.), è l’antica forma ablativale del nome latino mens, presente nei sintagmi latini del tipo clara mente «con mente chiara». Un parallelo di questo processo di grammaticalizzazione si trova negli avverbi inglesi in -ly, e tedesco -lich, dal proto-germanico X-liko «con forma di X». Tra le lingue romanze, solo il romeno non ha avverbi in -mente; in questa lingua, la forma più comune per gli avverbi è la stessa dell’aggettivo: încet «lento» e «lentamente». Si tratta della conservazione del modello latino facile «facile» e «facilmente», mantenuto, tra l’altro, anche in alcuni dialetti italiani centromeridionali.
A cavallo tra avverbi e preposizioni, il caso rappresentato dall’italiano fuori (Manzelli 1998) è interessante per due motivi: da una parte, esso rappresenta un esempio di grammaticalizzazione; dall’altra, mostra quanto sia complesso delimitare le categorie, come accennato al § 2. L’italiano fuori risale alle forme locative latine foris (ablativo locativo plurale, esprimente stato in luogo) e foras (accusativo plurale, esprimente moto a luogo), a loro volta facenti capo al nome fores, dal termine indoeuropeo per «porta». In italiano, fuori può avere valore avverbiale (Luca è andato fuori con gli amici), ma anche preposizionale (siamo andati a fare una gita fuori porta), o ancora può costituire il costituente di una locuzione preposizionale (sono uscito fuori di casa). Fuori si ritrova anche nella congiunzione fuorché, a introdurre una frase eccettuativa (➔ eccettuative, frasi) e anche come costituente di verbo sintagmatico (l’assassino ha fatto fuori il vicino; ➔ sintagmatici, verbi).
Un esempio di grammaticalizzazione è rappresentato dal «ciclo della negazione» (Jespersen 1917), illustrato dal francese, ma presente anche in alcune varietà italiane (➔ negazione).
Il latino e le lingue romanze riservano alla negazione, generalmente, la posizione preverbale: lat. non legit, it. non legge. Trattandosi di una forma frequente ed essendo importante distinguerla dalle corrispondenti forme affermative, la negazione spesso viene rafforzata: in antico francese, ad es., la negazione standard ne < lat. non è rafforzata da nomi indicanti piccola quantità, come point «punto», pas «passo», ecc. (➔ intensificatori). In seguito, il pas divenne obbligatorio, insieme a ne, e non soltanto in presenza di verbi semanticamente coerenti: Jean ne marche pas «Giovanni non cammina» (lett. «Giovanni non cammina [un] passo»), ma anche Jean ne mange pas («Giovanni non mangia»). A seguito di rianalisi, pas viene considerato come forma di negazione; dunque, in un registro colloquiale, si hanno forme del tipo Jean mange pas («Giovanni non mangia»), oppure je sais pas («so mica»). Mica (dal lat. mica «briciola»), forma diffusa in alcune varietà dell’italiano (lomb. e ven. miga, bologn. brisa, tosc. mica), come il francese pas < lat. passum, è una forma rafforzativa della negazione; in questo caso, molto probabilmente, i primi contesti erano del tipo non mangio mica (lett. «non mangio una briciola»).
Il latino presentava un sistema di dimostrativi articolato: hic, iste, ille, corrispondenti ai pronomi di prima, seconda e terza persona, rispettivamente, e un pronome ‘neutro’, non marcato, is, utilizzato anche come pronome personale anaforico.
Il primo passo verso la grammaticalizzazione dei dimostrativi consiste nell’indebolimento della componente deittica (➔ deittici), con il mantenimento della sola componente di definitezza, e ciò avviene soprattutto con il dimostrativo di terza persona. In effetti ille, membro non marcato della triade, cominciò ad assumere anche una funzione anaforica, invadendo lo spazio di is, che soppiantò definitivamente nel latino volgare. Già in latino classico si hanno attestazioni di questo uso anaforico:
(6) Tabulas publicas [...] illae tabulae «tavole pubbliche [...] le dette tavole, le tavole»; lett. «tavole pubbliche [...] quelle tavole» (Cicerone, pro Sall. 42)
In Apuleio (II sec. d.C.) si possono trovare forme come:
(7) egregia illa uxor mea «la mia nobile moglie» (Apuleio, Le metamorfosi, X, 23)
che presentano il tipo it. Lorenzo il Magnifico (fr. Iseut la blonde, spagn. Alfonso el sabio, romeno Ion ăl bun). Come nota Renzi (1976), è nel VI secolo, all’epoca di Gregorio di Tours, che l’uso di ipse e ille si estende a casi non contemplati nel latino classico:
(8) Nam sollicitus lector, si inquirat strenue, inveniet inter illas regum Israëliticorum historias ... «Infatti, attento lettore, se cerchi attentamente, troverai tra quelle storie dei re israeliti ...» (Gregorio di Tours, Hist. Franc. II, Prol.)
in cui le storie dei re d’Israele non sono state precedentemente citate, o ancora:
(9) dum nobis illa pietas divina augit solatium «mentre a noi quella pietà divina accresce il conforto» (Gregorio di Tours, Hist. Franc. 7, 34)
Va notato che, sempre in Gregorio di Tours, è frequentemente usato, per la prima volta, il numerale unus per introdurre un nuovo referente:
(10) insurgunt contra eum in una conspiratione «insorgono contro di lui con una cospirazione» (ivi 2, 1)
(11) in uno angulo basilicae «in un angolo della basilica» (ivi, 9, 6)
Interessanti sono poi alcuni casi isolati in cui l’➔ articolo, per rianalisi, si riduce a fonema, perdendo non solo l’autonomia, ma anche il valore semantico: it. lastrico, originariamente l’astrico, dove astrico *astracum per ostracum (Rohlfs 1966-1969: §§ 341-342) (cfr. anche il francese lendemain < l+in+de+mane). In sardo, invece, l’articolo (su, sa, ecc.) si è sviluppato a partire dal latino ipse, in particolare dalla sua funzione di indicatore di tema. Da ille che, come abbiamo detto, ha ereditato dal latino il valore di ripresa anaforica, si è sviluppato, oltre che l’articolo, anche il pronome di terza persona: it. egli, fr. il, eccetera.
Ille, a sua volta, per quanto riguarda la sua prima funzione di dimostrativo, è stato rinforzato, secondo un meccanismo che ha luogo comunemente quando alcune forme perdono la loro funzione originaria: * eccu ille «ecco quello», da cui l’italiano quello. Anche il dimostrativo iste ha subito questo processo: proto-romanzo * eccu iste > it. questo, che, a sua volta, è spesso rinforzato dall’avverbio qui: questo … qui. Si tratta di un fenomeno di natura ciclica (Lombardi Vallauri 1995): in piemontese, il pronome personale di terza persona è chiel, chila «egli, ella», probabilmente forme derivate proprio da * eccu ille; parallelamente, la forma del dimostrativo «quello» in torinese è cul là, in alto piemontese chel là.
Un altro caso di grammaticalizzazione, che si ritrova non solo in italiano, ma in molte lingue del mondo, consiste nel passaggio da nomi designanti parti del corpo (➔ parti del corpo) ad adposizioni o locuzioni preposizionali che indicano concetti spaziali di relazione, come: di fronte alla casa, ai piedi della montagna, ecc. Si tratta di un passaggio di natura metaforica, da un dominio dell’esperienza concreta a uno più astratto.
Ma in italiano, come già accennato, vi sono anche preposizioni derivanti da verbi: è il caso di durante, rasente, nonostante, ecc., che presentano corrispondenti in altre lingue: fr. pendant, ingl. during, notwithstanding, ecc. Si tratta in origine di forme participiali rianalizzate, per assumere gradualmente le caratteristiche tipiche delle preposizioni (König & Kortmann 1991; Kortmann 1992; Kortmann & König 1992; Giacalone Ramat 1994). Interessante è il caso della forma rasente; nelle attestazioni più antiche esso era seguito dal sintagma nominale oggetto: «e rasente le mura di fuora di Pisa passonno e andonno in Valdiserchio» (Cronica Pisana, cit. in Giacalone Ramat 1994); tuttavia, a partire dal Trecento, rasente si comincia a trovare nella costruzione rasente a, che lo sposta verso la classe delle preposizioni (Giacalone Ramat 1994). La forma presso, ormai non più trasparente, è ancora più spostata verso il polo delle preposizioni: dal latino premere, ora indica la vicinanza spaziale.
Come si può vedere dagli es. presentati, la grammaticalizzazione è un fenomeno di mutamento graduale: si considerino ancora tranne, antica forma imperativale, ormai opaca; eccetto, legato a una classe di parole (eccettuare, eccezione, ecc.), dunque semi-trasparente, e ancora escluso, lessema trasparente, facente parte del paradigma verbale di escludere (Molinelli 1998).
Fenomeni di grammaticalizzazione agiscono anche a livello interfrasale: un esempio è costituito dall’evoluzione dall’avverbio di coordinazione però, dal latino per hoc (Giacalone Ramat & Mauri 2008). Nell’italiano contemporaneo si tratta di una congiunzione avversativa:
(12) Mario gioca bene però perde in continuazione
In origine, invece, presentava piuttosto un valore conclusivo o causale:
(13) Ed elli a me: «Però che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi
avvien che poi nel maginare abborri.
Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
quanto ’l senso s’inganna di lontano;
però alquanto più te stesso pungi»
(Dante, Inf. XXXI, 23-28)
L’attuale valore avversativo è derivato da contesti in cui però era accompagnato da una negazione, creando i presupposti per un’inferenza di tipo appunto avversativo:
(14) E benché tutto il mondo qua in aiuto
[…] venga a mia vendetta […]
non riarò però quel ch’ho perduto
(Luigi Pulci, Il Morgante XX).
Una delle questioni più dibattute a livello teorico, relative alla grammaticalizzazione, riguarda l’unidirezionalità, ovvero se l’evoluzione delle lingue conosca solo fenomeni di grammaticalizzazione e non del suo contrario, ovvero di degrammaticalizzazione.
In realtà, sono attestati esempi di sviluppi che spostano elementi linguistici dal polo della grammatica a quello del lessico: uno degli es. più citati è quello della nominalizzazione di suffissi nominali, come l’italiano -ismo, di comun-ismo, funzional-ismo, material-ismo, ecc., che al plurale (gli ismi) è diventato un nome astratto, parallelo ai casi di altre lingue (ingl. the isms, ted. die Ismen). O si consideri ancora il caso del lessema bus «veicolo per il trasporto pubblico» (da autobus, scuolabus, ecc., sul modello di omnibus < lat. omnibus «per tutti») (cfr. Ramat 2005c). Un altro caso che sembra mettere in dubbio l’ipotesi dell’unidirezionalità della grammaticalizzazione è rappresentato da quelle forme di participio presente che possono essere utilizzate come nomi: il tipo calmante, cantante (cfr. spagn. calmante, conferenciante).
Le forme in -ante/-ente con valore di sostantivo sono già ampiamente attestate in italiano antico: basti pensare alla forma mercatante (da mercatare). Tali forme, come ha osservato Luraghi (1999), possono essere derivate non solo a partire da basi verbali, ma anche da basi nominali: il valore dei denominali in -ante/-ente (ad es., bracciante) è generalmente quello di nomi d’agente (➔ agente, nomi di; ➔ derivazione).
L’instabilità categoriale mostrata dal participio è anche tipica di un altro nome verbale, l’infinito, che spesso tende a spostarsi verso il polo del nome: si considerino le forme di ➔ infinito sostantivato, ad es., lavorare stanca, leggere è uno dei più grandi piaceri della vita: in romeno, addirittura, il suffisso -re, dal suffisso di infinito latino, è oggi usato come suffisso derivazionale per formare nomi deverbali: per es., a iubi «amare», iubire «amore» (Gaeta 1997).
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