Gran Bretagna
Stato dell’Europa nordoccid., la cui denominazione ufficiale è Regno Unito di G.B. e Irlanda del Nord, formato interamente da isole: la G.B. (la più vasta), una serie di isole minori (Shetland, Orcadi, Ebridi, Isola di Man, Isole Normanne e migliaia di altre più piccole) e la parte più settentrionale dell’Irlanda. È separato dall’Europa dalla Manica e dal Mare del Nord. Dipendono dallo Stato o direttamente dal sovrano alcuni territori, soprattutto in America (per es. Isole Falkland), eredità dell’impero britannico.
La fine dell’occupazione romana della Britannia è considerata di solito pressoché contemporanea all’invasione della Gallia da parte dei popoli germanici (406) e al sacco di Roma (410). Il ritiro delle legioni acquartierate in Britannia era cominciato probabilmente molto prima, ma da allora la popolazione romano-britannica fu lasciata definitivamente priva di un presidio militare permanente. Analogamente, non si può datare con precisione neppure l’arrivo degli invasori teutoni. L’arrivo nel Kent dei capi iuti Hengist e Horsa tra il 449 e il 456 si ebbe nel corso di una delle molte spedizioni che si susseguirono nel corso di un secolo e che finirono col dar luogo a stanziamenti permanenti. Iuti, angli e sassoni, gruppi indubbiamente collegati tra loro etnicamente, raggiunsero la costa o penetrarono nell’interno risalendo i fiumi. La facile conquista da essi compiuta non fu seguita da una politica di sterminio. Nella struttura sociale del periodo anglosassone sopravvissero elementi della civiltà romana e sebbene gli invasori preferissero, in generale, vivere in centri isolati a breve distanza dalle strade romane, vi furono anche città in cui, cessata l’occupazione romana, non si verificarono soluzioni di continuità nel sistema di vita. Le basi organizzative dei regni inglesi furono poste tra la metà del sec. 5° e la metà del sec. 6°. Le zone che opposero maggiore resistenza furono il Galles, che rimase a lungo celtico, e soprattutto la Scozia. Nel Sud si ebbe il piccolo regno di Kent. Particolare importanza ebbe il regno di Northumbria, fondato da Etelfredo (593-617), nipote di Ida re di Bernicia, che estese i suoi domini fino ai confini del Galles e per un certo tempo unì ai propri territori il regno di Deira, nella Northumbria meridionale. Dopo aver raggiunto una notevole prosperità con uno dei successori di Etelfredo, Oswiu (654-671), il regno di Northumbria declinò, e nel sec. 8° la supremazia passò al regno di Mercia sotto Etelbaldo (716-757) e Offra (757-796), che si disse rex totius Anglorum patriae. Successivamente, il centro politico dell’isola si trasferì nel regno di Wessex, fondato nel sec. 6° da avventurieri sassoni, con Egberto (802-839), che nell’823 conquistò il Kent e nell’827, dopo l’annessione del regno di Mercia, divenne supremo signore dei northumbri. Gli effetti delle incursioni danesi, iniziate già prima della morte (858) di Etelvulfo, figlio di Egberto, cominciarono a farsi sentire fortemente verso la fine del sec. 8°. Nell’870, un anno prima dell’ascesa al trono di Alfredo il Grande, i danesi invasero l’Anglia orientale e i midlands dell’Est; e, pur subendo l’anno successivo una grave sconfitta ad Ashdown, continuarono a occupare parte del Wessex, che abbandonarono solo dopo un accordo con Alfredo, il quale stabilì un confine tra i possessi sassoni e i territori occupati dagli invasori. Dopo un periodo di potenza dei re del Wessex, che coincise con il regno di Edgardo il Pacifico (959-975), le incursioni dei danesi ripresero e culminarono nell’invasione del re norvegese Sven (1013). Figlio di lui, il re danese Canuto raccolse intorno a sé parte della nobiltà sassone e nel 1016 fu incoronato re del Wessex. Il potere che Canuto affidò ai ministri indigeni fu tuttavia causa di molte agitazioni dopo la sua morte. L’ealdorman, capo militare e ufficiale civile in ognuno dei distretti in cui era diviso il regno, responsabile dell’amministrazione della legge nei tribunali del distretto e del comando della polizia locale (fyrd), esercitava un potere che un sovrano forte poteva volgere a vantaggio della corona. Sotto Canuto l’ealdorman divenne conte, e l’isola fu divisa in varie contee, tra le quali assunsero particolare importanza quella della Mercia e quella del Wessex. Edoardo il Confessore (1042-66), eletto dall’assemblea dei nobili (Witan), governò cercando un equilibrio tra le fazioni dei cortigiani in lotta. Di questi contrasti si avvantaggiò, alla sua morte, Guglielmo duca di Normandia, che, sbarcato sul suolo inglese, sconfisse il nuovo sovrano Aroldo a Hastings (1066) e conquistò l’isola, facendosi incoronare re. Negli anni successivi stroncò con grande energia le rivolte interne e respinse i tentativi di invasione dei danesi (1067, 1072).
La conquista normanna fu un evento decisivo nella storia inglese. Durante il periodo precedente l’Inghilterra era stata in parte feudalizzata e il villaggio o comune inglese era, in molti casi, andato assumendo, socialmente ed economicamente, il carattere del feudo continentale, col suo signore e i fittavoli, liberi e non liberi, che gli dovevano denaro e servigi. La formazione d’una classe non libera, vincolata alla gleba, che poteva occupare il terreno solo a patto di coltivare i domini del signore, era stata agevolata dagli effetti distruttivi delle guerre danesi, che avevano ridotto in povertà uomini costretti a chiedere protezione e mezzi per vivere a signori, con i quali avevano stabilito in cambio un rapporto di dipendenza. Tuttavia come sistema politico il feudalesimo si affermò solo con la conquista normanna, configurandosi, proprio in quanto portato di una conquista militare, in una forma gerarchizzata più di quanto non avvenisse sul continente. Guglielmo il Conquistatore divise la terra tra i suoi seguaci, come vassalli principali, che a loro volta concessero il proprio dominio in feudo a vari vassalli minori. Mentre l’unità economica del sistema feudale fu il castello (manor), l’unità politica fu costituita dal feudo del cavaliere, che comprendeva una quota di prestazioni alla quale dovevano rispondere uno o più manors. Questa suddivisione del regno in feudi tra i vassalli del sovrano risulta dal celebre registro noto come Domesday book, in cui sono indicati i redditi risultanti dalle relazioni dei commissari inviati da Guglielmo, dopo l’assemblea tenuta a Gloucester nel Natale 1085. Lo scopo originario del Domesday book (che testimonia l’esistenza di una numerosa e capace burocrazia) era fiscale: l’indicazione dei redditi mirava a sottoporre ogni manor alla tassa originariamente imposta come Danegeld (soldo danese) e alla rettifica di essa secondo l’aumento o la diminuzione dei redditi verificatisi dal tempo della conquista. Ciò che emerge con chiarezza è la divisione d’ogni contea tra il re (che si riservava una parte cospicua dei territori) e i suoi vassalli, laici ed ecclesiastici. Le istituzioni politiche e giudiziarie del periodo sassone furono mantenute, tuttavia il potere degli ealdormen locali declinò, mentre crebbe parallelamente l’importanza di funzionari della corona, come gli sceriffi. Il monopolio dell’educazione e dell’istruzione rimase al clero; i tribunali ecclesiastici furono separati da quelli laici. Tra i successori di Guglielmo, Enrico I (1100-35) limitò rigidamente l’accrescimento dei possessi feudali e l’influenza baronale nella curia regis, incoraggiando una nuova classe di magnati che dovevano la loro elevazione unicamente al giudizio del re sulla loro abilità. Inoltre egli iniziò una riorganizzazione della giustizia, continuata dal primo re plantageneto, Enrico II (1154-89). Il regno di questi, noto per il dissidio con Tommaso Becket, poi fatto assassinare dal re, vide da un lato un tentativo della corona di sottoporre alla propria giurisdizione la gerarchia ecclesiastica (Costituzione di Clarendon, 1164), dall’altro un ampliamento della giurisdizione della curia regis, a cui corrispose una diminuzione del potere dei tribunali locali. Questa trasformazione dell’apparato giudiziario, e il miglioramento che ne seguì, fu in definitiva un grosso fatto politico: e non è casuale che il regno di Enrico II segnasse una tappa decisiva verso la formazione di una nazione inglese, con l’introduzione della parità legislativa tra popolazione indigena e popolazione di stirpe normanna. Al regno di Riccardo Cuor di Leone (1189-99), soprattutto impegnato nella terza crociata, successe quello di Giovanni Senzaterra (1199-1216), che subì la perdita della Normandia a vantaggio di Filippo II di Francia (1204) ed entrò in grave dissidio con i baroni del regno. La perdita della Normandia contribuì, indirettamente, a rafforzare il sentimento «inglese» della monarchia e, in genere, della grande feudalità, privata di ogni possibile alternativa di dominio continentale: ma, sulle prime, quella perdita determinò un attrito che vide i feudatari allearsi con Filippo II Augusto, in procinto di invadere l’Inghilterra, anche per istigazione di Innocenzo III, cui premeva l’alleanza del re di Francia contro Ottone di Brunswick. Tale attrito sfociò in lotta aperta con il papa, di cui alla fine Giovanni si proclamò vassallo, riconoscendo come arcivescovo di Canterbury Stefano Langton (1213). Sconfitto a Bouvines (1214) dai franco-svevi, Giovanni, per sedare almeno la crisi interna, concesse la Magna charta (1215), documento che, pur avendo all’origine un significato ristretto, fu confermato per due volte (1217 e 1225) da Enrico III (1216-72): esso riconosceva alla nobiltà, alla Chiesa e ai comuni le loro tradizionali libertà di fronte alla Corona e fu considerato in seguito un incunabolo della prassi costituzionale inglese. Sotto Edoardo I (1272-1307) si ebbe uno sviluppo delle istituzioni parlamentari, quale era stato in precedenza auspicato da Simone di Montfort con le Provvisioni di Oxford (1258). Le assemblee dei magnati, convocate a intervalli dal re per deliberare sulle faccende pubbliche, furono comunemente dette parlamenti, secondo un nome invalso in precedenza. Per lungo tempo il Parlamento rimase il concilio dei magnati, dei vescovi, degli abati e dei baroni, convocati per mezzo di ordinanze individuali, come vassalli principali del re. I rappresentanti dei comuni erano convocati per deliberare in separata sede sulle richieste di aiuti finanziari presentate loro dal Parlamento e per determinare l’entità dell’aiuto da concedere. Anche il clero, sebbene di norma i prelati fossero reclutati in maggioranza tra i magnati, difendeva tenacemente il diritto d’imporsi da sé la tassazione, nella propria assemblea convocata contemporaneamente al Parlamento. Alle funzioni giuridiche di quest’ultimo, supremo tribunale del re, e alle sue decisioni legislative, i comuni non partecipavano. Il regno di Edoardo I, che vide questo decisivo sviluppo delle istituzioni parlamentari, fu caratterizzato anche da una limitazione del potere dei baroni e inoltre dal tentativo di dominio inglese sulla Scozia, definitivamente fallito con la sconfitta di Bannockburn (1314). I dissidi tra i baroni e la Corona ripresero durante il regno di Edoardo II (1307-27) che vi lasciò la vita. Il figlio di lui, Edoardo III, nel tentativo di difendere i domini inglesi in Aquitania contro il re di Francia Filippo VI, innescò nel 1337 la guerra che fu poi detta dei Cent’anni. Il susseguirsi delle campagne militari e delle pestilenze (1349, 1361-62, 1369), si accompagnò a ripetute manifestazioni d’irrequietezza economica, politica, religiosa (rivolta dei contadini del 1381, movimenti religiosi ereticali dei lollardi e di Wycliffe). I latifondisti feudali entrarono pesantemente in crisi mentre crebbe in ricchezza il ceto dei mercanti e imprenditori. Declinò nel contempo la forza del Parlamento, politicamente oscurato dal potere del consiglio privato del sovrano. Dopo la forzata abdicazione del debole re Riccardo II (1399), cui succedette il duca di Lancaster col nome di Enrico IV, vi fu un forte rilancio dell’iniziativa militare che culminò nell’annessione del Galles e nella ripresa della guerra con la Francia. Enrico V (1413-22), con la vittoria di Azincourt (1415) e la Pace di Troyes (1420), vedeva formalmente assicurata alla Corona inglese la successione al trono di Francia. Ma dopo la morte di Enrico V, e la minorità di Enrico VI, si ebbe un progressivo arretramento delle posizioni inglesi in Francia, che portò infine alla perdita della Guienna (1543). La guerra dei Cent’anni si chiuse con l’estromissione dell’Inghilterra dal suolo francese, tranne il mantenimento del porto di Calais e all’interno s’innestarono i contrasti tra le case di Lancaster e di York sfociati nella guerra delle Due rose. La monarchia, indebolita anche finanziariamente, fu preda di contese nobiliari che si intrecciarono con una profonda crisi politica e amministrativa, e si protrassero fino all’ascesa dei Tudor. L’uccisione in battaglia di Riccardo III (Bosworth Field, 1485) segnò infatti la conclusione della guerra delle Due rose e insieme l’ascesa al trono di Enrico VII Tudor (1485-1509), imparentato con entrambe le famiglie rivali.
Con l’avvento dei Tudor l’Inghilterra entrò in un periodo di decisive trasformazioni. In poco più di un secolo nacque e si consolidò la grande attività marinara inglese protesa a inserirsi nello sfruttamento dei traffici atlantici e dei territori del Nuovo Mondo ma anche a contendere ai danesi e soprattutto agli olandesi il controllo dei traffici del Baltico e del sistema di scambi con l’Europa dell’Est. Nello stesso arco di tempo prese per la prima volta consistenza una fiorente manifattura laniera, agevolata nella seconda metà del Cinquecento dall’afflusso degli operosi e abilissimi profughi dei Paesi Bassi, che per sfuggire all’oppressione politico-religiosa spagnola emigrarono oltre Manica portando con sé il bagaglio della loro perizia. Da Paese esportatore di lana greggia e importatore dei prodotti da essa ricavati, l’Inghilterra divenne un Paese esportatore di panni-lana in concorrenza con i più celebri prodotti fiorentini e fiamminghi. Questa profonda trasformazione economica e sociale, che avvantaggiò sensibilmente i ceti borghesi e la grande proprietà legata all’allevamento ovino, avvenne a scapito dei contadini e dei lavoratori poveri delle campagne, espropriati dei diritti di uso civico nelle terre comuni in seguito al grande movimento delle enclosures che tese a riservare esclusivamente al pascolo del bestiame dei proprietari, terre che un tempo erano utilizzate per antico diritto anche dai contadini. Inoltre nel corso del Cinquecento si fecero sempre più dure le ripercussioni della «rivoluzione dei prezzi». Sul piano della politica interna, le conseguenze della trentennale guerra delle Due rose, che aveva dissanguato e stroncato la grande nobiltà feudale, il malcontento diffuso nelle masse popolari contro la nobiltà e contro le ricchissime e corrotte gerarchie del clero regolare e secolare, e l’incapacità del Parlamento di ergersi a difensore degli interessi nazionali, crearono le condizioni che consentirono alla nuova dinastia di poter attuare una politica decisamente assolutista, rafforzando la dipendenza della Chiesa nazionale dalla Corona e in pratica eliminando le prerogative di controllo del Parlamento. Per far ciò Enrico VII (1485-1509) si preoccupò soprattutto di riassestare le finanze del regno, gravemente sconvolte, e di accumulare enormi somme di denaro, che lo resero di fatto indipendente dal Parlamento. In politica estera, cercò di reagire al rafforzamento della Francia (unione della Bretagna alla Francia, 1491) intrattenendo rapporti diplomatici sempre più stretti con la Spagna. Enrico VIII (1509-47) proseguì, col consiglio di T. Wolsey questa linea politica, intervenendo accortamente nei contrasti continentali, in aiuto degli imperiali. La situazione tuttavia mutò radicalmente in seguito sia alla decisione del re di divorziare dalla prima moglie Caterina d’Aragona sia allo sviluppo di tendenze di riforma religiosa anche in Inghilterra. Queste tendenze si collegavano in parte alla vecchia propaganda di Wycliffe e al movimento dei lollardi, in parte ai movimenti promossi sul continente da Lutero e dagli altri riformatori. Esse trovavano terreno favorevole nell’irritazione e nello sdegno che nella maggioranza della popolazione inglese suscitavano la mondanità e la corruzione del clero e l’enorme ricchezza delle istituzioni ecclesiastiche, le quali erano viste come il veicolo di trasferimento alla corte papale di Roma di molta parte della ricchezza nazionale, attraverso la percezione delle rendite dei loro patrimoni e delle decime dei raccolti. In questa situazione, nonostante i tentativi di conciliazione di Wolsey sopraggiunse la rottura completa tra il re e il papa Clemente VII, per la questione del divorzio. Il Parlamento, che sentiva fortemente l’influsso delle correnti antiromane, appoggiò il re: si giunse pertanto al distacco da Roma (Atto di supremazia, 1534) e alla trasformazione e riorganizzazione della Chiesa d’Inghilterra che ebbe nel re il suo nuovo capo. Quando Enrico VIII morì (1547), il regno d’Inghilterra appariva profondamente trasformato non solo sul piano politico per il rafforzamento dell’autorità regia e sul piano religioso per la creazione della nuova Chiesa anglicana, ma anche dal punto di vista della compagine territoriale: nel 1536 il re era riuscito a incorporare completamente il principato di Galles e la regione detta Marca gallese, e successivamente aveva iniziato con fortuna il processo di assorbimento dell’Irlanda, combattendo la potenza della grande famiglia irlandese dei Fitzgerald e favorendo nell’isola lo sviluppo degli elementi inglesi a danno degli elementi celtici. La morte di Enrico VIII aprì un periodo di incertezza religiosa e politica, nel corso del quale tornarono in discussione, specie con Maria la Sanguinaria, sia la scelta religiosa anticattolica sia il ruolo di potenza politica in grande ascesa sulla scena internazionale. Dopo il regno del giovane Edoardo VI (1547-53), durante il quale si allentarono i freni posti da Enrico VIII alla libera discussione religiosa e all’introduzione di idee riformatrici dal continente, e dopo il brevissimo, effimero tentativo di Giovanna Grey (1553), si ebbe infatti il regno della figlia di Enrico VIII e Caterina d’Aragona, Maria (1553-58), che cercò, con violenze e persecuzioni, di reintrodurre nell’isola il cattolicesimo e la dipendenza da Roma. A questo tentativo non riuscito corrisposero, in politica estera, l’impopolare alleanza con la Spagna, voluta dal re Filippo II, marito di Maria, conclusasi con la perdita di Calais (1558). La nuova regina, Elisabetta (1558-1603), firmò la pace con Francia e Scozia, che sancì con la cessione di Calais l’abbandono definitivo del suolo continentale da parte dell’Inghilterra e cercò di affermare una uniformità religiosa riformata, formalizzata nel Book of common prayer e fondata su una posizione dottrinale di compromesso tra le posizioni cattoliche e quelle dei calvinisti radicali, che in Scozia erano legati a John Knox, e nel 1568 costrinsero la regina scozzese Maria Stuart a rifugiarsi in Inghilterra. L’intrinseca pericolosità e gli intrighi politici di quest’ultima indussero infine Elisabetta a metterla a morte (1587), contribuendo con ciò a far precipitare definitivamente i rapporti con Filippo II di Spagna, che si stavano logorando ormai anche su altri e non meno importanti piani. A parte il rifiuto dell’offerta di matrimonio che il sovrano spagnolo le aveva fatto, Elisabetta aveva cominciato a dare un sostegno pressoché aperto alle azioni di pirateria di Francis Drake contro i galeoni spagnoli provenienti dalle Americhe e a incoraggiare i tentativi di Walter Raleigh di fondare una colonia inglese in America. Aveva inoltre mandato un esercito in aiuto dei ribelli dei Paesi Bassi spagnoli e aveva preso posizione a favore di Enrico di Borbone, ugonotto, nella guerra per la successione al trono di Francia. La guerra fu dichiarata dalla Spagna nel 1588 e la vittoria inglese sull’Invencible armada rivelò al mondo l’esistenza di una grande potenza, dotata di una marina capace di tener testa a quella della più grande potenza d’Europa e del mondo, che si aggiungeva un forte esercito di terra posto da Elisabetta alle dirette dipendenze della Corona. Dopo la vittoria del 1588 la potenza marittima inglese si sviluppò ulteriormente. Si intensificarono gli attacchi ai convogli e alle colonie spagnole, e le attività, poco onorevoli ma assai lucrose, della tratta negreria e del contrabbando. Durante il regno di Elisabetta furono poste anche le prime basi di un possente apparato commerciale per i traffici marittimi. All’antica compagnia dei Merchant adventurers, nata nel 14° sec., si affiancarono nuove compagnie privilegiate riconosciute dalla Corona e dotate di diritti esclusivi di commercio, come la Compagnia della Moscovia (1555), per i traffici con la Russia, la Compagnia del Levante (1581) per il commercio con l’impero Ottomano, e infine la Compagnia delle Indie orientali (1600), che segnò l’ingresso inglese in India sia pure con finalità meramente commerciali e non di conquista territoriale. Il regno di Elisabetta fu suggellato infine (1603) dalla conquista dell’Irlanda.
L’avvento della dinastia scozzese degli Stuart, seguito da contrasti politici e religiosi interni, pose fine per mezzo secolo all’intervento dell’Inghilterra nella politica europea. La politica assolutistica di Giacomo VI di Scozia, I d’Inghilterra (1603-25), che per la prima volta riunì le tre corone d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, proseguita con ostinazione anche maggiore da Carlo I (1625-49), determinò uno scontro sempre più grave tra Corona e Parlamento. All’interno di quest’ultimo le forze della media aristocrazia campagnola (gentry) e della nuova borghesia cittadina, in parte animate dallo spirito intransigente dei gruppi puritani, si opponevano con egual vigore ai tentativi degli Stuart di instaurare una prassi di governo personale e di introdurre forme concilianti di protestantesimo (arminianesimo) o, come si diceva, di cripto-cattolicesimo. L’apertura del Lungo parlamento e le successive vicende – incriminazione e condanna a morte dei due principali esponenti e responsabili del tentativo assolutista di Carlo I, T.W. Strafford e W. Laud, l’insurrezione dell’Ulster, che si suppose ispirata dal sovrano, il tentativo di colpo di forza di quest’ultimo nei confronti del Parlamento – trasformarono i contrasti politici in guerra civile (1642). Mentre intorno al re si schieravano anglicani, cattolici e la maggioranza dei gentiluomini (cavalieri), la massa dei borghesi, dei piccoli proprietari rurali, dei puritani e degli indipendenti – le cd. teste rotonde – costituì l’esercito del Parlamento. Il suo capo, O. Cromwell, seppe trarre dalla vittoria militare tutte le possibili conseguenze politiche, fino all’imprigionamento, processo e condanna a morte del re (1649). Dopo un tentativo d’instaurare una repubblica oligarchica, basata su un parlamento epurato degli elementi stuardisti, si pervenne nel 1653 a una dittatura di Cromwell, che assunse il titolo di lord protettore e consolidò il suo potere con una ferrea politica all’interno, mentre con un’audace politica estera aveva rinverdito le dismesse linee strategiche elisabettiane. Successi cospicui erano stati ottenuti con la vittoriosa guerra contro l’Olanda e l’applicazione dell’Atto di navigazione (proclamato nel 1651), che sancì il divieto dei porti inglesi alle navi olandesi. Cromwell portò inoltre, in alleanza con la Francia, un attacco alla Spagna e alle sue colonie d’America che gli fruttò la conquista dell’Isola della Giamaica, che si aggiunse a diverse isole dell’arcipelago delle Bahamas conquistate tra il 1625 e il 1629. La colonizzazione inglese del continente americano, sostenuta indirettamente dal governo sin dai tempi di Elisabetta, si era svolta soprattutto per opera delle Compagnie commerciali o di singoli proprietari, commercianti e speculatori. La prima colonia era stata la Virginia, fondata nel 1607 dalla Virginia company. Più tardi avevano cominciato a emigrare gruppi di dissidenti politici e religiosi, perseguitati dalla corona, i più noti dei quali erano stati i «padri pellegrini» che avevano iniziato la colonizzazione del Massachussetts nel 1620. A S della Virginia nel 1632 Carlo I aveva concesso il Maryland a lord Baltimore. Dopo la conquista della Giamaica l’iniziativa di privati colonizzatori continuò ininterrotta e negli anni Sessanta del Seicento nacquero le due Caroline del Nord e del Sud, la colonia di New York, il New Jersey. A fine Seicento fu costituita la Pennsylvania. Nel 1665 in India la Compagnia delle Indie orientali acquisì Bombay. A metà Seicento la potenza commerciale era in piena espansione e le navi inglesi entrarono per la prima volta anche nel Mediterraneo. Il regime dittatoriale era tuttavia strettamente legato alla forte personalità di Cromwell, che non poté assicurarsi una successione. Suo figlio, Riccardo, abbandonò il potere dopo pochi mesi (1659) e dopo una serie di contrasti interni si giunse alla restaurazione con Carlo II Stuart (1660). Dopo i primi tentativi di reazione politica e religiosa seguiti alla proclamazione del nuovo re, fu ben presto chiaro che un puro e semplice ritorno al passato era impossibile. L’opposizione parlamentare rinacque; la politica di acquiescenza alla Francia di Luigi XIV, svolta da Carlo II e dal ministero detto della Cabala, a lui devoto (trattato segreto di Dover, 1670; partecipazione alla guerra d’Olanda, 1672), suscitò aspre critiche. Il contrasto si aggravò allorché si pose in tutta la sua gravità il problema della successione a Carlo II, nella persona del fratello Giacomo II, cattolico. Nel corso della lotta per la votazione del bill d’esclusione, che mirava a escludere dalla successione Giacomo, e nella votazione del bill dell’Habeas corpus, che garantiva la libertà personale contro gli arbitri dei funzionari regi (1679), si andarono differenziando i due partiti dei tory e dei whig, il primo sostenitore e il secondo limitatore delle prerogative reali. Allorché a Giacomo II, sposatosi in seconde nozze con una principessa cattolica, nacque un figlio che fu battezzato cattolico, la situazione s’inasprì e le correnti d’opposizione decisero di fare appello, per salvaguardare la libertà religiosa e l’indipendenza del regno, allo statolder Guglielmo d’Orange, marito di una figlia del sovrano. La «pacifica» rivoluzione (1688) fu suggellata dall’accettazione da parte del nuovo sovrano di una dichiarazione dei diritti (1689) mirante a garantire i diritti del popolo inglese e a fissare i rapporti tra monarchia e parlamento.
Nel periodo che corre dall’avvento di Guglielmo all’avvento della dinastia degli Hannover, si ebbe un consolidamento dell’unità nazionale, attraverso l’Atto di unione con la Scozia (1707) e l’assunzione del nuovo nome di G.B., mentre si consumarono le prime fasi del lunghissimo scontro con la Francia (partecipazione alla guerra della Lega d’Augusta e alla guerra di successione spagnola), che si protrasse ininterrottamente per tutto il sec. 18° e nei primi 15 anni del 19°. La partecipazione della G.B. alle guerre europee del Settecento le consentì di cogliere risultati eclatanti in campo coloniale. La guerra di successione spagnola sancì l’apertura dell’impero coloniale spagnolo ai commercianti inglesi e il riconoscimento della conquista di Gibilterra, Minorca e Terranova. Con la Pace di Parigi del 1763, a conclusione della guerra dei Sette anni vinta contro la Francia, la G.B. ebbe dalla Francia tutto il Canada e i territori della Louisiana a E del Mississippi, e dalla Spagna la Florida in cambio dei territori a O del Mississippi. In Asia la Francia dovette abbandonare il Bengala e dopo il 1764 la Compagnia delle Indie orientali inglese avocò a sé l’amministrazione del Bengala e del Bihar, facendone un vero e proprio possedimento coloniale. Se si considera che dall’inizio del Settecento la G.B. deteneva un quasi monopolio del commercio col Portogallo e il Brasile, si comprende l’origine e la natura del dominio inglese del commercio triangolare nell’Atlantico tra Europa, Africa, America, col collegamento attraverso Londra anche con l’Asia. La grave perdita delle tredici colonie che conquistarono l’indipendenza con la guerra del 1775-83 e fondarono gli Stati Uniti, indebolì ma non compromise la consistenza a livello mondiale dell’immenso complesso coloniale inglese, rafforzata in quegli stessi anni dall’incremento dei domini indiani, assicurato dall’audace, spregiudicata politica di lord R. Clive e di Warren Hastings. Inoltre dal 1770 ebbe inizio anche la colonizzazione dell’Australia e nell’Ottocento l’Africa e l’Oriente si sarebbero aggiunte a un impero che per estensione ha avuto pochi eguali nella storia. In politica interna si rafforzò il ruolo del Parlamento nei confronti del sovrano, e, in seno al Parlamento, crebbe il peso della Camera dei comuni a spese di quella dei lord. Nacque la figura nuova del primo ministro. Alla morte di Anna (1714), succeduta a Guglielmo III, si ebbe la crisi del partito dei tory. L’ascesa al trono degli Hannover con Giorgio I (1714-27) segnò il netto prevalere del partito dei whig, più risolutamente antistuardista, i cui gruppi si contesero da allora, per decenni, il potere. Tra il 1721 e il 1741 si ebbe una stagione politica caratterizzata dal dominio di R. Walpole, che pur svolgendo una saggia politica di pace, riforme e di consolidamento costituzionale, attirò su di sé molte critiche a causa della sua corrotta condotta personale e per la sostanziale politica di disimpegno dalle questioni europee. Con la caduta di Walpole si ebbe quindi la partecipazione della G.B. alla guerra di successione austriaca. Successivamente, uno dei più accaniti avversari di Walpole, William Pitt, salì al potere, conducendo la G.B. alla vittoria nella guerra dei Sette anni (1754-63). Pitt fu poi scalzato dal nuovo indirizzo di politica autoritaria e personale iniziato da Giorgio III, che seppe giocare abilmente sulle divisioni dei whig, portando di nuovo alla vittoria i tory e W. Pitt il Giovane nelle elezioni del 1784. In questa nuova situazione politica s’inserì il movimento insurrezionale delle tredici colonie americane, ma la G.B. dell’ultimo ventennio del Settecento fu teatro dell’inizio della più grande rivoluzione della storia del genere umano dal Neolitico in poi: la Rivoluzione industriale, che le valse nei secoli successivi vantaggi difficilmente valutabili, non solo in termini economici e sociali, ma anche politici e militari. Ma prima che la grande trasformazione fosse percepita in tutta la sua sconvolgente portata e assumesse un ruolo centrale anche per la storia politica inglese, la Rivoluzione francese e l’intervento della G.B. nelle guerre delle coalizioni antifrancesi mantennero in primo piano i problemi di politica estera.
La lunga lotta, iniziata nel 1793 sotto la guida di Pitt il Giovane, interrotta solo dall’effimera Pace di Amiens (1802), acuì i contrasti all’interno, e costrinse a misure eccezionali, come l’Atto di unione dell’Irlanda alla G.B. (1800), che creò le premesse del problema irlandese. La G.B. affrontò carestie, fame, distruzione di risorse, prima di poter giungere alla vittoria sulla minaccia rivoluzionaria e napoleonica, ma nel 1815 aveva spezzato il tentativo francese di egemonia continentale e aveva accresciuto enormemente il suo impero coloniale e la sua potenza navale: il suo primato nelle colonie e sui mari si presentava incrollabile. A Vienna la G.B. cercò di creare sul continente europeo un assetto che mantenesse un equilibrio tra le potenze che chiudesse la strada a nuovi tentativi egemonici. I saldi rapporti stretti con la monarchia asburgica le permettevano di contare su un alleato efficace per contenere tanto la direttiva espansionistica russa nella Penisola Balcanica e in direzione degli stretti, quanto le possibilità di rinascita dell’imperialismo francese. Ma lo sforzo sostenuto nel periodo del blocco continentale aveva aggravato il debito pubblico e fatto crescere il costo della vita, mantenuto alto anche dalla politica di rigido protezionismo granario voluta dai grandi proprietari che dominavano in parlamento. L’ordinamento politico e amministrativo della G.B. già nel Settecento appariva alquanto anacronistico rispetto alla portata delle trasformazioni sociali ed economiche in atto. L’amministrazione locale e quella della giustizia erano in mano all’aristocrazia fondiaria, la gentry, tra le cui file erano scelti gli sceriffi, posti alla testa delle contee, e i giudici di pace, incaricati delle funzioni giudiziarie, poliziesche, assistenziali, fiscali. I deputati alla Camera dei comuni erano eletti ancora in base alle vecchie circoscrizioni delle contee e dei borghi, rimaste immutate attraverso i secoli, con l’assurdo che alcuni collegi elettorali esistevano soltanto sulla carta e borghi rurali con pochi abitanti mandavano uno o due deputati in Parlamento, mentre centri industriali di recente sviluppo, come Liverpool, Manchester, Birmingham, non avevano diritto di rappresentanza. Il diritto al voto era esteso a poco più del 3% della popolazione e sanciva a livello politico un predominio schiacciante dei proprietari terrieri di fronte ai nuovi ceti borghesi industriali e commerciali che non aveva più riscontro nella realtà sociale e economica. L’abilità di uomini politici come Canning, lord Grey, Cobden, Peel, fu d’intuire i pericoli rivoluzionari insiti in questa situazione e di attuare una politica di riforme graduali ma coraggiose (riforma elettorale, abolizione del dazio sul grano e vittoria del liberoscambismo), che seppero svecchiare le strutture politiche, economiche e amministrative del Paese, assicurandone il collegamento con lo sviluppo economico e sociale, e sventando nello stesso tempo ogni tentativo di soluzioni rivoluzionarie come quella prospettata dal cartismo. In politica estera, dopo la linea seguita da R.S. Castlereagh, di sostanziale appoggio al sistema politico della Santa alleanza, si ebbe un parziale cambiamento a opera di G. Canning a favore dell’indipendenza degli Stati dell’America Latina e della Grecia. Tuttavia H.J.T. Palmerston dopo aver bloccato le ambizioni francesi di espansione nel Medio Oriente (crisi del 1840) e i tentativi della Russia d’impadronirsi degli stretti accedenti al Mediterraneo, tentò di arginare il più possibile il ridimensionamento dell’Austria in Italia e infine, a cose praticamente fatte, riconobbe e appoggiò il nascente Stato unitario italiano, per evitare l’instaurarsi dell’egemonia francese in Italia, che avrebbe significato egemonia francese nel Mediterraneo. Il passaggio dal protezionismo al liberoscambismo fu attuato dal partito liberale, che salì al potere nel 1846 dopo la disgregazione del partito conservatore, determinata dal distacco di R. Peel e dei suoi seguaci, e vi rimase per circa un ventennio, con brevi parentesi di ministeri conservatori. Palmerston e J. Russell furono gli uomini più in vista del partito, e accanto a loro cominciò a emergere W.E. Gladstone. Nel ventennio continuò la travolgente ascesa economica e industriale che già agli inizi del sec. 19° aveva prodotto il primo grande proletariato della storia, ben presto organizzato nelle trade unions, sindacati di mestiere che, limitatisi inizialmente a un’opera di tutela e di rivendicazione economica, allargarono poi la loro azione alla sfera politica, chiedendo al governo e al parlamento il riconoscimento dell’esistenza legale dei sindacati e provvedimenti legislativi a tutela dei diritti degli operai. Di fronte al progressivo aggravarsi delle tensioni politiche, B. Disraeli, esponente del nuovo torismo, introdusse, dopo quella del 1832, una nuova riforma elettorale nel 1867, che canalizzò nell’alveo legale le opposizioni operaie. Parallelamente Disraeli fu fautore in campo coloniale di un audace imperialismo, contrapponendosi alla politica di pace e riforme interne (tentativi di soluzione del problema irlandese) proposta da Gladstone. Si ebbe così il consolidamento del dominio inglese in India, che nel 1858 era stata tolta alla Compagnia delle Indie e annessa alla Corona, in Cina, Africa, Medio Oriente (Afghanistan). In Europa, l’esito vittorioso della guerra anglo-franco-russa (1856) arrestò la discesa russa verso il Mediterraneo. Nel 1876 la regina Vittoria fu proclamata imperatrice. Gladstone, tornato al potere nel 1880, continuò la politica espansionistica di Disraeli (insediamento in Egitto nel 1882; occupazione della Birmania nel 1885). J.C. Chamberlain interruppe l’alternanza Disraeli Gladstone. Sostenne la necessità di un’unione doganale fra la G.B. e le colonie, protette contro la concorrenza americana e tedesca da un sistema di elevate tariffe doganali e di un ulteriore rilancio dell’espansione coloniale. L’impero fu esteso a nuove conquiste in Estremo Oriente e in Africa, nell’Oceano Indiano e sul Golfo di Guinea. L’assorbimento (1899-1902) delle repubbliche boere (➔ anglo-boera, guerra) portò quasi a compimento il programma di C. Rhodes, inteso a costituire una serie ininterrotta di possedimenti britannici dal Capo al Cairo e culminato nell’incidente di Fashoda nel 1898 (➔ Fashoda). La prima fase della politica europea del governo Chamberlain, fu essenzialmente antifrancese e filo-triplicista. Tuttavia proprio negli ultimi anni del sec. 19° l’aggressività della Germania guglielmina e l’arrendevolezza francese nelle controversie coloniali aprirono le porte a un importante cambiamento. La Russia dopo la sconfitta subita dal Giappone (1905) fu costretta a rinunciare all’espansione in Oriente attennuando con ciò l’urto con la Gran Bretagna. In Europa si delineò un nuovo scenario di alleanze concretizzatosi nelle intese anglo-francese (1907) e anglo-russa (1907) contro gli imperi centrali e l’Italia, che mai aveva pensato di aderire a un’alleanza anti-inglese quando nel 1882 era entrata nella Triplice alleanza con Austria e Germania. Ritiratosi Chamberlain dalla politica attiva, logorata la coalizione governativa dalle reazioni sfavorevoli alla guerra boera e dalla prima attività del partito laburista (fondato nel 1893), le elezioni generali del 1906 segnarono la vittoria di radicali come Lloyd George ed E. Grey. Tornarono all’ordine del giorno riforme sociali e politiche. Nel 1910 la Camera dei lord perse antiche prerogative politiche a favore della Camera dei comuni. Nel 1914 fu votata una legge che prevedeva per l’Irlanda un Parlamento e un governo separati, legge mai attuata a causa dello scoppio della Prima guerra mondiale.
La violazione della neutralità belga da parte delle truppe germaniche fornì l’occasione per l’entrata in guerra della G.B. (4 ag. 1914). Il fronte interno resse in genere molto bene, ma in Irlanda il prolungamento del conflitto incoraggiò le correnti anti-inglesi. Nella Pasqua del 1916 scoppiò a Dublino un’insurrezione capeggiata da P. Pearse, facilmente soffocata dal massiccio intervento di truppe e di navi. In Europa l’esercito britannico operò in Francia, contribuendo ad arginare l’avanzata tedesca, e, con alterna fortuna, nel Medio Oriente. Sui mari gli inglesi, vittoriosi nella battaglia dello Skagerrak o dello Jütland (31 maggio-1° giugno 1916), non riuscirono tuttavia ad annientare la flotta germanica. L’alleanza dell’impero turco con le potenze centrali convinse il governo a cambiare l’atteggiamento del Foreign office, che fino a quel momento aveva sostenuto l’impero ottomano contro la Russia. All’atteggiamento filo-arabo del colonnello T.H. Lawrence si accompagnò una politica di espansione imperiale (proclamazione del protettorato inglese sull’Egitto e annessione di Cipro). Nel dopoguerra gli equilibri politici interni videro i laburisti abbandonare il gabinetto di unione nazionale formato da Lloyd George negli anni critici della guerra, mentre lo stesso Lloyd George costituiva un ministero di coalizione conservatore-liberale. Contemporaneamente la crisi economica scatenava minacciose agitazioni operaie. I deputati irlandesi separatisti, guidati da E. de Valera e poi da A. Griffith, costituivano un parlamento illegale a Dublino (genn. 1919), col quale Lloyd fu costretto a stipulare un trattato che conferiva all’Irlanda meridionale lo statuto dei dominions. Nel Medio Oriente i nazionalismi arabo, egiziano e sionista creavano difficoltà diplomatiche e militari. Col genn. 1924 s’inaugurò un lungo periodo di predominio laburista, con ministeri di J. R. MacDonald, finché le difficoltà causate dalla grande crisi economica imposero un governo di coalizione con il conservatore H.W. Baldwin (1931-35). Nel sett. del 1931 la sterlina fu svalutata del 30%. Nel 1932 la Conferenza imperiale di Ottawa creò un sistema organico di tariffe preferenziali nell’ambito dell’impero. Durante tutto questo periodo il laburismo non rivelò tendenze radicali: la vita politica inglese apparve solidamente contenuta negli argini del tradizionale parlamentarismo e il passaggio dal governo di coalizione alla fase di predominio conservatore avvenne senza scosse, al di là della crisi che portò all’abdicazione di Edoardo VIII. Si pose invece fuori del sistema politico britannico il leader di sinistra O. Mosley, divenuto capo di un esiguo gruppo di fascisti inglesi. Il Paese trovò quindi l’unità nel 1939 di fronte alla minaccia del totalitarismo continentale, tenacemente denunziato dal conservatore W. Churchill. Fallita la politica di contenimento pacifico tentata da N. Chamberlain, la G.B. dichiarò guerra alla Germania (3 sett. 1939), mentre Churchill fu nominato primo lord dell’Ammiragliato e A. Eden ministro dei dominions. Nel momento peggiore della guerra dopo l’occupazione della Danimarca e della Norvegia da parte della Germania, la rinnovata unità nazionale si espresse nel governo Churchill-Attlee (maggio 1940), che avviò la cosiddetta «rivoluzione silenziosa»: la vittoria era possibile solo con la mobilitazione totale del Paese, per cui s’imponevano la riorganizzazione finanziaria e il dirigismo economico. Così nacque, nel 1942, quel progetto di assistenza sociale, di garanzie assicurative, di controlli alla produzione, che va sotto il nome di piano Beveridge e che, come tale, entrò in vigore nel 1948.
Pur vincitrice, la G.B. usciva dalla guerra stremata, con immensi problemi di ricostruzione economica, partecipe di uno scenario mondiale profondamente mutato. Se l’acquisizione di un seggio permanente presso il Consiglio di sicurezza dell’ONU le assicurava un ruolo di protagonista, era però evidente che gli equilibri generali non le permettevano più l’esercizio della sua tradizionale politica egemonica e imperiale. Sul piano interno, le elezioni del 1945, affrontate dai conservatori all’insegna della lotta all’espansionismo sovietico, furono vinte di larga misura dai laburisti e il governo di C.R. Attlee (1945-51) gestì la prima fase del dopoguerra con un programma di nazionalizzazione delle industrie di grande rilevanza economica (carbone, acciaio, trasporti, Banca d’Inghilterra, aviazione civile, gas) e di promozione del welfare State (servizi pubblici, scuola e, soprattutto, sistema sanitario), a fronte di gravissime difficoltà di bilancio e di situazione economica generale. Nel 1946 le esportazioni raggiungevano solo un terzo del valore del 1938. Furono quindi quanto mai opportuni gli aiuti statunitensi del piano Marshall e fu inevitabile un regime di grande austerità fiscale. Sul piano internazionale, la G.B. si orientò anzitutto verso una stretta collaborazione con gli Stati Uniti d’America, della cui politica internazionale fu la più affidabile alleata, e restò a lungo estranea al processo di integrazione europea. Accettò quindi senza opporre una rigida resistenza lo smantellamento dell’impero coloniale e modificò profondamente anche il carattere e l’estensione del Commonwealth: la Birmania, ottenuta l’indipendenza, non vi aderì (1948); l’Unione Indiana e il Pakistan ottennero lo status di dominion (1947) e nel 1949 la prima approvò una Costituzione repubblicana, la Repubblica d’Irlanda ne uscì nel 1949. Più travagliate furono le vicende in Medio Oriente, specie in Palestina durante il difficile processo che portò alla costituzione dello Stato d’Israele, in un quadro in cui risultò problematico anche il disimpegno dall’Egitto, dalla Giordania e dall’Iraq. Vivacemente contestato dall’opposizione guidata da Churchill, che ai laburisti rimproverava gli insuccessi economici e le nazionalizzazioni (causa dell’esclusione della grande industria privata dalla ricostruzione), il governo Attlee fu rovesciato nelle elezioni anticipate del 1951 che inaugurarono una lunga serie di ministeri conservatori (Churchill 1951-55, A. Eden 1955-57, H. Macmillan 1957-63, A. Douglas-Home 1963-64), mentre nel 1952 moriva re Giorgio VI e saliva al trono sua figlia Elisabetta II.
Salita al trono il 6 febbr. 1952, Elisabetta II ha celebrato nel 2002 il suo Giubileo d’Oro, in occasione dei cinquant’anni di regno. Il suo lungo governo ha coinciso con la graduale trasformazione dell’impero britannico nel Commonwealth. Convinta conservatrice delle tradizioni istituzionali, morali e religiose, ha avuto modo di confrontarsi nel corso dei decenni con un numero notevole di primi ministri, dalla forte personalità e di differente provenienza politica, con cui ha saputo misurarsi criticamente, badando a difendere il ruolo e le funzioni della corona. Ha sposato il 20 nov. 1947 Philip Mountbatten creato in quell’occasione duca di Edimburgo; dal matrimonio sono nati quattro figli: Carlo (1948), Anna (1950), Andrea (1960) ed Eduardo (1964). Il regno di Elisabetta ha rafforzato il legame di affetto che unisce il popolo britannico alla casa reale, nonostante una serie di avvenimenti abbiano rischiato di incrinare il rapporto di fiducia e il ruolo di guida morale che le viene riconosciuto. Il momento più difficile fu certamente quando, nel 1997, in occasione della morte di Diana Spencer, principessa del Galles, moglie divorziata di suo figlio Carlo, fu accusata di essere rimasta isolata e di non avere avuto un atteggiamento partecipe in occasione delle dimostrazioni di dolore della popolazione.
Negli anni Cinquanta molte delle ex colonie aderirono al Commonwealth, mentre le tensioni con la Rhodesia portarono alla sua traumatica fuoruscita nel 1966: le relazioni si sarebbero poi normalizzate solo nel 1980, con la nascita dello Zimbabwe. Molto complessi furono i problemi dell’economia. La G.B. aveva perso già con la Prima guerra mondiale il ruolo economico rivestito nel sec. 19°. Nel secondo dopoguerra la produzione industriale si sviluppò a un saggio di crescita nettamente inferiore a quello di molti Paesi europei, non in grado di sostenere uno standard di vita pari a quello di altri Paesi dell’Occidente industrializzato, come gli USA, la Francia e anche la Repubblica federale di Germania. Nessuna strategia economica riuscì per molti anni a rovesciare questo stato di cose, nonostante l’alternarsi alla guida del Paese sia del Partito conservatore sia di quello laburista legati a contrapposte visioni economiche. Specie sulle prime la politica conservatrice non si distanziò molto da quella laburista: le nazionalizzazioni (tranne l’industria dell’acciaio) vennero mantenute e non fu liquidato il welfare State. Fu invece in politica estera che – ritiratosi Churchill a vita privata (1955) – la condotta britannica ebbe una brusca e infelice impennata: nel 1956, contro la decisione egiziana di nazionalizzare il Canale di Suez, G.B. e Francia organizzarono una spedizione militare che si risolse in un insuccesso politico e diplomatico per l’atteggiamento contrario di USA e URSS e il voto di condanna dell’ONU. Il fallimento contribuì alla caduta del governo Eden e a una svolta nell’atteggiamento con l’Europa attuata dal governo Macmillan. Sul finire degli anni Cinquanta si avvertiva che il già limitato saggio di crescita dell’economia era messo in discussione da deficienze strutturali del sistema produttivo, mentre prive di risultati e per di più impopolari si erano rivelate misure quali la manovra sui tassi e la politica dei redditi. La soluzione parve a quel punto la richiesta d’ingresso nella CEE che fu avanzata nell’ott. 1961, peraltro in contrasto con alcuni interessi britannici in agricoltura e nel Commonwealth e con l’avversione di larghi settori laburisti. Era un cambiamento sostanziale dell’atteggiamento tradizionale. Membro della NATO, la G.B. aveva rifiutato già nel 1950 l’adesione alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), primo nucleo della CEE, alla quale nel 1958 aveva confermato l’estraneità, contribuendo invece alla creazione dell’European free trade association (1959) e aderendo all’intesa politico-militare dell’Unione Europea occidentale e al Consiglio d’Europa. Allorché la G.B. chiese di aderire alla CEE si scontrò con il veto francese (nel genn. 1963 C. De Gaulle affermò che geografia, economia e mercato rendevano impossibile l’ingresso della G.B. nella CEE). Questo insuccesso, insieme a un celebre scandalo (l’affare Profumo), ebbe peso nel segnare la sorte del governo Macmillan (peraltro penalizzato dall’elevata inflazione e dalla disoccupazione crescente). A esso seguì la breve esperienza del primo ministro Douglas-Home, chiusa dalla sconfitta di stretta misura alle elezioni del 1964 a opera dei laburisti, riorganizzati attorno al nuovo segretario H. Wilson. Confermata con più ampio margine la maggioranza laburista nelle elezioni del 1966, il governo Wilson poté attuare nel periodo 1966-70 una severa politica di bilancio (nel 1967 la sterlina fu svalutata del 14,3%) e dei redditi, mantenendo un fermo atteggiamento verso i sindacati e attuando una concezione «selettiva», più che universale, del welfare State. Nel 1970 fu lo stesso Wilson a chiedere una conferma elettorale del suo operato, ma dalle urne uscì una maggioranza conservatrice e alla carica di primo ministro fu chiamato E.R.G. Heath (1970-74). Il governo conservatore dovette fronteggiare una fase di aspro scontro sociale, l’esplodere delle tensioni in Irlanda del Nord, la più alta disoccupazione del dopoguerra, che fu affrontata con misure d’emergenza quali la settimana lavorativa di tre giorni in alcuni settori produttivi. I risultati non parvero però risolutivi e, nonostante che Heath – come aveva promesso nella campagna elettorale – riuscisse a portare la G.B. nella CEE (genn. 1973), le elezioni del 1974 riconsegnarono il governo ai laburisti sia pure con esile maggioranza. Le misure del nuovo governo Wilson (1974-76) mirarono soprattutto a riduzioni di spese, sia militari sia civili, e al blocco dei salari per sei mesi concordato con i sindacati, ma non riuscirono ad attenuare il deprezzamento della sterlina, né a contrastare validamente l’inflazione, giunta al 25%, e la recessione industriale. Nel 1975 un referendum confermava con la maggioranza di due terzi l’adesione alla CEE e a Wilson successe il laburista J. Callaghan, che governò (1976-79) con l’appoggio dei liberali. Dinanzi alle ulteriori difficoltà della sterlina, il cui valore era sceso a 1,60 dollari nell’ottobre 1976, intervenne il Fondo monetario internazionale con un prestito che alimentò la faticosa ripresa economica del 1977-78, sostenuta anche dall’aumento della produzione di petrolio nel Mare del Nord, ma la politica dei redditi – anche se concordata con i sindacati – diede luogo a una grande ondata di scioperi. Le elezioni politiche del maggio 1979 segnarono un successo per i conservatori, guidati dal 1975 da M.H. Thatcher, che assunse la carica di primo ministro (1979-90) con un programma radicalmente liberista che mirava a rinnovare profondamente la struttura produttiva nazionale. La Thatcher realizzò un vasto piano di privatizzazione di imprese nazionalizzate, decurtò drasticamente le sovvenzioni statali alle imprese, tagliò in misura senza precedenti la spesa pubblica e il prelievo fiscale. L’impatto economico e sociale fu violento. L’aumento della disoccupazione fu macroscopico e fu seguito da una forte recessione, cui fece riscontro l’apprezzamento della sterlina sul mercato dei cambi. Laburisti e sindacati si attestarono su una linea di netta opposizione (1981) e la vita sociale conobbe momenti di alta tensione quali per es. il grande sciopero dei minatori del 1984 e la vivace protesta sociale contro la poll tax del 1990, nonostante che il Partito laburista subisse nel 1983 una scissione di orientamento socialdemocratico. Ad aggravare la situazione sopravvennero anche i problemi di integrazione posti dalla massiccia presenza di immigrati dalle aree più povere del pianeta, la recrudescenza della questione irlandese e il costo della guerra delle Falkland contro l’Argentina che nel 1982 aveva occupato il possedimento britannico da tempo rivendicato come parte integrante del proprio territorio nazionale. Il governo Thatcher fu comunque confermato nelle elezioni del 1983 e del 1987 da un elettorato che non vedeva possibili altre alternative. Le scelte neoliberiste degli anni Ottanta favorirono l’ascesa di nuovi ceti medi, arricchitisi a scapito delle tradizionali gerarchie sociali del Paese, mentre la conflittualità sociale fu sospinta dal centro della scena politica (con strati di lavoratori manuali protetti e sindacalizzati) ai margini delle periferie urbane. Il lungo sciopero dei minatori del 1984-85, con la sua pesante sconfitta, rappresentò una sorta di «canto del cigno» della classe operaia e delle trade unions, mentre nei ghetti esplodevano tensioni razziali e i tagli alla spesa pubblica creavano nuove sacche di povertà e di indigenza. Tuttavia la durissima cura imposta all’economia britannica diede infine i suoi frutti sul piano della ripresa produttiva e successivamente anche dell’occupazione. E infatti nel nov. 1990, dimessasi la Thatcher, divenne primo ministro ancora il conservatore J. Major, che nelle elezioni dell’apr. 1992 riuscì a far confermare la maggioranza conservatrice, anche grazie alla promessa di una politica di alleggerimenti fiscali. Per Major la situazione doveva però rivelarsi di difficile gestione. Privo del carisma della Thatcher e incapace di sostituire il linguaggio antagonistico e polarizzatore del suo predecessore con iniziative e parole d’ordine nuove e altrettanto efficaci sull’opinione pubblica, Major abbandonò ben presto le intenzioni moderate degli esordi, per avviarsi su una linea molto vicina a quella thatcheriana. Il ruolo di mediatore che Major aveva adottato una volta succeduto alla Thatcher, si rivelò di difficile realizzazione, soprattutto sulla questione del Trattato di Maastricht. Avversato decisamente da molti esponenti conservatori (a cominciare dalla stessa Thatcher), e sostenuto invece dai laburisti, convinti dal contenuto del capitolo sociale che tutelava i diritti dei lavoratori in vista dell’entrata nell’Unione Europea, il trattato venne ratificato solo nell’ag. 1993, dopo un tormentato iter legislativo. La politica fiscale ed economica dovette mantenere per forza di cose forti elementi di continuità con il decennio precedente. L’incremento delle imposte fra il 1993 e il 1994, reso necessario dal deficit di bilancio, fu realizzato attraverso un aumento dei contributi sociali e dell’imposta sul valore aggiunto sui carburanti (marzo 1993) e provocò ulteriori difficoltà per il partito di governo, tanto che l’accanita resistenza dell’opposizione fu premiata dall’elettorato in diverse occasioni (elezioni suppletive e amministrative) nello stesso 1993. Si rese dunque necessario un rimpasto di governo, con la nomina di K. Clarke a cancelliere dello scacchiere in sostituzione di N. Lamont. Per arginare il dissenso intorno alla nuova tassa sul carburante, il nuovo responsabile delle finanze propose una serie di provvedimenti a favore di pensionati, disabili e indigenti; tuttavia, l’annuncio di nuove misure per incrementare il gettito fiscale scatenò ulteriori proteste dell’opposizione, che accusò il partito conservatore di non tener fede all’impegno elettorale di ridurre il livello di tassazione. Il governo Major riprese la linea thatcheriana anche nel processo di privatizzazione, che coinvolse istruzione e sanità, nonché i settori postale, ferroviario e minerario. Quando, nell’ott. 1993, venne dato l’annuncio della chiusura di 31 miniere di carbone su 50 in tutta la G.B. (chiusura che avrebbe implicato il licenziamento di circa 30.000 persone), una forte opposizione nel Paese e dissidi interni allo stesso partito conservatore obbligarono il governo a una parziale revoca del provvedimento. Fortemente contestata fu anche, nel nov. 1993, la proposta di legge che prevedeva l’adozione di misure severissime contro la criminalità (come, per es., la soppressione del diritto dell’accusato al silenzio, misura condannata nel luglio 1995 dalla Commissione per i diritti umani dell’ONU). In sostanza erano fortemente disattese le promesse contenute nel White paper on citizenship, reso pubblico nel 1991, che era sembrato preannunciare una presa di distanza dal thatcherismo più duro, e promettere uno Stato più responsabile verso tutte le fasce della popolazione, a cominciare dalle più povere. Nei fatti, i governi guidati da Major dimostrarono un atteggiamento più morbido solo nei confronti della pubblica amministrazione, restituendo più potere ai governi locali e allo stesso apparato statale. Anche in politica estera Major dimostrò una sostanziale continuità con il thatcherismo. Rilevante fu il contributo britannico alla missione ONU in Bosnia (nov. 1992). Ancora difficili e altalenanti furono invece le relazioni con l’Argentina (riprese nel febbr. 1990) nonostante gli accordi per la cooperazione nella gestione e conservazione dei prodotti della pesca nell’Atlantico meridionale (dic. 1992 e nov. 1993). Frattanto, a partire dalla fine del 1992, una serie di scandali coinvolse i vertici del potere politico. La condotta governativa fu oggetto di aspre critiche in due occasioni: lo scandalo per la fornitura di armi all’Iraq, che contravveniva all’embargo del 1985, e la scoperta di un accordo con il governo malese, secondo il quale la G.B. avrebbe finanziato la costruzione di una centrale idroelettrica in Malaysia in cambio della concessione degli appalti a ditte britanniche. Ulteriori scandali sulla condotta privata e pubblica di esponenti del partito conservatore vennero alla luce nel corso del 1994. Le elezioni europee del giugno 1994 si conclusero con il crollo dei tory da 32 a 18 seggi, mentre i laburisti passavano da 45 a 62 seggi. L’istituzione, nell’ottobre 1994, di una commissione d’inchiesta incaricata di indagare sulla condotta di tutti i membri della pubblica amministrazione non bastò a ristabilire la fiducia nei confronti del partito di governo, che vacillava anche a causa delle divisioni interne sulla partecipazione della G.B. all’Unione Europea. Ancora una volta fu solo la minaccia di una crisi a consentire a Major di far approvare l’aumento del contributo britannico al bilancio comunitario (nov. 1994). I contrasti interni sulla questione europea rendevano sempre più isolata la posizione della G.B. in seno all’Unione Europea. D’altro canto anche il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti si deteriorò notevolmente nel febbr. 1994, in seguito alla visita a Washington di G. Adams, leader del Sinn féin (il principale partito indipendentista cattolico dell’Irlanda del Nord e braccio politico dell’organizzazione clandestina Irish republican army, IRA). Positivo invece fu, nello stesso periodo, il rafforzamento delle relazioni con la Repubblica Sudafricana che, dopo la fine del regime di apartheid, fu riammessa all’interno del Commonwealth (giugno 1994). Le difficoltà per il partito di Major proseguirono nel 1995. Nei mesi di aprile e maggio le elezioni locali in Scozia, Inghilterra e Galles segnarono un forte calo dei conservatori. Fu così che nel giugno, anche in risposta alle crescenti polemiche interne al partito, Major si dimise, rimettendo in gioco la sua carica di primo ministro e di leader del partito. Nel confronto, all’interno del partito, con il thatcheriano J. Redwood (luglio 1995), Major conquistò fin dal primo turno il voto di 218 su 329 parlamentari conservatori, contro gli 89 di Redwood. Il ritrovato consenso all’interno del suo partito e la conseguente riorganizzazione dei ruoli in seno al gabinetto non furono però sufficienti al premier per ristabilire l’equilibrio nell’ambito della formazione di governo. In breve tempo, tra le sconfitte in varie elezioni suppletive e le defezioni di alcuni parlamentari, i conservatori giunsero a detenere (apr. 1996) un solo seggio di maggioranza. In questo clima, le elezioni legislative del maggio 1997 si configurarono come una vittoria annunciata per il Labour party di Tony Blair. I risultati elettorali dell’aprile 1992 avevano infatti avuto conseguenze più sulla vita interna del partito laburista che su quella del partito conservatore e sulla sua linea di governo. La sconfitta alle urne aveva spinto il leader laburista N. Kinnock alle dimissioni; al suo posto era subentrato J. Smith che, morto improvvisamente nel maggio 1994, era stato sostituito da T. Blair, giovane leader dell’ala moderata del partito, dichiaratamente favorevole a una più decisa modernizzazione e trasformazione del Labour party. Il nuovo leader della sinistra britannica esibiva un programma che comprendeva, fra l’altro, l’appoggio all’Unione economica e monetaria europea (purché sostenuto dalla volontà popolare tramite un referendum) e l’opposizione alle privatizzazioni nel sistema pensionistico e sanitario: un punto, quest’ultimo, che si distingueva rispetto a una politica complessivamente favorevole ad aperture liberiste. Major contrapponeva una linea prudente sull’Europa e la prosecuzione della politica finanziaria fino ad allora adottata, che nell’ultimo periodo del suo governo aveva finalmente ottenuto buoni risultati sul piano del risanamento economico del Paese, anche se a prezzo di un aumento del divario fra ceti più e meno abbienti. I risultati confermarono i pronostici: i laburisti riportarono una vittoria schiacciante, conquistando ben 419 seggi su 659, contro i 165 dei conservatori; i liberaldemocratici, anche loro in aumento, ottennero 46 seggi.
Dopo diciotto anni, dunque, il Partito laburista tornava al governo. A determinarne la vittoria avevano contribuito essenzialmente due elementi: da un lato la debolezza di un partito conservatore schiacciato dai conflitti interni e dagli scandali; dall’altro l’abilità di Blair nel costruire «un’alternativa credibile», lontana da reminiscenze marxiste e vicina al liberismo di tradizione conservatrice, seppure con un occhio più favorevole allo Stato sociale e all’integrazione europea. In ambito internazionale, l’elezione di Blair si inquadrava inoltre nel processo generale che, dopo l’avvento al governo del socialista L. Jospin in Francia (giugno 1997), aveva portato all’affermazione della sinistra in 13 su 15 dei Paesi dell’Unione Europea. Il nuovo governo si mise presto all’opera: fra i punti del programma laburista vi era l’istituzione di strutture autonome in Scozia e Galles. Estraneo a una scelta federalista che mettesse in discussione la supremazia giuridica dei poteri centrali, ma attento alle istanze autonomiste delle due regioni, Blair concesse a esse un largo decentramento politico-amministrativo. Nel sett. 1997 si tenne nelle due regioni un referendum popolare che approvò, con una percentuale di voti favorevoli rispettivamente del 74,3% e del 50,3%, la nascita di organismi legislativi locali (un Parlamento scozzese e un’Assemblea gallese). Il diverso atteggiamento espresso da Scozia e Galles attraverso il voto popolare rispecchiava, oltre al differente peso che la tradizione indipendentistica aveva sempre avuto nelle due regioni (significativo è il fatto che in Galles la lingua originaria sia parlata solo dal 20% della popolazione), anche la maggiore posta in gioco per la Scozia: il suo Parlamento, contrariamente all’Assemblea gallese, avrebbe avuto più ampie competenze, a cominciare da quelle in campo di politica fiscale. Nonostante la scarsa partecipazione ai referendum, il consenso nei confronti di Blair fu trionfalmente confermato nel corso del Congresso laburista di Brighton (sett.-ott. 1997), nel quale il leader proclamò il suo impegno per l’Europa, per la riforma del welfare e per una riaffermazione dell’orgoglio nazionale, elemento quest’ultimo fino ad allora patrimonio quasi esclusivo della tradizione conservatrice. La necessità di una revisione costituzionale, soprattutto in merito al ruolo della monarchia, da tempo tema ricorrente del dibattito politico, fra il 1997 e il 1998 tornò a contrapporre abbastanza duramente conservatori e laburisti. Questi ultimi reclamavano una riforma che riducesse i poteri della corona, favoriti anche dalla fragilità dell’immagine pubblica di Carlo, principe di Galles ed erede al trono. Le difficoltà della sua vita privata, rese note dalla stampa scandalistica, nonché, nell’ag. 1997, la tragica morte dell’ex moglie Diana Spencer, sembrarono ulteriormente indebolire la posizione della corona, rafforzando le proposte di riforme costituzionali avanzate da più parti della sinistra britannica, nonostante la diversa presa di posizione del premier Blair, che fin dall’estate 1997 aveva più volte manifestato il proprio appoggio alla famiglia reale. Mentre il premier acquisiva peso politico sulla scena europea, pur senza aderire alla moneta unica, e conquistava nel contempo nuova forza e consensi sullo scenario mondiale (grazie soprattutto ai successi ottenuti nell’Irlanda del Nord), in campo economico il governo laburista poté avvalersi di una congiuntura economica sostanzialmente positiva, nonostante la seria minaccia costituita dal cambio della sterlina e dalla crisi asiatica. Dal 1992 l’economia britannica aveva infatti registrato una crescita ininterrotta della produzione e anche la disoccupazione era tornata a diminuire, raggiungendo nel 1998 il 5,9%. Blair sembrava comunque avviare un nuovo corso laburista che, ben lontano dalla tradizione del partito, affiancava a una linea sostanzialmente pragmatica e liberale una forte carica nazionalistica e profondi echi religiosi. Indicativi in questo senso erano stati i richiami ai «doveri contro i diritti» e la rivendicazione di un primato nazionale di tipo etico, riconfermati con chiarezza nel discorso tenuto al Congresso di Brighton del 1997. All’insegna della ricerca di una «terza via» tra Stato e mercato basata sui valori dell’uguaglianza, delle pari opportunità, della responsabilità e della comunità, l’esperimento del new labour sembrò costituire, almeno teoricamente, un referente per altre esperienze di governi di centrosinistra: in tale quadro si inserì l’incontro fra Blair, il presidente del Consiglio italiano, cattolico di sinistra, R. Prodi e il presidente degli Stati Uniti, il democratico B. Clinton (New York, sett. 1998) e ancora, nel nov. 1999, il seminario internazionale tenutosi a Firenze sulla «terza via». Nell’ott., confermando la volontà di adeguarsi alle norme dell’Unione Europea in materia sociale, la G.B. introdusse la direttiva europea sull’orario di lavoro che prevedeva un massimo di 48 ore settimanali (oltre all’obbligo delle ferie pagate e di pause di almeno 11 ore tra una giornata lavorativa e l’altra), direttiva cui si erano fino ad allora opposti i precedenti governi conservatori. Ma dalla fine del 1998 la popolarità di Blair cominciò a incrinarsi dopo le dimissioni di due ministri accusati di corruzione e più volte la tradizionale base del partito criticò le scelte del governo. Così, nonostante il consenso di tanta parte dell’opinione pubblica per il forte sostegno offerto dal premier nella guerra contro la Iugoslavia (marzo-maggio 1999), nelle elezioni europee del giugno 1999 Blair subì una netta sconfitta. Nel marzo 2000 la lunga e difficile fase di dissensi interni raggiunse l’acme con l’espulsione dal Labour party del rappresentante della sinistra K. Livingstone, colpevole di essersi candidato come indipendente alle elezioni per il sindaco di Londra, che peraltro vinse, anche contro il rappresentante ufficiale laburista F. Dobson (maggio). Ma la favorevole situazione economica (marzo 2000) e la ripresa di temi tradizionalmente laburisti (maggiori spese per servizi e pensioni, stanziate fin dall’apr. 2000), nonché alcune scelte contrassegnate da un realismo laico aperto alle innovazioni (come, nel genn. 2001, l’approvazione da parte del Parlamento della proposta di legge di Blair per il via libera alla clonazione di cellule di embrioni umani a scopo terapeutico), restituirono a Blair un più vasto consenso sia nel partito sia nell’opinione pubblica. In politica estera, nel luglio 1999 la G.B. riallacciò le relazioni diplomatiche con la Libia, interrotte dal 1984, mentre sul piano più generale si rafforzò l’intesa con gli Stati Uniti. Quanto alla questione dell’Irlanda del Nord, ancora irrisolta alle soglie degli anni Novanta, dopo una ripresa a partire dall’ag. 1991 del conflitto tra cattolici e protestanti, un importante passo verso la pace era stato compiuto con la cosiddetta Dichiarazione di Downing street (dic. 1993), in cui Major aveva invitato le due parti a cessare il fuoco, dichiarandosi disposto a rinunciare alla sovranità britannica sull’Ulster purché la volontà irlandese in tal senso si esprimesse in un referendum. L’affermazione era stata fortemente avversata dai protestanti unionisti, che la vedevano come un tradimento, e lo stesso Sinn féin aveva protestato vivamente contro il sistema proposto da Major per l’eventuale consultazione elettorale (riservata esclusivamente all’Ulster, a maggioranza protestante), che sembrava inevitabilmente favorire i fedeli al Regno Unito. Il 1994 si era aperto così con una nuova esplosione di violenza terrorista. Ma il 31 ag. 1994 era giunto, dopo venticinque anni di conflitti e oltre tremila morti, il «cessate il fuoco» totale e incondizionato dell’IRA, al quale era seguito, il 13 ottobre successivo, la sospensione delle ostilità da parte dei lealisti protestanti. Da parte britannica, il processo di pace era stato sostenuto con nuove, importanti misure, come la rimozione di tutti i posti di blocco sulle strade di frontiera (ott. 1994) e la forte riduzione, nel corso del 1995, della presenza militare nell’Irlanda del Nord. L’impegno profuso non era stato però ritenuto sufficiente dal Sinn féin, ancora escluso dai negoziati. Il ritardo nell’avvio delle trattative aveva portato quindi, dopo diciassette mesi di tregua, alla riapertura delle ostilità (febbr. 1996). Una svolta decisiva si era avuta quindi con la vittoria nel maggio 1997 di Blair, che aveva favorito la ripresa del colloquio. Non solo il Sinn féin aveva ottenuto in quelle elezioni un’affermazione storica, conquistando 2 seggi, ma il trionfo laburista aveva rimosso un pesante impedimento al dialogo: la dipendenza di Major dai voti unionisti per avere la maggioranza parlamentare. Blair poté così realizzare un significativo passo verso l’autonomia della regione. Con una mossa a sorpresa dichiarò per la prima volta la disponibilità del suo Paese a rinunciare alla pregiudiziale di sempre, il disarmo dell’IRA, per accettare la partecipazione del Sinn Féin ai negoziati. Grazie anche all’appoggio degli Stati Uniti e della Repubblica d’Irlanda, nell’apr. 1998 si raggiunse un accordo fra le parti che venne approvato il mese successivo da oltre il 70% della popolazione dell’Ulster e dal 95% di quella della Repubblica d’Irlanda. Nonostante le prevedibili resistenze delle fazioni estremiste degli schieramenti protestante e cattolico (che sfociarono in momenti di grave tensione e in episodi di drammatica violenza nel luglio-ag. 1998, e a cui il governo Blair aveva risposto con nuove e più severe misure in materia di ordine pubblico, rapidamente approvate dal Parlamento come Terrorism bill nel sett. 1998), l’accordo sembrava rappresentare una vera e propria svolta nella storia dell’Irlanda del Nord. Appoggiato sempre più decisamente dall’opinione pubblica inglese e internazionale, il patto sanciva in primo luogo il diritto all’autodeterminazione dell’Ulster. Inoltre, G.B. e Repubblica d’Irlanda si dichiaravano disposte a cambiare le rispettive Costituzioni, rinunciando la prima alla sovranità sull’Irlanda del Nord e la seconda all’unità dell’isola. Venivano infine istituiti un Parlamento nordirlandese con potere legislativo e con il compito di eleggere il primo ministro del governo regionale, un Consiglio Nord-Sud comprendente i titolari del potere esecutivo della Repubblica d’Irlanda e dell’Ulster e un Consiglio angloirlandese che garantisse la collaborazione tra i due Paesi. Nelle elezioni per il Parlamento nordirlandese, tenutesi nel giugno 1998, lo scontro trentennale fra una maggioranza unionista e protestante, decisa a rimanere unita alla G.B., e una minoranza cattolica e repubblicana, sostenitrice di un’unione con la Repubblica d’Irlanda, si era intrecciato ad altri motivi, restituendo un quadro complesso della situazione e degli schieramenti politico-religiosi nelle sei contee dell’Ulster. Al termine di un’elezione svoltasi secondo un sistema proporzionale per eleggere i 108 deputati del nuovo Parlamento nordirlandese, le due forze emergenti erano state l’Ulster unionist party di D. Trimble (28 seggi) e il Roman catholic social democratic and labour party (24 seggi), entrambi sostenitori dell’accordo, contro il Democratic unionist party del reverendo I. Pasley, avverso a qualunque negoziato, che aveva ottenuto 20 seggi. Il Sinn féin di G. Adams aveva avuto una grande affermazione (18 seggi), mentre l’unico partito aconfessionale, l’Alliance party, guidato da lord J.T. Alderdice, aveva avuto 6 seggi. Capo del governo era stato designato D. Trimble, ma le persistenti tensioni fra le due comunità e il rifiuto degli unionisti di accettare l’ingresso del Sinn Féin nell’esecutivo nordirlandese prima del disarmo dell’IRA avevano provocato un grave stallo nel processo di pace e il rinvio della formazione del nuovo esecutivo regionale e del passaggio dei poteri da Londra a Belfast, previsto per il giugno 1999. L’esclusione del Sinn féin dall’esecutivo fino all’effettivo disarmo dell’IRA entro il maggio 2000, precondizione ribadita da Trimble e accompagnata da una posizione di scetticismo dell’intero partito unionista verso le opposte assicurazioni del Sinn féin che sembravano impegnare l’esercito repubblicano all’effettivo disarmo (luglio 1999), non aveva infine impedito, tuttavia, la formazione di un governo dell’Ulster (dic. 1999). Ma la questione del disarmo dell’IRA, fra le pressioni unioniste e le evidenti resistenze a procedere da parte dell’esercito indipendentista, aveva portato nel febbraio 2000 alla sospensione del processo di pace, con la revoca, da parte di Londra, dei poteri del governo decentrato di Belfast e la ripresa del controllo diretto inglese sulla provincia. Nello stesso mese l’IRA aveva abbandonato la commissione per il disarmo istituita con l’accordo dell’apr. 1998, mentre la questione delle armi continuava a costituire il principale nodo da sciogliere. Tuttavia la decisione dell’IRA di sigillare le armi in bunker segreti (ma aperti alle ispezioni dei rappresentanti internazionali della commissione per il disarmo) era stata un grande successo per Blair e gli aveva consentito, nel giugno 2000, la sospensione del decreto di Londra. Nell’ott. 2001 l’ulteriore decisione di mettere fuori uso il proprio armamento aprì la strada alla definitiva normalizzazione e nel nov. 2001 Trimble (che si era dimesso nel luglio) venne rieletto primo ministro del governo dell’Ulster. Le elezioni politiche del giugno 2001, che registrarono con l’affluenza più bassa del dopoguerra (59,4%) un forte calo di partecipazione, assicurarono quindi a Blair un’importante vittoria che premiava anche i successi sul fronte dell’IRA oltre a un programma elettorale incentrato sul miglioramento dei servizi e il contenimento delle imposte per imprese e privati. In occasione dell’intervento promosso dagli Stati Uniti, dopo gli attentati dell’11 sett. 2001, in Afghanistan (ott.), Blair assunse un ruolo rilevante nella costruzione delle alleanze internazionali necessarie per la conduzione militare del conflitto, distinguendosi fra gli alleati europei per il forte sostegno alle scelte di Washington. Sul piano interno, il suo governo adottò, nel dic. 2001, una legislazione antiterrorismo che, con l’introduzione della possibilità di detenzione senza processo per gli stranieri sospettati di terrorismo, provocò dissensi nell’opinione pubblica e nello stesso partito laburista. La G.B. seguì una linea di stretta cooperazione con gli Stati Uniti anche in occasione della nuova crisi irachena, che nel 2003 condusse all’invasione anglo-americana del Paese. Tuttavia nove membri del governo si dissociarono dalla politica interventista di Blair. Negli anni successivi il governo fu più volte criticato per la gestione dell’intervento in Iraq, ma Blair, divenuto nel 2005 il primo leader laburista a ottenere un terzo mandato di governo, sebbene il Labour party avesse vinto le elezioni con un margine di voti molto ridotto, continuò a difendere l’unità di intenti con gli Stati Uniti nella cosiddetta «guerra al terrore». Il dibattito sulla politica estera del governo, in particolare in riferimento al tema del ritiro dall’Iraq, fu alimentato anche da gravi attentati di matrice islamica verificatisi a Londra nel luglio 2005. Nel giugno 2007 Blair si ritirò dalla vita politica, lasciando la guida del partito e del governo a G. Brown, ma già l’anno successivo le elezioni amministrative mostravano un significativo calo dei consensi a favore dei laburisti. Nel 2009 il governo Brown si è trovato a gestire la difficile crisi economica e finanziaria, ulteriormente indebolito da una serie di scandali che hanno costretto alle dimissioni diversi membri dell’esecutivo. Le elezioni del mag. 2010 hanno infine portato alla vittoria il Partito conservatore guidato da D. Cameron, che ha ottenuto il 36% dei voti contro il 29% dei laburisti, in aperta crisi, e il 23% dei liberali di N. Clegg. Conservatori e liberali hanno quindi dato vita a un governo di coalizione, il governo Cameron-Clegg, che rappresenta una novità assoluta per la politica britannica.