Vedi Grecia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La collocazione geografica della Grecia ha reso il paese una cerniera naturale tra l’Europa occidentale e il Vicino Oriente, rendendolo vulnerabile a conflitti e gravi periodi di crisi. Per tutto il periodo della Guerra fredda, la Grecia è stata l’argine sud-occidentale del blocco atlantico nella politica di contenimento dell’espansionismo sovietico. Durante gli anni Novanta, invece, ha giocato un ruolo di primo piano nello sforzo di stabilizzazione dei Balcani. Con l’inizio del Ventunesimo secolo, la centralità assunta dalla lotta internazionale al terrorismo e alle reti transnazionali della criminalità organizzata ha una volta di più evidenziato la rilevanza di uno stato come la Grecia, al confine tra mondo cristiano e mondo musulmano e posta a presidio di un territorio strategico anche per i traffici lungo le rotte mediterranee.
Benché la gravissima crisi economica degli ultimi anni abbia fatto temere una fuoriuscita dall’euro e nonostante il paese sia attraversato da forti istanze anti-europeiste, la Grecia è parte dell’Unione Europea. Ha partecipato al processo di integrazione europea sin dal 1981 con l’ingresso nella Comunità economica europea (Eec). La Grecia è membro della Nato dal 1952, salvo una breve fuoriuscita dalla struttura di comando integrata a seguito della crisi cipriota tra il 1974 e il 1980, ed è attiva sul piano della cooperazione regionale, in particolar modo attraverso l’Organizzazione per la cooperazione economica nel Mar Nero.
A livello bilaterale, le relazioni politiche più intense e spesso controverse sono quelle che la Grecia ha sviluppato con i paesi confinanti. Con la Macedonia, per esempio, esiste un’aspra e ventennale disputa legata alla legittimità dell’utilizzo da parte di Skopje del nome costituzionale di ‘Repubblica di Macedonia’: secondo Atene, l’adozione di questo nome implicherebbe rivendicazioni sui territori della Macedonia greca. Sulla questione la Grecia ha assunto posizioni che pesano sul piano multilaterale: Atene ha vincolato alla risoluzione condivisa della controversia il proprio assenso all’ingresso della Macedonia tanto nella Nato, quanto nell’Eu. Anche i rapporti con l’Albania sono caratterizzati da tensioni latenti, legate principalmente alle condizioni della minoranza greca stanziata nelle regioni meridionali del paese e alla presenza di numerosi immigrati irregolari albanesi in Grecia. È però con la Turchia che esistono i contenziosi più rilevanti e datati: dalla questione cipriota, sviluppatasi dal secondo dopoguerra, alla delimitazione delle acque territoriali nel Mar Egeo e degli spazi aerei, dalla demilitarizzazione delle isole sotto controllo greco in prossimità della costa turca sino al trattamento riservato da Ankara e Atene alle rispettive minoranze.
Anche la politica interna ha risentito della particolare collocazione geopolitica della penisola ellenica, specie durante gli anni della Guerra fredda, quando la contrapposizione bipolare e gli interessi del blocco occidentale, di cui la Grecia faceva parte, irrigidirono notevolmente il clima e le dinamiche politiche nazionali. La fine della Seconda guerra mondiale aveva coinciso con lo scoppio della guerra civile. Da una parte, la destra greca, posta al governo del paese alla fine dell’occupazione nazista e appoggiata da Stati Uniti e Regno Unito, dall’altra il partito comunista, che aveva guidato il movimento di resistenza ed era favorevole all’abolizione della monarchia. Durata tre anni, dal 1946 al 1949, la guerra civile greca si concluse con la sconfitta della sinistra e la sua marginalizzazione politica e sociale. Le tensioni e le divisioni tra i due schieramenti sarebbero tuttavia rimaste una costante nel panorama politico greco per tutta la seconda metà del Novecento, esacerbate peraltro dai sette anni della dittatura dei colonnelli, che dal 1967 al 1974 interruppe la vita democratica del paese. L’8 dicembre del 1974 un referendum popolare si pronunciò per l’abolizione della monarchia e il 7 giugno del 1975 fu adottata una nuova Costituzione che sanciva l’istituzione della repubblica parlamentare. Capo di stato è il presidente della Repubblica, che svolge prevalentemente funzioni di rappresentanza e cerimoniali. Il potere legislativo è invece esercitato da un parlamento monocamerale, composto da 300 membri. I deputati sono eletti per un mandato quadriennale con un sistema di tipo proporzionale, che prevede uno sbarramento del 3% e un premio di maggioranza di 40 seggi da assegnare al partito che ottiene più voti. Dalla ripresa della normalità democratica nel 1974, la politica interna greca ha ruotato principalmente attorno a due partiti e alla loro alternanza alla guida del paese: uno socialdemocratico, il Movimento socialista panellenico o Pasok, l’altro liberal-conservatore, la Nuova democrazia.
La grave crisi economica, ma anche politica e sociale, che la Grecia sta vivendo, sembra aver irrimediabilmente modificato questi equilibri. Nell’ottobre 2009 le elezioni sono state vinte dal Pasok guidato da George Papandreou, che ha ereditato il governo di un paese con un debito pari a 367 miliardi di euro, accumulatosi in decenni di spese pubbliche senza freni e bilanci ritoccati. Nel novembre 2011, al rientro dal vertice di Cannes del G20, Papandreou, costretto a scoprire le carte, rivelò che il paese si trovava a un passo dal default. Venne varato un governo tecnico di emergenza nazionale, affidato alle mani di Lucas Papademos, ex vicepresidente della Banca centrale europea (Ecb). A Papademos venne affidato il difficile compito di negoziare i prestiti con i maggiori organismi internazionali per salvare il paese. Alle elezioni parlamentari del maggio 2012, Nuova democrazia ha ottenuto la maggioranza relativa, non sufficiente per formare un governo. Il ritorno al voto, nel giugno dello stesso anno, ha affidato il governo del paese a una coalizione formata da Nuova democrazia, Pasok e Dimar, piccolo partito della Sinistra democratica, fuoriuscito dalla coalizione nel giugno 2013. Da un lato le condizioni critiche dell’economia greca, dall’altro lo stallo istituzionale nato a seguito della mancata elezione nel dicembre 2014 del nuovo presidente della Repubblica, hanno portato il paese a nuove elezioni anticipate che hanno visto la vittoria netta di Syriza, guidato dal giovane leader Alexis Tsipras. Non godendo per soli due seggi della maggioranza assoluta, Syriza ha dovuto allearsi con il partito dei Greci indipendenti (Anel), una formazione della destra nazionalista. Per quanto all’apparenza innaturale, la nuova coalizione di governo è rimasta unita dalla comune volontà di interrompere o quanto meno rivedere il piano di aiuti imposti dalla troika alla Grecia sin dal 2010.
Se l’obiettivo del governo conservatore guidato da Samaras era stato quello di varare riforme strutturali necessarie per migliorare le pessime finanze pubbliche e ottenere le tranches dei prestiti concessi dalla troika, il nuovo premier Tsipras, in discontinuità con il recente passato, aveva inizialmente improntato un’agenda politica volta a ridefinire in parte i precedenti accordi e le condizioni per l’erogazione dell’ultima tranche (2 miliardi di euro) del salvataggio da 240 miliardi che i paesi dell’Unione Europea e il Fondo monetario internazionale avevano erogato alla Grecia, Lo scontro con i creditori internazionali ha raggiunto il suo apice nel giugno 2015, quando il premier greco ha deciso di sottoporre a referendum popolare le misure proposte da troika, Commissione europea e Banca centrale europea per l’approvazione di un nuovo accordo. La chiara vittoria del ‘No’ al referendum, tenutosi il 5 luglio 2015, sembrava aver dato nuova forza al premier per continuare a negoziare le proprie posizioni a Bruxelles. Tuttavia il risultato della consultazione ha al contrario indurito la posizione dei creditori, e in particolare della Germania. Per la nuova tranche di finanziamenti sono state dunque richieste condizioni ancora più rigide di quanto inizialmente previsto.
Il pacchetto di riforme previste dal nuovo accordo tocca praticamente tutti i principali ambiti di politica economica del paese: dalla riforma dell’Iva a quella del sistema pensionistico, passando per quella dell’agenzia nazionale di statistica, del settore bancario e del sistema giudiziario e fiscale. Sebbene molte delle riforme incluse tra le richieste dei creditori potrebbero essere di per sé positive per l’economia, in un sistema già fortemente depresso l’impatto a breve termine rischia di rivelarsi controproducente, riducendo la domanda interna e minando la già debole ripresa economica. L’implementazione delle riforme potrebbe inoltre essere estremamente costosa dal punto di vista politico, rafforzando il crescente euroscetticismo nel paese. Le eccezionali misure di austerity e riduzione della spesa pubblica, assieme all’aumento della pressione fiscale, hanno infatti già messo a dura prova la stabilità finanziaria e sociale dei cittadini greci.
A seguito dell’ottenimento nell’agosto 2015 di un nuovo prestito dal valore di 86 miliardi di euro complessivi per i prossimi tre anni - a fronte di un piano di riforme estremamente rigoroso - alcuni membri del partito Syriza hanno abbandonato la coalizione di governo e fondato un nuovo partito, il Fronte di unità popolare (Le). Il premier Alexis Tsipras ha formalmente rassegnato le proprie dimissioni il 20 agosto e gli elettori greci sono nuovamente tornati alle urne nel settembre 2015, confermando al potere Syriza e Tsipras, con il 35,5% delle preferenze. Syriza ha confermato anche la coalizione di governo con i Greci indipendenti (Anel), assicurandosi in tal modo il controllo di 155 seggi sui 300 del parlamento greco. Il neonato Fronte di unità popolare non ha invece superato la soglia di sbarramento del 3%.
Alle ultime consultazioni elettorali il partito di estrema destra Alba dorata – costituito da Nikos Mihaloliakos nel 1980, poi registrato nel 1993 – si è confermata come terza forza politica del paese, dopo Syriza e Nuova Democrazia. Alba dorata ha conquistato 18 seggi, come avvenuto nelle elezioni del 2012, che ne avevano sancito l’ingresso in parlamento. Altro dato preoccupante delle ultime elezioni è stato il forte tasso di astensionismo (con una partecipazione pari al 56,5%).
La popolazione greca è composta da poco meno di 11 milioni di persone, di cui quasi 4 milioni vivono nell’area metropolitana comprendente la capitale, Atene. La crescita demografica è negativa (-0,6% nel 2014) e gli ultrasessantenni sono quasi un quinto del totale della popolazione. La Grecia è stata tradizionalmente un paese di emigrazione. Dopo la Seconda guerra mondiale numerosi greci si spostarono verso l’Europa nord-occidentale (600.000 in Germania dal 1955 al 1973), Stati Uniti, Canada e Australia. Dagli anni Ottanta, con il ritorno della democrazia e lo sviluppo economico, il paese ha registrato un’inversione di tendenza, attirando greci precedentemente emigrati nonché immigrati da paesi asiatici e africani. Negli anni Novanta, con il crollo dei sistemi comunisti, è cominciato il flusso migratorio dall’Europa dell’Est, in particolare dall’Albania. Oggi, a seguito dell’aggravarsi della crisi economica, si assiste nuovamente a un’inversione di tendenza: la popolazione greca e straniera ha ripreso nuovamente ad abbandonare il paese. Secondo i dati delle Nazioni Unite, se il numero di stranieri presenti in Grecia nel 2010 superava le 980.000 persone, solo tre anni più tardi, nel 2013, si era ridotto a poco più di 220.000. La precisione delle stime è tuttavia limitata dalla diffusione dell’immigrazione clandestina (proveniente prevalentemente da Siria, Afghanistan, Iraq, Egitto, Pakistan e Georgia), un fenomeno favorito dalle difficoltà di controllare i confini greci, a partire da quello orientale. Tutto ciò nel corso del 2015 ha innescato una vera e propria emergenza. Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Iom) la Grecia è stata il principale punto di approdo per i migranti verso gli stati dell’Unione Europea: nei primi dieci mesi del 2015, oltre 500.000 persone sono approdate sulle coste greche. La Grecia è inoltre un paese di destinazione e di transito di donne e bambini vittime del traffico di persone a fini di prostituzione e lavoro forzato, che provengono principalmente da Russia, Romania, Bulgaria, Ucraina, Moldavia e Albania.
La quasi totalità della popolazione (98%) è di religione cristiana ortodossa. Vi sono minoranze di musulmani (1,3%), ebrei, cattolici e protestanti. Il Trattato di Losanna del 1923 garantisce alla minoranza musulmana in Tracia il diritto di costituire associazioni (awqaf), il diritto all’istruzione in lingua turca e all’applicazione di alcuni princìpi di diritto islamico da parte dei mufti in materia di diritto di famiglia. Viceversa, gli altri gruppi religiosi non ricevono fondi e alcune minoranze etniche e religiose rischiano di essere socialmente discriminate. La Chiesa ortodossa, che tradizionalmente riceveva un sostegno economico dallo stato, con l’inasprirsi della crisi ha partecipato alla ricapitalizzazione della Banca nazionale e dal 2010 versa nelle casse dello stato una serie di contributi: è stata cioè equiparata alle altre persone giuridiche che pagano imposte.
L’istruzione è gratuita e obbligatoria dai 6 ai 15 anni. Gli ultimi tre anni di scuola secondaria sono di fatto visti come la preparazione agli esami di ammissione all’università e ciò, vista la difficoltà a essere ammessi negli atenei, ha sempre imposto uno standard elevato. L’università, gratuita, è accessibile solo a chi supera gli esami, che vengono gestiti da un comitato nazionale. Ciò spinge un elevato numero di studenti greci delle classi più agiate ad affrontare gli studi all’estero. Esistono anche alcuni istituti privati, ma i titoli rilasciati non sono riconosciuti ai fini di un impiego pubblico. La corruzione è stata e resta un grave problema per il paese, anche se la posizione della Grecia nell’indice 2014 di Transparency International, al 69° posto su 175 paesi, fa registrare notevoli passi avanti rispetto ai piazzamenti degli anni precedenti (80° nel 2013 e 94° nel 2012).
I dati macroeconomici della Grecia restituiscono l’immagine di un paese non soltanto in crisi economica, ma anche con caratteristiche strutturali che rendono l’uscita da tale crisi un processo difficile. La Grecia ha un pil pro capite piuttosto basso, pari ad appena 25.762 dollari misurato in parità di potere d’acquisto del 2015. A ciò si aggiunge un tasso di disoccupazione del 27,3% (dati 2013, Banca mondiale), che sale al 58,4% tra i giovani. Gravissimo è poi il rapporto debito/pil, pari al 196,9%. Anche la bilancia commerciale del paese è in sofferenza e registra un deficit commerciale negativo che nel 2014 è stato pari a 26.425 milioni di dollari.
Nonostante dagli anni Novanta sia in atto un programma di privatizzazioni, lo stato svolge ancora un ruolo significativo nell’economia nazionale, il sommerso ha dimensioni vaste e l’industria, che conta per il 13,3% del pil, non sembra strutturalmente in grado trainare il paese fuori dalla crisi.
La Grecia produce prevalentemente cemento, alluminio, olio d’oliva, birra, tabacco, petrolio raffinato e ha un settore delle telecomunicazioni sviluppato. La produzione tessile, al pari di quanto accade in altri paesi occidentali, è in declino, penalizzata dalla concorrenza di paesi con manodopera a bassissimo costo come quelli asiatici e quelli dell’Europa dell’Est. Il settore dei servizi contribuisce invece positivamente all’82,8% del pil ed è dominato dal turismo. Nel 2013 il settore ha contribuito per oltre 28 miliardi di euro al pil nazionale (circa il 16,3% del totale), dando lavoro a quasi 320.000 persone, ovvero l’8,9% della popolazione occupata.
Dopo una crescita media del 4,6% annuo tra il 2000 e il 2008, a partire dal 2009 il paese è entrato in una gravissima recessione economica (-8,9% di crescita del pil nel 2011). Atene ha evitato la bancarotta solo grazie a successive tranche di prestiti da 110, 130 e 30 miliardi, concessi dalla cosiddetta troika, in cambio di una politica di austerity. L’ultimo piano di salvataggio, concordato tra Grecia e creditori ad agosto 2015, prevede un finanziamento da 86 miliardi di euro in tre anni. In una riedizione, più drammatica, di quanto già accaduto nel 2012, la Germania ha acconsentito all’impopolare erogazione del prestito solo dopo l’impegno greco ad adottare misure drastiche per la riduzione del debito. Il dibattito verteva su due opzioni: salvare la Grecia anche se non aveva rispettato il patto di stabilità, o lasciare che arrivasse a un default dalle conseguenze ignote per tutta la regione, anche in considerazione del fatto che il debito sovrano greco è detenuto in larga misura da banche francesi e tedesche. Tuttavia le condizioni a cui il prestito è stato concesso sono talmente dure da lasciar dubitare molti analisti della loro applicabilità. Secondo il settimanale The Economist la Grecia potrebbe uscire dall’euro nei prossimi cinque anni.
Tra le principali cause del dissesto finanziario, oltre alla corruzione e ai conti pubblici che sono stati di fatto truccati per anni, vi è stata l’enorme crescita del debito nel primo decennio del Ventunesimo secolo. Benché la Grecia sia entrata nell’eurozona dal gennaio 2002 dichiarando di rispettare i parametri di Maastricht sul debito (rapporto debito/pil al 60%) e sul deficit (rapporto deficit/pil al 3%), una successiva revisione operata da Eurostat ha dimostrato come i dati dichiarati non corrispondessero a quelli effettivi. Conseguenza dello stato di crisi in cui versa il paese era stata nel giugno 2013 la decisione di chiudere la televisione di stato, la Ert. Alla chiusura si erano opposti con forza i dipendenti, che avevano inizialmente occupato la sede per poi riorganizzarsi attraverso un canale di informazione alternativo e autofinanziato online (ertopen.com). Dopo circa due anni di chiusura, l’11 giugno 2015 la Ert ha ripreso le proprie trasmissioni regolarmente, dopo l’approvazione in parlamento della sua riapertura.
Il fabbisogno energetico greco pesa sui conti, poiché la Grecia è costretta a importare oltre il 75% dell’energia che consuma. La produzione nazionale di petrolio non è significativa e per questo la maggior parte del greggio è importata, soprattutto dalla Russia, per circa il 38%. Storicamente la Grecia ha cercato di sostituire il petrolio con la lignite, per sfruttare i propri giacimenti e ridurre la dipendenza dalle importazioni. Tuttavia tale politica è limitata dagli impegni a favore della riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, per il raggiungimento dei quali il governo ha favorito l’utilizzo del gas. Anche quest’ultimo viene in gran parte importato: mentre negli anni Novanta proveniva quasi esclusivamente dalla Russia (ancora oggi comunque il principale fornitore), per effetto di una politica di diversificazione, arriva ora anche da Algeria e Azerbaigian.
La Grecia destina il 2,2% del proprio pil alla spesa militare: una percentuale rilevante, tendenzialmente costante negli anni, emblematica del fatto che Atene continui a considerare prioritario il mantenimento di ingenti forze militari, specie in relazione alle tensioni con la Turchia. Storici interessi nell’area mediorientale hanno spesso spinto Atene a occuparsi del conflitto israelo-palestinese, rispetto al quale la Grecia ha tenuto una posizione filo-palestinese. Tale simpatia non ha tuttavia impedito che, a partire dalla fine degli anni Novanta, la Grecia avviasse con Israele un’intensa attività di cooperazione militare e una comune lotta antiterroristica. Alleato storico della Grecia sono gli Stati Uniti. Primi fornitori di armi della difesa greca, gli Usa intrattengono con Atene una consolidata partnership militare, che si è rinnovata in occasione della lotta al terrorismo internazionale. Il governo greco aveva risposto con un appoggio significativo all’operazione Enduring Freedom, lanciata dall’amministrazione Bush all’indomani degli attentati al World Trade Center del settembre 2001: lo spazio aereo venne messo a disposizione della campagna, venne fornito supporto logistico alle attività militari e vennero portate avanti importanti operazioni controterroristiche. I rapporti con la Nato sono tornati alla normalità da quando la Grecia ha deciso di rientrare nell’organizzazione, nel 1980. Atene si era ritirata dalla struttura militare integrata nell’agosto del 1974, per protestare contro le mancate reazioni all’occupazione turca del nord di Cipro. Soldati greci sono dispiegati in due tra le principali operazioni militari della Nato, in Kosovo e Afghanistan, oltre a un migliaio permanentemente dislocato a Cipro.
Il controllo dei traffici, delle rotte commerciali e dei flussi migratori che attraversano il Mediterraneo, la cooperazione economica e di sicurezza tra i paesi che vi si affacciano e, ancora, la stabilizzazione politica di instabili regioni vicine (Balcani e Medio Oriente) sono alcune istanze internazionali che vedono la Grecia particolarmente coinvolta. In ciascuno di questi ambiti, il paese partecipa a importanti iniziative multilaterali messe in atto dai governi occidentali negli ultimi due decenni per la stabilizzazione politico-strategica dell’Europa sud-orientale. Tra queste ultime spiccano l’Unione per il Mediterraneo (Um), il Dialogo mediterraneo della Nato o il Processo di cooperazione dell’Europa sudorientale (Seecp).
Esistono anche potenziali minacce interne alla sicurezza nazionale, legate all’attività terroristica di matrice marxista e anarchica e alle frange di estrema destra, legate al partito Alba dorata. Nell’estate del 2002 alcune operazioni anti-terrorismo hanno condotto all’arresto di numerosi esponenti del gruppo terroristico ‘17 novembre’. Negli ultimi anni si è assistito a un ritorno degli attentati da parte di gruppi antimperialisti, a cui si sono aggiunte le azioni violente dell’estrema destra. In concomitanza con le proteste sociali legate ai tagli alla spesa pubblica previsti dal governo, dal 2010 si stanno verificando scontri di piazza e attentati, con esplosioni di bombe in aree sensibili di Atene.
Atene considera storicamente la Turchia come la principale minaccia alla sicurezza nazionale. Il reciproco sospetto e l’antagonismo culturale e politico possono ritenersi elementi fondanti del processo di creazione tanto delle rispettive identità nazionali, quanto dei relativi stati moderni. Fasi di conflitto aperto alternate a fasi di riconciliazione hanno così caratterizzato le relazioni tra i due paesi, fin da quando la Grecia si rese indipendente, nel 1829, dall’Impero ottomano. Da allora, infatti, è possibile contare ben quattro guerre (due Guerre greco-turche, nel 1887 e 1919-22, la Guerra balcanica del 1912 e la Prima guerra mondiale) e un discreto numero di crisi politiche, spesso arrivate alla soglia dello scontro armato.
I principali motivi di disaccordo, che rimangono quasi del tutto immutati anche oggi, si basano sia su motivi culturali, legati in primis alla differenza religiosa tra le due popolazioni, sia su un dualismo storico tradottosi negli anni nell’incapacità di risolvere le dispute bilaterali o raggiungere accordi su tipiche questioni di vicinato: demarcazione territoriale, controllo dei confini comuni, diritti di sfruttamento economico di zone a sovranità contestata o, ancora, il trattamento delle rispettive minoranze.
Proprio i problemi legati alla difficile convivenza interna tra le due popolazioni, e le rispettive minoranze etniche ospitate, sono state spesso la scintilla per l’accendersi di momenti di alta tensione politica: le condizioni della popolazione greca a Istanbul e il riconoscimento della Chiesa ortodossa di Costantinopoli, da un lato, e quelle delle minoranze musulmane, primariamente turche, che abitano la parte occidentale della Tracia, dall’altro. Lo strappo più rilevante, ancora oggi molto sentito dalle opinioni pubbliche nazionali greca e turca, riguarda la crisi di Cipro del luglio 1974 e la conseguente divisione politica e amministrativa dell’isola in due entità etnicamente omogenee, quella greca a sud e quella turca a nord. Grecia e Turchia sono inoltre arrivate alle soglie del conflitto armato diverse altre volte, anche in anni più recenti. Nel 1987, si sfiorò la guerra in occasione del cosiddetto ‘incidente di Sismik’, dal nome della nave turca che era in procinto di sconfinare nelle acque greche per effettuare esplorazioni petrolifere. Nel 1996 si verificarono forti tensioni in relazione alla disputa sulla sovranità della minuscola isoletta dell’Egeo Imia/Kardak. Su questo sfondo, la fine degli anni Novanta ha segnato l’avvio di una nuova fase di distensione politica, inaugurata dalla cosiddetta ‘diplomazia dei terremoti’: una fase di intesa politica innescatasi sulla scorta delle reazioni di reciproca solidarietà verificatesi a seguito dei sismi che colpirono i due paesi nel 1999. Sempre nel 1999, inoltre, la decisione greca di non porre il veto all’ingresso della Turchia nell’Eu spianò la strada, in occasione del Consiglio europeo di Helsinki, alla concessione ad Ankara dello status di candidato alla membership europea. Il primo anno e mezzo di governo Papandreu - già protagonista da ministro degli esteri greco (1999-2004) degli anni dell’intenso dialogo con il suo omologo turco Ismail Cem Ipekçi - ha segnato un ulteriore rafforzamento di questa nuova fase di rapporti bilaterali, proseguita fino a oggi.
L’ondata straordinaria di rifugiati registrata nel 2015 ha sottolineato tuttavia una persistente diffidenza tra i due paesi: la cooperazione tra Grecia e Turchia nella gestione dei flussi di migranti tra le coste dei due paesi è stata infatti molto limitata, tanto da richiedere l’invito da parte di Bruxelles a una gestione maggiormente coordinata dell’emergenza. Se la Turchia sembra aver risposto positivamente, la Grecia ha espresso finora titubanza, per paura che Ankara possa estendere, con l’occasione, la propria influenza nel mar Egeo.
Durante il 2015 la Grecia si è trovata di fronte a una crisi senza precedenti a causa dell’arrivo di centinaia di migliaia di migranti, spesso in fuga da guerra e conflitti. Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Iom), nei primi nove mesi del 2015 ben 441.527 persone sono arrivate nel paese: la grande maggioranza proveniente da Siria (175.375) e Afghanistan (50.177) e in misura minore da Pakistan, Albania e Iraq. Nel primo trimestre del 2015, secondo i dati Eurostat, 2610 migranti hanno fatto richiesta di asilo in Grecia: un dato superiore del 23% rispetto a quello dello stesso periodo nel 2014.
Nel 2015 la Grecia è stata dunque il principale punto di approdo per i migranti verso gli stati dell’Unione Europea (Eu): la maggior parte delle persone arrivate ha cercato di proseguire il proprio viaggio verso gli stati nord europei, in particolare verso la Germania, alla ricerca di nuove possibilità di lavoro e di vita. La Grecia ha rappresentato spesso il punto di partenza di quella che è stata definita la rotta balcanica, ovvero il percorso che dalle propaggini elleniche, attraverso Ungheria, Serbia, Croazia e Austria porta i migranti alle porte della Germania o ancora più a nord verso i paesi scandinavi.
Seppur considerato soprattutto un paese di transito, la Grecia, già provata da cinque anni di crisi economica, si è trovata di fronte alla difficile gestione degli sbarchi e delle successive fasi dell’accoglienza. Le spese per la gestione della crisi hanno ulteriormente rafforzato la solidarietà tra Grecia e Italia nella richiesta di una risposta maggiormente coordinata a livello europeo e la definizione di una politica di asilo comunitaria.
Nel settembre 2015 è stato dato il via libera definitivo allo schema di redistribuzione di circa 120.000 rifugiati da Grecia, Italia e Ungheria, attraverso un sistema di quote obbligatorie per gli stati membri dell’Unione Europea. Una decisione che ha sollevato feroci critiche da parte di diversi stati dell’Europa orientale. Di fronte alla rapida impennata delle richieste di asilo ricevute, la Germania ha inoltre dichiarato l’intenzione di fornire aiuti finanziari alla Grecia nella gestione della crisi.
Approfondimento
Ancor prima dell’introduzione dell’euro non erano mancate voci critiche, anche da economisti di primo piano, che rimarcavano come i paesi della futura Eurozona non rappresentassero una ‘area monetaria ottimale’. Eppure fino allo scoppio della crisi economica la scommessa dell’euro sembrava vinta, a partire dai paesi ‘periferici’ dell’Eurozona. Questi paesi avevano infatti potuto godere di bassi tassi di interesse che non riflettevano pienamente il loro quadro economico e che avevano reso meno urgenti interventi tesi a migliorare la loro competitività e a ridurre il loro crescente indebitamento. Parallelamente i paesi più forti dell’Eurozona avevano trovato nei paesi periferici della zona euro una irripetibile occasione per ottenere rendimenti più alti per i loro investimenti (da qui ad esempio l’alta esposizione delle banche tedesche e francesi verso Atene). Una apparente win-win situation le cui fragilità sono state portate allo scoperto dalla crisi. Il caso greco è decisamente emblematico perché mostra con chiarezza non tanto la fragilità dell’euro in sé, quanto piuttosto dei suoi meccanismi di governance. In altri termini sono emerse le ampie lacune legate ad un mancato coordinamento delle politiche economiche, non solo quelle legate ai bilanci nazionali, che hanno permesso a paesi come la Grecia di comportarsi da free rider arrivando addirittura a falsificare i propri conti nazionali, e a paesi più forti, come la Germania, di perseguire politiche di crescita sbilanciate e guidate da interessi troppo ‘nazionali’. Eppure si farebbe un errore se non si riconoscesse che negli ultimi anni tanto è stato fatto per cercare di mettere mano a questi difetti, soprattutto in termini di maggior coordinamento delle politiche di bilancio degli stati e per impedire che la crisi dei debiti sovrani si traduca di nuovo in futuro in una crisi del sistema bancario. Il rafforzamento del semestre europeo e l’unione bancaria sono misure che solo alcuni anni fa sarebbero sembrate impensabili, anche solo da proporre. Eppure non sono sufficienti. Non lo sono, ad esempio, quando si tratta di affrontare il nodo cruciale della bassa convergenza economica tra i paesi dell’Eurozona. La ‘Macroeconomic Imbalance Procedure’ che avrebbe dovuto allargare il controllo all’intero spettro – o quasi – delle politiche economiche appare del tutto inadeguata. A completamento del quadro va aggiunta la mancanza di un meccanismo di trasferimento all’interno dell’Eurozona che permetta di spostare risorse da un paese ad un altro soprattutto in caso di shock asimmetrici (come avviene negli Stati Uniti con i fondi federali).
In altri termini, sono mancati meccanismi di governo ‘semi-federale’ con la conseguenza che la soluzione del caso greco è stata lasciata alla continua ricerca di un compromesso tanto difficile quanto sbilanciato tra i paesi del nord sostenitori dell’austerity e quelli del sud orientati alla flessibilità. Questo complesso esercizio di negoziazione permanente ha portato fino al terzo pacchetto di aiuti alla Grecia nell’estate del 2015, che ha sì evitato la spaccatura dell’euro ma al costo di una ricetta in cui l’austerity è stato l’ingrediente principale, se non addirittura l’unico. In queste condizioni il rischio che per i greci il piatto torni ad essere presto indigesto è più che concreto.
Condannare un paese ad un avanzo primario - la differenza tra le entrate e le uscite dello stato al netto degli interessi - positivo per oltre 20 anni, non solo non ha pari nella storia ma è anche palesemente insostenibile da un punto di vista politico. Quale governo potrà rimanere in carica se condannato a queste dure condizioni?
La questione greca è quindi solo momentaneamente ‘congelata’ e il rischio che riesploda in futuro è concreto. Per evitare che questo avvenga non si può e non si deve lasciare l’onere solo sulle spalle dei greci e contare, magari in occasione di una futura tornata elettorale, sulla loro buona volontà supportata dalla minaccia - non tanto velata - dell’uscita dall’euro.
L’Europa ha oggi bisogno di nuova progettualità politica, di coraggio e visione non per cancellare ma per completare il grande disegno della moneta unica.
di Antonio Villafranca