Gregorio XII
Angelo Correr, appartenente al patriziato veneziano, figlio di Niccolò di Pietro e di una Polissena di cui non si conosce la famiglia, si ritiene solitamente nato verso il 1335 in Venezia. Alla data di nascita si risale in via induttiva per il fatto che, quando fu eletto papa nel 1406, sulla base del suo aspetto fisico si disse che aveva settant'anni ed oltre, ma è condivisibile la proposta di posticipare la nascita fin verso il 1345. In ogni caso la prima data sicura di cui disponiamo è quella del 23 marzo 1377, quando il Consiglio dei Pregadi, ossia il Senato veneziano, lo raccomandò a papa Gregorio XI perché gli affidasse il decanato della chiesa di Corone allora vacante, decanato mantenuto poi fino al 1390, ben oltre il momento della nomina a vescovo. Indicato in quell'occasione come "sacre pagine professor", i suoi studi si erano svolti presso la facoltà teologica dell'Università di Bologna, sulla cui matricola figura come "magister Angelus de Venetiis, secularis, papa Gregorius XII". Verso la fine del 1379 o (più probabilmente) l'inizio del 1380 era eletto vescovo della diocesi veneziana di Castello, ricevendone le congratulazioni da parte di Caterina da Siena.
Nella nomina un ruolo decisivo va riconosciuto alle autorità della Repubblica, dal momento che, salvo qualche speciale privilegio per diocesi di Terraferma, nel Dominio veneziano i vescovi (ma anche il patriarca di Grado, abati e badesse) venivano indicati dal Senato, col sistema detto delle "probae", tra i diversi candidati e approvati poi dal papa. La carriera ecclesiastica del Correr sarebbe stata molto rapida e, nei tormentati anni del grande scisma d'Occidente, avrebbe avuto come costante riferimento l'obbedienza al papato romano.
Quale vescovo di Castello era in posizione giusta per entrare in rapporto diretto con la Curia papale e in particolare con Urbano VI, che nel 1387 gli riconobbe l'importante funzione di collettore dei tributi ecclesiastici che venivano versati "in Veneciis et nonnullis aliis partibus"; diventava così il responsabile della trasmissione alla Curia romana e alla Camera apostolica di quanto riscosso in un'ampia serie di diocesi e province ecclesiastiche che andavano da Verona e Vicenza al patriarcato di Grado, fino all'Istria, alla Dalmazia e all'Albania settentrionale. Dopo che già nel 1389 la Repubblica di Venezia era intervenuta su Roma per la copertura del patriarcato latino di Costantinopoli, da tempo vacante, nel 1390 il Correr ne riceveva la titolarità da Bonifacio IX e nel 1395 otteneva anche l'amministrazione della diocesi di Corone, importante centro del Dominio da Mar veneziano. La rapida carriera ecclesiastica corrispondeva in questo caso a un robusto consolidamento delle entrate del Correr, dal momento che mentre i proventi dell'episcopato di Castello erano stimati circa 1.800 o 1.950 fiorini di Camera papale, il patriarcato costantinopolitano ne valeva 3.450, a cui si aggiungevano poi i 1.950 di pertinenza della diocesi di Corone. La posizione del Correr si faceva con rapidità sempre più solida, ed egli non sembra essersi mai veramente spostato dall'Italia nonostante le responsabilità su diocesi e province lontane: Costantinopoli, Corone, ma anche una delle "gemme" del dominio veneziano, l'Eubea con l'episcopato di Negroponte, sottoposto alla giurisdizione del patriarcato latino di Costantinopoli. Dopo alcune presenze in Curia, attestate nel 1389-1390 e nel 1393, il Correr lasciava Venezia nel 1397, quando lo troviamo a Roma, in stretto rapporto con la Curia papale e molto vicino ai cardinali Antonio Caetani e Cosmato dei Megliorati di Sulmona, il quale alla morte di Bonifacio IX, nel 1404, sarebbe stato eletto papa col nome di Innocenzo VII. Fra gli incarichi affidati al Correr in quegli anni si può ricordare la sua andata a Napoli nel 1399 come nunzio e soprattutto la designazione a rettore delle Marche il 4 aprile 1405, immediata premessa alla nomina a cardinale prete del titolo di S. Marco nel successivo 12 giugno.
Alla carriera ecclesiastica del Correr aveva sicuramente contribuito il sostegno dello Stato veneziano, nel cui ambito la sua famiglia aveva in quegli anni un peso di notevole rilievo, destinato peraltro a crescere proprio grazie alla parentela con l'illustre prelato. È privo di credibilità quanto sostenuto dal Liber pontificalis a proposito di un'avversione nei suoi confronti da parte del governo veneziano che avrebbe addirittura tentato di privarlo del vescovado di Castello. In realtà si deve pensare ad un equivoco scambio di persone e l'ostilità di cui si parla va piuttosto riferita a quel Leonardo Dolfin che sulla cattedra castellana era salito soltanto nel 1392 e che, effettivamente, aveva avuto ragioni di scontro con la Repubblica essendosi rifiutato di ricevere dal doge in S. Marco l'investitura dei beni temporali, venendo perciò escluso, nel 1401, dal vescovado. In realtà il Correr poté sempre contare sul sostegno di Venezia, almeno sino al momento della sua elezione a pontefice e nel periodo immediatamente successivo, quando finiva per essere coinvolto al massimo grado possibile nei conflitti legati allo scisma che turbava la Chiesa romana dal 1378.
Il titolo papale sarebbe giunto nel 1406. Morto Innocenzo VII e apertosi il conclave la sera del 18 novembre in Roma, il 30 novembre il Correr veniva eletto all'unanimità su proposta del cardinale Caetani e saliva al soglio pontificio col nome di Gregorio XII. Si confermava così la divisione della cattolicità nelle due obbedienze romana e avignonese. Da parte sua il diretto antagonista, Benedetto XIII, ossia l'aragonese Pedro de Luna, eletto già nel 1394, aveva cercato di ottenere che non si procedesse per il momento ad una nuova designazione, ma senza esito. Nondimeno, da parte di tutti i quattordici cardinali riuniti a Roma c'era stato l'impegno all'abbandono del papato, in caso di nomina, se ciò fosse servito per porre termine allo scisma, a condizione che anche Benedetto XIII avesse fatto lo stesso e con la previsione che i due distinti Collegi cardinalizi si dovessero ritrovare per un'elezione concordata. Appena eletto G. aveva confermato l'impegno assunto e annunciò poi la disponibilità ad abdicare con lettere a sovrani, Comuni, università e prelati, oltre che in occasione del suo primo Concistoro pubblico. A Benedetto XIII scrisse direttamente in vista del ritorno all'unità, ricevendo una risposta tanto rispettosa e possibilista da far pensare all'esistenza di precedenti contatti.
Alla nomina di G. agli occhi dei contemporanei avevano certamente contribuito la devozione sincera, le conoscenze scritturali, la preoccupazione mostrata in passato per il superamento dello scisma e una condotta di vita di tutto rispetto, doti che dovevano compensare certe rigidità e indecisioni caratteriali, modeste conoscenze di carattere giuridico e una dubbia abilità nella gestione dei rapporti politici: tutti elementi di non piccolo peso data la gravità del momento, e qualche giudizio particolarmente negativo da parte di suoi contemporanei che lo indicavano come una testa dura, piuttosto ottuso, non doveva essere dettato soltanto da logiche di schieramento. In ogni caso, al di là degli oggettivi meriti o limiti, l'anagrafe gli fu d'aiuto. Il fatto che apparisse "vecchio decrepito", quasi "habens unum pedem in fovea", doveva essere rassicurante per un Collegio cardinalizio che cercava qualcuno disposto appena possibile a cedere il passo nell'interesse superiore dell'unità della Chiesa. Se l'anziano prescelto avesse avuto incertezze o ripensamenti, la natura, facendo il suo corso, avrebbe contribuito a risolvere eventuali problemi.
Quando l'incoronazione ebbe luogo, il 19 dicembre 1406, nell'obbedienza romana si riconoscevano l'Impero (con alcune dissidenze locali), la Scandinavia, l'Inghilterra, l'Ungheria, la Polonia, la Boemia e la maggior parte dell'Italia, comprese Venezia, Firenze e soprattutto il Regno di Napoli, dove Ladislao d'Angiò-Durazzo temeva le pretese di Luigi II d'Angiò che, re titolare di Sicilia sostenuto dal cugino Carlo VI di Francia, nelle sue pretese sul Meridione d'Italia avrebbe avuto tutto da guadagnare da ogni crescita dell'influenza francese nella penisola.
La notizia dell'elezione di G. aveva sollevato grande entusiasmo in Venezia, che vedeva per la prima volta un suo cittadino salire al soglio papale. Il Maggior Consiglio il 19 dicembre si proponeva l'invio di una legazione di sei ambasciatori (invece dei quattro che normalmente andavano a rendere omaggio ai papi neoeletti), ma la maggioranza consiliare ne pretese addirittura otto. Il 24 dicembre il doge Michele Sten, al quale G. aveva scritto già il giorno successivo all'elezione dichiarando il suo affetto per la città natale e augurandosi di esserne corrisposto, inviava una lettera che, oltre ad esprimere la soddisfazione veneziana, prometteva ogni sostegno al papa e alla Chiesa. In realtà G. faticò poi a trovare in patria tutto il supporto su cui evidentemente contava e in molte occasioni venne a mancargli proprio il patronato politico che una potenza di rilievo internazionale qual era allora Venezia avrebbe potuto garantire, con coperture delle quali i suoi antagonisti riuscirono in più occasioni a disporre meglio. Già le discussioni veneziane sull'ambasceria da inviargli possono essere un buon indice di cautele che nel corso del tempo avrebbero virato verso l'ostilità. Chi conduceva il gioco in Maggior Consiglio, nel dicembre 1406, proponendo sei ambasciatori pensò a qualcosa di fuori dall'ordinario, ma tutto sommato con un senso della misura maggiore rispetto a quanti, sull'onda dell'entusiasmo diffuso, imposero una legazione di otto ambasciatori. In quel clima di euforica soddisfazione poteva persino accadere che G., in previsione dei favori ai propri parenti, facesse pressioni sulla Repubblica perché annullasse la norma che impediva ai suoi patrizi di ricevere incarichi o doni da papi e principi. Ma l'entusiasmo avrebbe presto ceduto il passo all'usuale cautela e poi alla preoccupazione. Un papa veneziano rischiava di essere ingombrante, cosa pericolosa per i ben calibrati equilibri sui quali si fondava la Repubblica. I timori e i sospetti che guidavano i comportamenti pubblici si sarebbero del resto concretizzati in legge il 31 luglio 1411, quando, nel pieno del contrasto tra G., il vecchio Benedetto XIII e Giovanni XXIII, il Consiglio dei Dieci, richiamandosi alla tradizione istituzionale veneziana, ordinava che qualora fossero in discussione questioni che potevano riferirsi al papa o a persone con vincoli di obbedienza o con problemi di disobbedienza nei suoi confronti, dovessero uscire dai Consigli (anzitutto Maggior Consiglio, Dieci e Senato) tutti coloro che erano direttamente imparentati con persone che avevano ricevuto prelature o benefici o che ne stessero attendendo. Al di là delle lettere dogali di congratulazioni e delle impegnative ambascerie, Venezia avrebbe mostrato presto la sua indubbia prudenza nei confronti del concittadino.
Dopo l'elezione del 1406, sulla scorta degli impegni assunti, una legazione inviata da G. a Benedetto XIII era giunta ad un accordo, firmato a Marsiglia il 21 aprile 1407, che doveva gettare le basi per il superamento dello scisma. I due papi dovevano trovarsi a Savona entro il 29 settembre o al più tardi il 1° novembre di quello stesso 1407, con un ben bilanciato séguito, per trattare della rinuncia bilaterale al titolo. L'accordo sollevò molte speranze, anche se non avrebbe portato ad esiti concreti. G. dovette fare subito i conti con la logica degli schieramenti internazionali e degli interessi dei singoli. Il fatto che Savona fosse sotto il dominio francese e in terra di obbedienza avignonese preoccupava gli avversari del re di Francia: l'Ungheria, la stessa Venezia, soprattutto Ladislao di Napoli. Da parte loro i parenti e tutti i beneficiati di G. temevano conseguenze sfavorevoli rispetto a quanto stavano ottenendo. Le oscillazioni e i dubbi cominciarono a pesare in misura crescente nelle scelte di G.; si aggiungevano difficoltà oggettive nell'organizzazione del viaggio. L'ampio séguito previsto e le truppe di scorta richiedevano capitali difficili da trovare, ma erano soprattutto le modalità del trasferimento verso Savona a creare difficoltà. Escluso come impraticabile un trasferimento via terra, occorreva disporre di almeno cinque o sei (o meglio ancora otto) galee che G., rifiutando ogni altra offerta, si attendeva da Venezia, dove però non c'era davvero intenzione di concederle. Si sarebbe dovuto navigare nelle acque liguri controllate dai tradizionali nemici genovesi. Per di più Genova (e dunque la collegata Savona) si era sottomessa al re di Francia e in città come governatore si trovava il duro e irruente Boucicaut, ossia il maresciallo reale Jean le Meingre, che con Venezia aveva un conto aperto da quando nell'autunno del 1403, al ritorno dal Levante, la sua flotta era stata sconfitta da quella veneziana al largo di Modone. In sostanza, le reiterate richieste di navi a Venezia ottennero soltanto buone parole che, se avessero potuto valere come galee, avrebbero portato G. a Savona assai presto!
Nonostante incertezze e ostacoli, alla fine le pressioni dei fautori del dialogo convinsero G. a lasciare Roma il 9 agosto del 1407, insieme alla Curia e al Sacro Collegio. Si recò prima a Viterbo quindi a Siena, dove si trattenne fino al 22 gennaio del successivo 1408, trasferendosi poi a Lucca. Venuto meno l'incontro di Savona, dove Benedetto XIII era giunto fin dal 24 settembre, G. già nell'estate 1407 aveva avviato trattative per concordare un nuovo luogo di riunione, senza che però si trovasse alcun accordo, tra la crescente delusione di quanti al momento dell'elezione di G. avevano sperato che si potesse giungere presto a ritrovare l'unità della Chiesa. Venne ipotizzato persino un incontro a distanza, con i due papi che avrebbero dovuto stare rispettivamente nella ligure Sarzana (di obbedienza avignonese) e a Pietrasanta, sotto controllo lucchese; poi si parlò di Avenza e di Carrara, località entrambe sotto il dominio di Lucca, il cui signore, Paolo Guinigi, si muoveva con estrema abilità senza troppo esporsi e mostrando per entrambe le obbedienze un rispetto ai limiti dell'ambiguo. Le due Curie finirono per trovarsi vicinissime, con G. a Lucca e Benedetto XIII trasferitosi a Portovenere. Ma non si arrivava ad alcun esito, soprattutto per la rigidità di Gregorio XII. In realtà il desiderio di risolvere davvero la questione facendo un passo indietro era minimo da entrambe le parti, ma Benedetto XIII seppe muoversi assai meglio, dando sempre l'impressione che fosse il suo antagonista il vero ostacolo all'accordo. Mediazioni e ambascerie tentarono inutilmente di spingere verso un'intesa. Anche Venezia dovette impegnarsi in tal senso, messa sotto accusa davanti agli occhi della cristianità, "infamada per tuto el mondo", dal fatto che G. giustificava il mancato appuntamento a Savona con l'indisponibilità delle galee che tutti sapevano avere richiesto proprio alla patria dopo avere rifiutato quelle offerte dalla Francia e da Boucicaut. La stanchezza generale per uno scisma che appariva sempre più privo di sbocchi comunque cresceva e fra i cardinali tanto di osservanza romana quanto avignonese i rapporti si sarebbero fatti sempre più intensi. Nel frattempo la posizione di Benedetto XIII in Francia si era fortemente indebolita con l'assassinio di uno tra i suoi principali sostenitori, il duca di Orléans (il 23 novembre 1407), per di più sostituito nelle funzioni di governo dal duca di Borgogna che gli era ostile. L'atteggiamento francese stava mutando e il Consiglio reale giunse a porre un termine ultimativo; con un'ordinanza di Carlo VI del 12 gennaio 1408 si minacciava la neutralità della Francia se entro il 24 maggio, giorno dell'Ascensione, i due papi non avessero risolto il problema dell'unità della Chiesa, minaccia puntualmente attuata. Si apriva una nuova pagina nel conflitto che lacerava la cristianità. Benedetto XIII, che poteva ancora contare sull'appoggio del re Martino I d'Aragona, abbandonava Portovenere dopo avere convocato un concilio a Perpignano e là si trasferiva giungendovi a fine luglio, essendo però stato abbandonato dalla maggior parte dei suoi cardinali. Per G. la situazione non era migliore; l'insoddisfazione nei suoi confronti giunse al punto di rottura quando il 9 maggio 1408, mentre si trovava ancora a Lucca, per rafforzare la sua posizione volle creare quattro nuovi cardinali scelti fra le persone a lui più vicine, contravvenendo con ciò pure all'impegno di non procedere a nuove nomine che potevano rendere più complesso il cammino verso l'unità. La reazione del Sacro Collegio di obbedienza romana fu immediata e l'11 maggio la maggioranza dei suoi cardinali abbandonò G. ritirandosi a Pisa.
Tra gli eletti del 9 maggio vi erano anche due nipoti di G.: Antonio Correr e Gabriele Condulmer (divenuto poi papa nel 1431 col nome di Eugenio IV). Fin dai primi giorni del suo pontificato G. aveva fatto venire al suo fianco collaboratori veneziani e parenti diretti. Antonio Correr, figlio del fratello Filippo, ricevette il salvacondotto dogale per recarsi dallo zio a Roma già il 15 dicembre del 1406; elevato al titolo di vescovo di Modone da Innocenzo VII e consacrato dallo stesso G., veniva poi promosso alla ben più importante diocesi di Bologna e, dopo avere guidato l'ambasceria che a Marsiglia nell'aprile 1407 era giunta all'accordo con Benedetto XIII, al rientro in Roma lo attendeva la nomina a camerlengo. A Marco Correr (altro figlio di Filippo) toccava l'incarico di rettore del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia, mentre il più giovane Paolo Correr (lui pure figlio di Filippo), dopo l'importante ruolo avuto nell'amministrazione finanziaria della città di Roma quale provveditore e sovrintendente ai collettori delle entrate, divenne rettore di terre della Chiesa (tra Todi, Amelia, Terni e Rieti) e poi capitano generale di una consistente quota delle milizie pontificie. Anche per Gabriele Condulmer, figlio di una sorella di G., la carriera era stata rapidissima già prima della nomina a cardinale: chierico della Camera apostolica, poi tesoriere, quando il 30 dicembre 1407 venne nominato dallo zio vescovo di Siena ciò fu possibile soltanto grazie ad una specifica dispensa papale, dal momento che non era ancora trentenne.
Questa quasi frenetica preoccupazione di G. di circondarsi di persone vicine e di parenti, al di là delle usuali pratiche di nepotismo, dipendeva dall'urgente bisogno di sicurezza e dalla necessità di consolidare il controllo sulla Curia e sullo Stato della Chiesa. Occorreva anche riassestare una posizione finanziaria estremamente fragile, quasi disperata. Alle spese per il funzionamento della Corte si sommavano quelle per mantenere una diplomazia sempre più complessa e per pagare le costose truppe mercenarie rese indispensabili dai contrasti in atto; tutto ciò mentre le rendite e i tributi erano resi incerti dall'indebolimento del potere effettivo di Roma e dalle forze centrifughe così come dalle derive autonomistiche che ne conseguivano, e proprio Antonio Correr e Gabriele Condulmer avevano dovuto occuparsi della depressa situazione economica. In ogni caso le nomine cardinalizie del maggio 1408 parvero andare oltre il limite del tollerabile e finirono per avere contraccolpi davvero pesanti. Per rinsaldare una situazione che andava facendosi sempre più critica G. avrebbe nominato altri nove cardinali nel settembre del 1408, ma la cosa sarebbe risultata un nuovo segnale di debolezza piuttosto che un motivo di maggiore forza. Intanto le insoddisfazioni dei prelati delle due obbedienze si combinavano in un impegno comune che avrebbe portato al concilio di Pisa. Ai cardinali che avevano abbandonato in maggio G. si unirono in giugno quelli che avevano lasciato Benedetto XIII e insieme concordarono sulla necessità di un concilio che ponesse fine allo scisma, impegnandosi in un notevole sforzo per la sua migliore riuscita.
Fin dai tempi di Urbano VI nell'ambiente dei teologi dell'Università di Parigi si era affacciata l'opinione che un concilio ecumenico in cui fosse rappresentata l'universalità della Chiesa sarebbe stato in grado di superare lo scisma con un intervento d'autorità, qualora non fosse stato possibile ottenere la spontanea rinuncia dei due papi o l'accettazione di una sorta di giudizio arbitrale. Ora l'idea prendeva corpo. Vennero inoltrati migliaia di inviti a principi, esponenti delle gerarchie ecclesiastiche, signori e città, richiesti di partecipare al concilio che si sarebbe tenuto in Pisa nel marzo del 1409. La risposta di G. fu la convocazione anche da parte sua di un concilio che avrebbe dovuto aprirsi a Cividale nel maggio dello stesso 1409. In sostanza, ben tre distinti concili erano convocati da tre autorità diverse. Il primo ad aprirsi, nel novembre 1408, fu quello promosso da Benedetto XIII a Perpignano, con una discreta presenza di esponenti giunti specialmente dalla penisola iberica e dalla Francia meridionale. Cadute nel vuoto le sollecitazioni a Benedetto perché si ritirasse, il concilio venne sospeso il 26 marzo 1409 dopo avere deciso di inviare una delegazione al concilio di Pisa che nel frattempo aveva preso avvio. In quella occasione i lavori di Perpignano non si erano chiusi ma le sedute furono continuamente aggiornate fino al 1416, quando ormai per Benedetto XIII la partita era perduta. Quanto al concilio di Cividale convocato da G., si sarebbe rivelato un sostanziale fallimento e del resto si svolse in condizioni particolarmente difficili, dopo che a Pisa erano stati deposti entrambi i papi in carica. In realtà Pisa si prospettò non come un momento decisivo nella vicenda dello scisma, ma piuttosto come un suo passaggio chiave.
La partecipazione ai lavori pisani, aperti con grande solennità il 25 marzo 1409, fu imponente. Intervennero di persona ventiquattro cardinali, quattro patriarchi, ottanta vescovi e arcivescovi e un analogo numero di abati; oltre cento vescovi e duecento abati avevano mandato procuratori e nel complesso erano presenti direttamente o tramite loro inviati oltre tremila tra ecclesiastici di vario grado, superiori dei grandi Ordini, università, principi, Comuni, teologi e canonisti. Nondimeno restavano significative assenze. La Spagna si manteneva unita intorno a Benedetto XIII; il re dei Romani e di Germania Ruperto di Baviera (come del resto Ladislao di Napoli) restava fedele all'obbedienza romana e i suoi inviati si presentarono a Pisa soltanto per protestare. Anche i rappresentanti di Benedetto XIII e del suo principale protettore Martino di Aragona furono ascoltati. Benché l'autorevolezza del concilio restasse fortissima a dispetto delle pesanti assenze, un effettivo ritorno all'unità non si presentava davvero facile. Anche dal punto di vista concettuale e strettamente teologico la situazione era complessa. Si contrapponevano e confrontavano il conciliarismo e il papalismo; le teorie regalistiche stavano consolidandosi. Nella prima sessione conciliare (26 marzo) il coltissimo cardinale Pietro Filargis, già arcivescovo di Milano, aveva duramente attaccato i due papi sostenendo che la convocazione del concilio era diritto dei cardinali quando il sommo pontefice mancava ai propri doveri, ma da parte tedesca il 15 aprile si replicava che la convocazione competeva soltanto a G. e che se non si riconosceva il suo legittimo ruolo questo comportava la delegittimazione anche dei cardinali scelti da lui e dai suoi predecessori. Il signore di Rimini, Carlo Malatesta, fedele nell'obbedienza a G. e suo rappresentante a Pisa, tentò difese e mediazioni, senza esito. Il concilio si configurava nettamente come sede in cui processare i due che "si portavano come papi".
Il 4 maggio fu nominata la commissione d'inchiesta e dopo il giuramento dei testimoni ne cominciò l'escussione. Si apriva un turbinio di accuse nel quale fantasie e chiacchiericci andavano a fianco di serie e sofferte considerazioni. In situazioni non troppo dissimili si trovavano tanto Benedetto XIII quanto G., per il quale, oltre che di inadempienze e intrighi, si parlava della decisione che avrebbe preso a Lucca di mettere in catene i cardinali, non attuata soltanto per l'intervento del signore della città, come pure dell'ordine di riportargli vivo o morto il cardinale di Liegi che da Lucca se n'era andato. Si ragionava anche di come il progetto di escludere dal gioco l'insieme dei cardinali, facendoli prigionieri, dovesse servire per affidare poi la soluzione dello scisma a una sorta di commissione arbitrale composta da due cardinali per parte, disegno a cui G. si sarebbe pentito di non avere dato seguito, convinto che una volta chiusi tutti in conclave e messi in campo i suoi due giovani nipoti, la loro resistenza avrebbe piegato la controparte costringendola a cedere per fame. Giovanni Dominici (un altro dei quattro cardinali eletti il 9 maggio 1408 e nondimeno personalità di grande prestigio e rispetto) lamentò in seguito travisamenti e fantasie ai danni di G., a cui fu sempre intimamente vicino fin dai tempi in cui a Venezia era entrato in contatto con lui. Supposizioni, stramberie e sospetti erano il segno di un clima sempre più pesante. I lavori del concilio comunque procedettero speditamente. Si giunse alla prevedibile condanna e la sentenza venne letta il 5 giugno. G. e Benedetto XIII furono dichiarati "scismatici ed eretici notori". Non avevano rispettato l'articolo di fede dell'unità della Chiesa cattolica; avevano violato gli impegni presi nell'accordo di Marsiglia dell'aprile 1407. Indegni di restare sulla cattedra di s. Pietro, l'atto di deposizione fu sottoscritto dalla quasi totalità dei partecipanti al concilio che deliberarono anche di voler riformare la Chiesa "in capite et in membris", provvedendo anzitutto alla nomina di un nuovo papa. Il conclave si aprì il 15 giugno e il 26 aveva già provveduto a eleggere all'unanimità il cardinale Pietro Filargis che assunse il nome di Alessandro V e venne incoronato il 7 luglio. Esattamente un mese più tardi il concilio era chiuso.
Non si erano fatti grandi passi sulla via dell'auspicata riforma. Il contenzioso proprio delle azioni giudiziarie aveva mantenuto decisamente in subordine l'approfondimento teologico. Come prevedibile, l'elezione del nuovo papa veniva dichiarata nulla da parte dei due papi deposti e il fatto che G. e Benedetto mantenessero un forte seguito (il primo in larghe parti d'Italia e Germania, in Polonia e in Ungheria, e il secondo nella penisola iberica, con l'esclusione del Portogallo, e in Scozia), non consentiva l'allentamento dei nodi che da decenni stringevano la Chiesa. La "empia dualità" precedente si risolveva in una "maledetta triade", con tre inconciliabili pretendenti che si contendevano l'eredità petrina; tuttavia non si può ridurre la riunione pisana a un fallito conciliabolo o poco più. In effetti si sarebbe rivelata come un passo decisivo verso la soluzione dello scisma, importante premessa del concilio di Costanza. In ogni caso, era un colpo gravissimo per le residue pretese di Gregorio XII. La risposta di G. alle decisioni pisane, preannunciata già prima dell'apertura dei lavori con la convocazione di un proprio concilio a Cividale, fu un fallimento. L'incontro iniziava sotto pessime prospettive, nonostante l'appoggio del re di Napoli Ladislao e del re dei Romani e di Germania Ruperto. Tra l'altro il Friuli era turbato dal contrasto in atto fra G. e il patriarca aquileiese e signore temporale della regione Antonio II Panciera, che già nel 1406 era entrato in conflitto con la città di Cividale. Nulla avevano risolto gli interventi diplomatici di Venezia, preoccupata per le tensioni in un'area così prossima e per lei importante; il 13 giugno 1408 G. avrebbe addirittura scomunicato e deposto il Panciera, motivando la sentenza con il mancato pagamento dei diritti dovuti alla Camera papale. La congiuntura in cui doveva aprirsi il concilio era delicatissima, nonostante le garanzie giurate dalla comunità cividalese nel marzo 1409 di accogliere benevolmente G., le cui ultime speranze su un possibile sostegno veneziano intanto finivano in nulla. Per Venezia da tempo era chiaro che avere un concittadino nella posizione di G. era un motivo di fastidi piuttosto che di vantaggi. Ciò valeva in generale. Quanto poi alle questioni specifiche, la Repubblica non poteva condividere le posizioni assunte da G. per il patriarcato aquileiese e nemmeno le sue scelte quanto all'arcivescovado di Creta - terra veneziana del Dominio da Mar - per il quale G. non soltanto aveva rifiutato le proposte di nomina avanzate da Venezia, ma aveva anche tenuto per sé, affidandone l'amministrazione alla Camera apostolica, le entrate connesse al titolo: 1.500 fiorini che aggiunti a quanto ricavava dal patriarcato di Costantinopoli e dal vescovato di Corone diventavano circa 9.000 fiorini: una buona assicurazione per il futuro, una volta che avesse dovuto rinunciare al titolo papale.
Fra divergenze molto dure, l'atteggiamento prevalente in Venezia lo si misurò in occasione dei preparativi del concilio di Cividale, quando nel febbraio 1409 si finì per rigettare dopo tormentate discussioni le richieste di G.: fu respinta la domanda di ospitare il concilio a Treviso, nel Dominio di Terra; venne rifiutato ogni ulteriore intervento diplomatico per la pacificazione del Friuli; non vennero nemmeno concesse le due galee che G. chiedeva per trasferirsi a Cividale da Rimini, dove si trovava ospite sotto la protezione del Malatesta. Quando poi il 16 maggio G. s'imbarcò per Cividale, dove giunse il 26 maggio, la Repubblica, anche considerando che "tutto el mondo dava la obediencia a Alessandro", non volle concedere a G. nemmeno lo sbarco a Venezia, permettendogli soltanto la sosta a Chioggia e a Torcello, dove peraltro si poterono misurare le diverse attitudini della popolazione nei suoi confronti. Infatti, quando giunse a Chioggia "quasi meza Veniexia andò a vederlo" e poi a Torcello "molta moltitudine li andò incontro", segno evidente della "grandissima devucion che in quello i aveva" (così scrivevano Bartolomea Riccoboni e Antonio Morosini, affidabili interpreti di sentimenti condivisi). Le attitudini diffuse tra la gente del Dogado non cambiavano la cauta posizione della Repubblica e tanto meno potevano impedire il fallimento del concilio cividalese. Nella sua prima sessione, il 6 giugno, il giorno successivo a quello in cui a Pisa era stata letta la deposizione dei due papi in carica, a Cividale il numero degli intervenuti risultò talmente basso che G. dovette aggiornare i lavori rinnovando la convocazione per il 22 luglio, quando si definì non valida la nomina di Alessandro V e venne di contro ribadita la legittimità del papato di Urbano VI e dei suoi successori romani fino a G. stesso; ma era la voce dei perdenti. Il 5 settembre, con tutte le rituali professioni di ricerca di pace e unità, G. ribadiva la sua disponibilità ad abdicare a condizione che i suoi competitori facessero altrettanto, ma la situazione ormai era usurata a tal punto che, temendo persino per la propria incolumità, nella notte stessa G. dovette abbandonare nascostamente Cividale, costretto a fuggire sotto mentite spoglie. Dopo avere rischiato di cadere in mano a un gruppo di armati udinesi, giungeva a Latisana da dove poi, grazie all'aiuto di Ladislao di Napoli, si recava per mare fino a Pescara e proseguiva quindi via terra verso Sulmona, giungendo a fine novembre 1409 a Gaeta "e là lo re i feva le spexe" ospitandolo.
La situazione per G. si era fatta estremamente fragile. Il concilio di Pisa, pur con tutte le questioni che lasciava irrisolte, era un sicuro successo dei suoi antagonisti, tanto più evidente se paragonato al fallimento del concilio di Cividale. Da parte sua Venezia aveva compiuto il passo finale nel progressivo allontanamento dall'illustre concittadino. La Repubblica, per la verità, si era tenuta ai margini rispetto al concilio pisano, ove non aveva inviato suoi rappresentanti nonostante le pressioni francesi. L'elezione papale di Pietro Filargis veniva a complicare ulteriormente le cose, trattandosi di un cittadino cretese e dunque già suddito veneziano, in favore del quale si muovevano gli ambasciatori di Francia e Inghilterra portandosi a Venezia per patrocinarne il riconoscimento. Le fratture all'interno della Chiesa e della cristianità apparivano ancora più confuse e gravi se trasferite in laguna; si scrisse che "specialmente in Veniexia tutta era in sisma" e a divergenze interne corrispose una "grandissima division in conseio". Il Senato, infatti, cominciò a dibattere la questione dell'obbedienza il 18 agosto, naturalmente escludendo i parenti di G., e si andò avanti con sedici inutili votazioni nella concitazione più totale, tanto da indurre il Consiglio dei Dieci a intervenire prima della seduta che avrebbe riaffrontato la materia con minacce particolari contro chiunque avesse offeso o assalito altri membri del Senato. Quando il 21 agosto si tornò a votare, occorsero ben quarantacinque turni per giungere finalmente ad una decisione ormai a notte fonda. Con una debolissima maggioranza si approvò l'obbedienza ad Alessandro V e un'ambasceria solenne venne spedita a rendergli omaggio; due legati dovevano invece portarsi da G. per informarlo della decisione presa e per chiedergli di trarne le dovute conseguenze nel nome dell'unità della Chiesa.
Per G. la partita con Venezia era definitivamente chiusa. Anche il sostegno che gli assicurava Ladislao di Napoli si faceva sempre più pesante e la permanenza a Gaeta si veniva configurando come una sorta di semiprigionia. Del resto l'appoggio a G. aveva una precisa ragione politica ed era destinato a cessare una volta modificatisi gli equilibri esistenti. Nel maggio 1410, morto il papa di Pisa Alessandro V, gli era subentrato Giovanni XXIII, Baldassare Cossa, personaggio pratico d'armi come di politica, deciso a riprendere il controllo su Roma e sulle terre che Ladislao aveva sottratto negli anni passati al dominio pontificio. A tale scopo diventava naturale la sintonia con Luigi II d'Angiò che il papa di Pisa nominò gonfaloniere della Chiesa romana, riconoscendone anche le pretese dinastiche sul Regno di Napoli. Nell'aprile 1411 Giovanni XXIII e Luigi II entravano insieme in Roma e per di più il 19 maggio Ladislao era sconfitto sul campo a Roccasecca, ma Luigi non ebbe modo di sfruttare a fondo il momento favorevole e il suo ritorno in Francia, in maggio, cambiava gli equilibri politico-militari. Per Giovanni XXIII si preparava una convergenza almeno temporanea con Ladislao di Napoli, sancita da un accordo reso pubblico il 16 ottobre, per il quale il sovrano riconosceva Giovanni XXIII come unico legittimo papa ottenendo in cambio, fra le altre cose, la conferma dei suoi diritti sul Regno di Napoli. Quanto restava del seguito di G. stava dunque andando a pezzi ed era chiaro che in quelle condizioni avrebbe dovuto abbandonare Gaeta. Ne usciva il 30 ottobre e dopo un difficile tragitto via mare giungeva il 22 dicembre a Cesenatico, entrando poi in Rimini due giorni dopo. Presso il più coerente tra i suoi seguaci, Carlo Malatesta, trovava una sicura ospitalità ma non era più in condizione di sostenere efficacemente le sue pretese papali.
Nel frattempo era apparso sulla scena Sigismondo di Lussemburgo, già sovrano d'Ungheria, eletto quale successore di Ruperto di Baviera (morto nel 1410) re di Germania e dei Romani. Convinto che per superare davvero lo scisma fosse necessario partire dall'abdicazione dei tre papi in carica, si dette subito da fare in tal senso, trattando soprattutto con Giovanni XXIII, la cui posizione si era fatta più debole in seguito alla nuova rottura intervenuta con Ladislao di Napoli dopo il periodo della transitoria collaborazione. L'accordo raggiunto consentiva alla Cancelleria di Sigismondo di comunicare già nell'ottobre 1413 che i padri conciliari si sarebbero riuniti a Costanza il 1° novembre 1414. La decisione era ratificata il successivo 8 dicembre 1413 dalla bolla di convocazione che Giovanni XXIII firmò. In proposito è significativo il fatto che Sigismondo trattasse proprio con Giovanni XXIII per giungere alla soluzione del grande scisma, stabilendo contatti diplomatici anche con Benedetto XIII e il suo grande protettore, Ferdinando I d'Aragona, il quale, peraltro, si sarebbe gradualmente allontanato dalla tradizionale obbedienza, dovendo prendere atto di come le posizioni del vecchio papa spagnolo erano sempre più insostenibili. Soltanto sullo sfondo restava invece la figura di G. il quale, per la verità, nel 1411 aveva tentato di volgere a proprio favore il conflitto che da tempo contrapponeva Sigismondo a Venezia, ma senza alcun risultato. La marginalità di G. rispetto alle grandi decisioni a quel punto era tale che ricevette l'invito al concilio con significativo ritardo, soltanto a fine luglio 1414, e Sigismondo, nella sua paziente opera volta alla riunificazione della Chiesa, non ritenne mai un ostacolo vero quel papa che del resto aveva in più occasioni dichiarato la sua disponibilità alla rinuncia al titolo, anche se poi si era ben guardato dal dare seguito alle promesse.
Il 5 novembre 1414 a Costanza si apriva il concilio, con una partenza decisamente sottotono, ma ben presto cominciarono ad affluire i delegati di ogni parte, specialmente dopo che la notte di Natale del 1414 a Costanza era giunto anche Sigismondo. Complessivamente furono presenti ai lavori circa diciottomila persone in rappresentanza di tutta la cristianità del tempo, e in particolare si contavano ventinove cardinali, tre patriarchi, trentatré arcivescovi e centocinquanta vescovi. G. aveva acconsentito ad inviare come suoi delegati a Costanza il fedele cardinale Giovanni Dominici e Giovanni Contarini, patriarca di Costantinopoli. I rappresentanti tedeschi che si erano mantenuti nell'obbedienza a G. giunsero il 17 gennaio 1415, guidati da Ludovico di Baviera, conte palatino del Reno. Ormai si poteva intendere che il concilio sarebbe risultato decisivo per il futuro della Chiesa, nonostante momenti difficili e congiunture drammatiche, come quelle che videro nel marzo la fuga di Giovanni XXIII e la sua deposizione il 29 maggio 1415, giudicato colpevole di essere scismatico, simoniaco e responsabile di una condotta di vita scandalosa: accuse gravissime che tuttavia non avrebbero impedito il suo rientro nei ranghi una volta passata ogni bufera, nel 1419, pochi mesi prima della morte. Intanto maturava anche il ritiro di G., probabilmente suggerito dagli stessi suoi sostenitori. Nel marzo 1415 G. aveva nominato Carlo Malatesta suo procuratore, delegando nel contempo propri rappresentanti con la potestà di convocare a suo nome il concilio. Se l'assemblea conciliare avesse accettato tale procedura G. sarebbe apparso come l'unico papa legittimo. Si trattava di un riconoscimento formale, ma davvero non di poco conto. Il concilio ritenne comunque opportuno accogliere la richiesta, destinata a spianare la via all'unità. Così il 4 luglio del 1415 il cardinale Dominici lesse la bolla di convocazione del concilio, dopodiché il Malatesta dette l'annuncio ufficiale dell'abdicazione di Gregorio XII. Era aperta la via per il ritorno all'unità. Sul fronte spagnolo-avignonese pure la stagione di Benedetto XIII stava chiudendosi. Gli Stati della penisola si erano di fatto allineati alle posizioni del concilio già prima della fine del 1415, anche se soltanto il 26 luglio 1417 vennero decretate la deposizione e la scomunica di Benedetto XIII, il quale peraltro non riconobbe mai la decisione di Costanza e isolato, chiuso nel castello di Peñiscola, trascorse gli ultimi anni di vita continuando a ritenersi il vero papa. L'11 novembre 1417, con l'elezione di Oddone Colonna che assunse il nome di Martino V, il grande scisma era definitivamente riassorbito. G. usciva da queste vicende in modo senz'altro dignitoso, recuperando una rispettabilità fattasi sempre più debole negli anni. Il suo comportamento non può essere ritenuto decisivo per un contesto che andava ben oltre la misura della sua personalità, ma aveva comunque contribuito a rendere meno arduo il cammino verso la soluzione di un groviglio di problemi straordinariamente complesso. Così il concilio aveva deciso di conferirgli il titolo di cardinale vescovo di Porto con il primo rango dopo il papa. Ottenne anche la nomina vitalizia di legato per la Marca di Ancona. Di quanto era avvenuto a Costanza il 4 luglio 1415 ebbe notizia il 19 luglio e il giorno seguente, nell'ultimo Concistoro che volle convocare, si spogliò dei simboli del potere papale rivestendo l'abito cardinalizio. Dal gennaio 1416, tornato Angelo Correr, visse a Recanati dove si spense il 18 ottobre 1417.
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