Gregorio XIII
Ugo Boncompagni nacque a Bologna il 1° gennaio 1501, quinto figlio di Cristoforo, ricco mercante della città, e di Angela Marescalchi. Studiò giurisprudenza all'Università di Bologna. Conseguito il dottorato "in utroque iure" nel 1530, si dedicò poi alla docenza nello stesso Studio tra il 1531 e il 1539.
In quest'ultimo anno decise di abbracciare la carriera ecclesiastica e di trasferirsi presso la Corte pontificia. Grazie al sistema della venalità degli uffici ormai in vigore per determinate cariche della Curia romana, poté acquistare, con le somme messegli a disposizione dal padre, l'ufficio di abbreviatore del Parco Maggiore e di sollecitatore delle lettere apostoliche. Queste due cariche venali gli furono formalmente assegnate con due bolle di Paolo III, rispettivamente del 23 febbraio e del 2 marzo 1539. Il 1° giugno successivo riceveva a Bologna la prima tonsura. È probabile che al termine dell'anno accademico Boncompagni si andasse a stabilire a Roma. Comunque sia, il 15 ottobre veniva spedito a suo favore il breve pontificio di nomina a secondo giudice collaterale in Campidoglio. Nulla sappiamo circa l'attività dell'antico professore bolognese negli anni immediatamente successivi salvo che, in data imprecisata, entrò al servizio del cardinale Parisio. Fu probabilmente grazie all'autorevole appoggio di questi che Boncompagni riuscì a farsi conoscere e apprezzare da Paolo III, il quale, il 7 gennaio 1545, lo nominava referendario "utriusque signaturae". Il 31 dicembre successivo, il papa lo includeva nel numero degli ufficiali di Curia inviati a Trento per assistere al concilio ecumenico ivi convocato. Non essendoci pervenuto il documento di nomina, non sappiamo quali precise mansioni fossero state affidate a Boncompagni. Dagli atti del concilio stesso si ricava però che egli seguì i lavori nella sua veste di giurista: il 20 gennaio 1547, in particolare, veniva chiamato a fare parte della speciale commissione incaricata di studiare i problemi connessi con le questioni dell'obbligo della residenza e della riforma disciplinare.
Quando, l'11 marzo 1547, l'assemblea, nonostante il voto contrario di una minoranza di quattordici dei suoi membri, decise la traslazione del concilio a Bologna, Boncompagni seguì la maggioranza nella propria città natale. La sua presenza vi è attestata sin dal 3 aprile ed è confermata dalla sua partecipazione alla successiva congregazione generale del 21 aprile. A Bologna egli sarebbe rimasto fino ai primi mesi dell'anno successivo: nella congregazione del 29 febbraio 1548 veniva infatti aggregato alla rappresentanza conciliare inviata a Roma per difendere la legittimità della traslazione, contro la quale Carlo V aveva elevato formale protesta all'inizio dell'anno. Con il suo rientro a Roma e la successiva sospensione del concilio, il quarantaseienne Boncompagni riprendeva la sua anteriore vita di prelato di Curia.
Al soggiorno bolognese risale la nascita, l'8 maggio 1548, di un figlio naturale, Giacomo, avuto da una donna nubile, certa Maddalena Fulchini. L'intera vicenda rivela quanto lo spirito di Boncompagni fosse a quell'epoca ancora lontano dagli ideali della nascente riforma tridentina e rimanesse viceversa legato alla mentalità e ai costumi del Rinascimento. Il 28 aprile 1547, a seguito della scomparsa del genitore, Boncompagni aveva ricevuto la sua parte dell'eredità paterna, comprendente, tra l'altro, la metà del palazzo di città. Il desiderio di garantirsi un erede cui lasciare a sua volta il proprio patrimonio, senza per questo dovere abbandonare la carriera ecclesiastica, lo spinse a cercare una donna dalla quale avere un figlio. La trovò nella Fulchini, in quel momento al servizio di Laura, moglie del fratello Gerolamo, proprietario dell'altra metà del palazzo. Ottenuto lo scopo, mentre per un verso, il 5 luglio 1548, faceva legittimare il piccolo Giacomo e ne affidava l'educazione alle cure della cognata, per l'altro assicurava una dote alla ragazza e ne combinava il matrimonio con un muratore di nome Simone Scamni. Che la nascita del figlio rispondesse a una sua scelta deliberata, lo doveva riconoscere egli stesso in vari documenti autografi, in particolare in una dichiarazione del 27 dicembre 1552, nella quale affermava che, dopo avere ereditato la metà del palazzo paterno, gli era sembrato opportuno "provvedermi di figlioli quali potesano [sic] habitare in deta casa, volendo io stare a Roma" (cit. in P. Pecchiai, p. 33). La poco edificante vicenda non sembra comunque avere prodotto ripercussioni negative sulla sua carriera ecclesiastica, anche se risulta che non godette dei favori di Giulio III, asceso al soglio pontificio il 7 febbraio 1550. Il pontefice non gli conferì alcun particolare incarico, né si valse della sua opera durante il secondo periodo dei lavori del concilio, riconvocato a Trento tra l'aprile del 1551 e l'aprile del 1552. Per contro l'affermazione di un contemporaneo, secondo la quale la disistima di Giulio III nei suoi confronti giunse al punto di farlo radiare dal ruolo dei referendari è smentita dalla documentazione della Segnatura apostolica. Il prelato bolognese poté anzi comprare un'ulteriore carica, quella di segretario pontificio, la cui titolarità gli fu poi confermata con bolla papale del 7 aprile 1552. Nel 1554, il cardinale Giovanni Battista Cigala, legato di Campagna e Marittima, lo nominò suo prolegato, carica che tuttavia disimpegnò per soli otto mesi.
La vita ritirata e la condotta irreprensibile tenuta in questi anni possono spiegare il motivo per cui l'austero Paolo IV, eletto il 23 maggio 1555, manifestò a Boncompagni, sin dagli inizi del suo pontificato, la propria particolare considerazione. Nel gennaio 1556, lo nominò membro della commissione incaricata di studiare la riforma generale della Chiesa. In quello stesso anno il prelato bolognese accompagnò il cardinale nipote Carlo Carafa in due delicate missioni diplomatiche: la prima in maggio, alla corte di Francia, la seconda, nell'autunno, presso Filippo II, il quale si trovava allora a Bruxelles. Nel maggio 1558, Boncompagni fu chiamato a far parte della speciale commissione alla quale era stato affidato l'incarico di esaminare la legittimità della successione stabilita da Carlo V a favore del fratello Ferdinando I. Qualche mese più tardi, Paolo IV prese in considerazione la possibilità di nominare il prelato bolognese nunzio presso l'imperatore stesso: in vista di questa eventualità, il 20 luglio lo promosse al vescovato di Vieste. Il ventilato incarico diplomatico non ebbe però a concretarsi, perché, in un secondo tempo, Paolo IV decise di inviare a Ferdinando I non più un nunzio, ma un cardinale legato. Frattanto Boncompagni aveva ricevuto la consacrazione episcopale, preceduta dal conferimento degli ordini minori e maggiori. Nel Concistoro del 28 novembre, poi, Paolo IV creava per il pronipote, il diciannovenne cardinale A. Carafa, la lucrativa carica di reggente della Camera apostolica e nominava il vescovo di Vieste vicereggente. Nel gennaio 1559 questi veniva quindi dal pontefice chiamato a far parte del Consiglio di Stato da poco eretto. Nel marzo successivo figura nel novero dei pochi vescovi di Curia dispensati da Paolo IV dall'ottemperare all'obbligo della residenza episcopale: a lui, anzi, venne affidato l'incarico di invigilare sulla applicazione della bolla promulgata dal papa in materia.
Il favore goduto presso Paolo IV e i molteplici legami con i membri più in vista della sua famiglia avrebbero potuto compromettere la posizione di Boncompagni sotto il pontificato di un papa ostile ai Carafa quale indubbiamente fu Pio IV. Non erano infatti ancora trascorsi sei mesi dalla sua elezione che papa Medici, nel giugno 1560, faceva incarcerare e mettere sotto processo i nipoti del suo predecessore. In tempi così calamitosi per quanti avevano ricoperto incarichi di rilievo sotto Paolo IV, Boncompagni avrebbe potuto trovarsi a mal partito: ciò invece non avvenne. Già è rivelatrice dei sentimenti cordiali, o quanto meno non ostili, del papa la concessione contenuta dalla bolla del 25 ottobre 1560 con la quale al vescovo di Vieste - che aveva rinunciato al seggio vescovile perché i suoi impegni curiali non gli consentivano di adempiere all'obbligo della residenza - veniva concessa l'autorizzazione a fregiarsi del proprio titolo episcopale vita natural durante. Ma decisivo, ai fini della fiducia accordatagli più tardi sia da Pio IV, sia dal cardinale nipote Carlo Borromeo, fu l'atteggiamento tenuto da Boncompagni durante la terza e ultima fase del concilio di Trento.
Con la bolla del 29 novembre 1560, il pontefice aveva nuovamente indetto il concilio. I dissensi insorti tra Spagna, Francia e l'imperatore ritardarono l'apertura dei lavori sino al 18 gennaio 1562. Boncompagni si trovava allora a Trento da oltre un mese. Partito da Roma il 20 novembre 1561, al seguito di uno dei legati pontifici, il cardinale L. Simonetta, vi era infatti arrivato il successivo 9 dicembre. Il vescovo di Vieste partecipò attivamente ai lavori conciliari. La sua azione in seno all'assemblea testimonia del suo impegno, della sua preparazione giuridica, delle sue doti di equilibrio. Le posizioni da lui assunte sulle singole questioni risultano però generalmente aderenti agli orientamenti della Curia romana, in seno alla quale era prevalsa sin dall'inizio la preoccupazione di difendere le tradizionali prerogative pontificie e di moderare le proposte dei fautori di un impegno riformistico più radicale. In sintonia con la linea seguita da Roma, fu, in particolare, l'intervento di Boncompagni sulla questione cruciale se l'obbligo della residenza traesse origine dal diritto divino o meno: questione gravida di implicazioni, dal momento che una risposta positiva al quesito avrebbe, tra l'altro, privato il papa della facoltà, riconosciutagli da una prassi ormai consolidata, di accordare dispense in materia. Nel prendere la parola sul tema durante la congregazione generale del 20 aprile 1562, Boncompagni assunse una posizione certamente gradita a Roma, sostenendo che una formale dichiarazione del concilio sulla questione non appariva necessaria: era un modo elegante di aggirare l'ostacolo, senza entrare nel merito dello spinoso problema e lasciandone impregiudicata la soluzione.
Le prese di posizione di Boncompagni non potevano che suscitare reazioni favorevoli nella Curia romana. Non stupisce perciò che il cardinale Borromeo segnalasse ai legati il vescovo di Vieste come uno dei "prelati confidenti" e "amorevoli di questa Santa Sede et di questa corte" (Borromeo a L. Simonetta, Roma 6 giugno 1562, in Die Römische Kurie, II, p. 193). Più tardi, Borromeo si doveva preoccupare di fare sapere al piccolo gruppo dei vescovi e dei prelati fattisi conoscere per sostenitori delle posizioni romane - fra i quali veniva nominalmente segnalato Boncompagni - che il papa si sarebbe ricordato di loro al momento opportuno.
In effetti, rientrato a Roma dopo la conclusione del concilio, avvenuta il 5 dicembre 1563, il vescovo di Vieste veniva chiamato a prestare la propria opera nella cerchia dei più stretti collaboratori di Pio IV, alle dirette dipendenze del cardinale nipote. Quale fondamento abbia la tesi, sostenuta da altri, secondo la quale la diuturna frequentazione del giovane Borromeo, già allora considerato un porporato esemplare per costumi e pietà, avrebbe inciso profondamente sull'evoluzione spirituale di Boncompagni, è impossibile dire. Certo è che quest'ultimo seppe guadagnarsi la fama di uomo retto e equilibrato; ma soprattutto riuscì a conquistarsi la fiducia e la stima tanto del cardinale nipote, quanto del papa stesso, il quale, nella promozione cardinalizia del 12 marzo 1565, gli conferiva la porpora.
Nel successivo Concistoro del 13 luglio, Pio IV nominava il cardinale Boncompagni legato "a latere" in Spagna.
Scopo principale della missione era quello di concludere il processo per eresia avviato dinnanzi all'Inquisizione spagnola, sin dal 1558, contro l'arcivescovo di Toledo e primate di Spagna B. Carranza. All'inizio del suo pontificato, Pio IV, confermando una precedente decisione di Paolo IV, aveva autorizzato il tribunale spagnolo a celebrare il processo, ma si era riservato la sentenza finale. La risoluzione pontificia non aveva però soddisfatto Filippo II, il quale considerava lesivo del prestigio dell'Inquisizione spagnola e della Corona stessa che la causa fosse terminata a Roma. Per venire incontro alle esigenze del sovrano senza revocare una decisione risalente al suo predecessore, Pio IV finì con il risolversi a inviare in Spagna un cardinale legato munito delle facoltà necessarie per concludere il processo e pronunciare, a nome del papa, la sentenza finale. Tali facoltà furono conferite con la bolla Universi gregis del 13 luglio 1565 a Boncompagni. Questi le doveva esercitare con l'assistenza dell'arcivescovo di Rossano, G.B. Castagna (a sua volta destinato a Madrid in qualità di nunzio ordinario), e dell'auditore di Rota G. Aldobrandini, nonché, eventualmente, di altri giudici ecclesiastici designati dal legato.
Partito da Roma nel mese di settembre, Boncompagni fece il suo ingresso solenne a Madrid il 13 novembre. Già nel suo primo incontro con Filippo II, dovette prendere atto che la sua missione si rivelava più complessa di quanto non si fosse pensato nella Curia romana. Il sovrano avanzò sin dall'inizio la pretesa di aggregare ai prelati venuti da Roma tutti i membri del Consiglio generale dell'Inquisizione spagnola, oltre ad un numero imprecisato di altri giudici. Siccome Boncompagni aveva fatto subito presente che le sue facoltà non gli consentivano di ampliare in maniera così abnorme il collegio giudicante, Filippo II si rifiutò di fargli consegnare gli incartamenti processuali fintanto che il pontefice non avesse accolto le sue richieste.
Vani si rivelarono gli sforzi del legato per indurre, nelle successive udienze, il sovrano a mutare parere. La situazione di stallo venutasi di fatto a creare sanciva il fallimento della sua missione. Ma una inattesa via d'uscita gli si doveva aprire dinnanzi, allorquando, il 27 dicembre, giungeva a Madrid la notizia della morte di Pio IV: due giorni più tardi Boncompagni lasciava la corte allo scopo dichiarato di partecipare al conclave. L'annuncio dell'elezione di Pio V, avvenuta il 7 gennaio 1566, lo doveva, però, raggiungere sulla via del ritorno, ad Avignone. Il rientro a Roma segnava il fallimento della sua missione. Essa gli aveva però offerto l'occasione di farsi conoscere personalmente da Filippo II, il quale, in quei frangenti, aveva potuto apprezzare le sue doti d'intelligenza e di carattere: circostanza che avrà peso decisivo nel sostegno che il sovrano farà dare più tardi alla sua candidatura al soglio pontificio.
Durante il nuovo pontificato, Boncompagni condusse vita ritirata. L'unico incarico conferitogli da Pio V fu la Segnatura dei Brevi. Si trattava indubbiamente di una nomina prestigiosa, espressione della fiducia del papa: la carica in sé non era tuttavia di particolare rilievo, né implicava la partecipazione a responsabilità di governo. Durante i sei anni del pontificato di Pio V Boncompagni non brigò per ottenere incarichi più significativi, ma, al contrario, si tenne lontano dagli intrighi di Corte. Questo suo atteggiamento valse a rafforzare la fama della quale già godeva di uomo retto ed equilibrato. Date queste premesse è naturale che alla morte di Pio V, verificatasi il 1° maggio 1572, il nome di Boncompagni figurasse tra quelli dei papabili. La sua candidatura non si scontrava con opposizioni dichiarate, né all'interno del Sacro Collegio, né al di fuori di esso, nelle corti cattoliche. A suo favore giocavano la solida preparazione giuridica e la lunga esperienza maturata in seno alla Curia. Questo complesso di fattori, cui va aggiunto il deciso appoggio fornitogli dalla Spagna, spiega come la sua elezione avvenisse al termine di un conclave durato meno di ventiquattr'ore. Chiusosi nella notte del 12 maggio, esso si riaprì infatti nel pomeriggio del giorno seguente. Il neoeletto, elevato alla porpora il giorno di s. Gregorio Magno, scelse il nome di Gregorio XIII. Per quanto riguarda la scelta dei suoi più stretti collaboratori, il nuovo papa ruppe con la prassi, seguita dagli immediati predecessori, di affidare l'alta direzione degli affari politico-religiosi ad un nipote. Per il disimpegno di tale complessa incombenza chiamò presso di sé, con breve del 24 giugno 1572, un non consanguineo, il cardinale T. Gallio, con il quale aveva lavorato a stretto contatto nell'ultima fase del pontificato di Pio IV. Uomo capace ed esperto, Gallio svolgerà, durante l'intero pontificato di G., le funzioni che, in epoca successiva, saranno quelle del cardinale segretario di Stato. Lo stesso giorno della nomina di Gallio, il papa affidò al nipote F. Boncompagni - promosso al cardinalato il 2 giugno precedente - la responsabilità di sovraintendere agli affari riguardanti il governo dello Stato pontificio. Il figlio della sorella, F. Guastavillani, fu fatto cardinale soltanto il 5 luglio 1574 e relegato ad un ruolo marginale, mentre un terzo nipote, Cristoforo, veniva nominato governatore di Ancona nell'ottobre del 1572 e, quindi, il 15 ottobre 1578, eletto arcivescovo di Ravenna, senza mai ricevere la porpora.
Se G. si dimostrò poco incline a favorire i nipoti, cui assegnò rendite decorose ma non cospicue, ebbe invece la debolezza di voler promuovere l'ascesa sociale del figlio Giacomo. Nel maggio 1572, questi fu nominato castellano di Castel S. Angelo e, successivamente, il 17 aprile 1573, gonfaloniere generale di Santa Romana Chiesa, la più alta carica militare dello Stato pontificio. Nel febbraio 1576, il papa faceva celebrare il suo matrimonio con una ricca ereditiera, Costanza Sforza dei conti di Santa Fiora. L'anno successivo sembra che G. tentasse, senza successo, di ottenere da Enrico III di Francia la cessione del Marchesato di Saluzzo a favore di Giacomo. Per contro, in quello stesso 1577, gli donava dapprima il Marchesato di Vignola, acquistato per 70.000 scudi ferraresi da Alfonso II d'Este e, poi, il Ducato di Sora, nel Regno di Napoli, costato 100.000 scudi d'oro. La relativa investitura fu ottenuta da Filippo II il 27 dicembre. A questo già considerevole patrimonio venne infine ad aggiungersi, in data imprecisata, la Contea d'Arpino.
Pur oltrepassando quei limiti di discrezione che, nel clima riformistico della Chiesa postridentina, il papa avrebbe dovuto imporsi nell'innalzamento sociale del figlio, G. non consentì però mai a Giacomo di interferire nell'attività di governo. Questa rimase sempre saldamente nelle sue mani. Instancabile lavoratore, temperato nel mangiare e nel bere, G. interrompeva il disbrigo quotidiano degli affari soltanto per adempiere ai suoi obblighi religiosi (recita del breviario, celebrazione della messa, partecipazione alle cerimonie liturgiche) e per praticare un moderato esercizio fisico. Seguiva da vicino la trattazione delle singole questioni, che, come dimostrano gli appunti autografi pervenutici, usava talvolta studiare di persona. Pur riponendo intera fiducia in Gallio, soleva riservare a sé la decisione finale, dopo avere acquisito il parere di esperti e di cardinali particolarmente autorevoli, come G. Morone, G. Sirleto o C. Borromeo, il quale, dalla sua arcidiocesi di Milano, non mancava di fargli giungere suggerimenti e consigli. L'esercizio personale del potere da parte del pontefice doveva necessariamente comportare anche sviluppi sul piano istituzionale attraverso il potenziamento degli organi centrali di governo. Tale potenziamento è evidenziato, negli anni di G., sia dall'accresciuta attività delle Congregazioni cardinalizie permanenti erette dai suoi predecessori (le Congregazioni dell'Inquisizione, del Concilio, dell'Indice e dei Vescovi), sia dalla creazione di Congregazioni cardinalizie temporanee. Di queste ultime alcune avevano obiettivi non contingenti e rimasero in vita durante l'intero pontificato: è il caso della Congregazione Germanica, le cui origini risalivano a Pio V, ma che sarà riportata in piena attività soltanto nel 1573, o della Congregazione dei Greci d'Italia; altre svolsero invece un'attività limitata nel tempo e destinata ad esaurirsi con il raggiungimento dello scopo per il quale erano state costituite: è il caso della commissione cardinalizia per la riforma del calendario, formata probabilmente nell'anno 1575 e scioltasi con l'entrata in vigore del calendario gregoriano.
Questo nuovo sistema istituzionale - destinato a trovare la sua definitiva configurazione sotto Sisto V - doveva comportare, per un verso, l'accentramento dei poteri decisionali nelle mani del papa a spese del Concistoro, organo collegiale di origine medievale, ormai in fase di declino, in seno al quale il papa e i cardinali deliberavano sulle questioni più rilevanti; per l'altro verso, ne derivava il coinvolgimento nell'attività burocratica ordinaria di gruppi di porporati le cui incombenze rimanevano però circoscritte allo specifico settore di competenza loro assegnato. In tal modo, con G., si venne a consolidare quel processo centralizzatore già in atto nel governo della Chiesa sin dai pontificati di Pio IV e di Pio V. Il rafforzamento, in senso verticistico, del potere centrale, insieme all'ampliamento del raggio d'azione internazionale del papato postridentino, richiedeva anche la disponibilità di altri strumenti d'azione. Sotto G. si sviluppò e consolidò l'istituzione della Nunziatura apostolica, della quale furono ampliate le competenze in campo religioso ed ecclesiastico. A G. si deve fare risalire, direttamente o indirettamente, la creazione delle nuove Nunziature di Lucerna, di Graz e di Colonia. Durante il suo pontificato fu inviato il primo nunzio nelle Fiandre spagnole, anche se, in realtà, l'istituzione di una Nunziatura permanente a Bruxelles avverrà soltanto sotto Clemente VIII.
Molti erano i problemi che la morte di Pio V aveva lasciato irrisolti. Subito dopo l'elezione di G. si era diffusa a Roma la sensazione che il nuovo pontificato, dato anche il temperamente meno rigoroso del neoeletto, non avrebbe seguito lo stesso corso del precedente. Sin dal 30 maggio, nel suo primo Concistoro, il pontefice dichiarò invece di volere seguire le orme del suo predecessore. In effetti, l'attuazione della riforma postridentina attraverso la sistematica applicazione dei decreti conciliari e la lotta contro eretici ed infedeli saranno, come sotto Pio V, gli obiettivi prioritari della sua azione. Una delle prime preoccupazioni del papa fu quella di mantenere in vita, e possibilmente ampliare, la coalizione antiturca per mezzo della quale era stata conseguita la vittoria di Lepanto. Le speranze del pontefice che quel memorabile successo delle armi cristiane valesse a stimolare i principi cattolici a preparare una nuova offensiva si dovevano presto rivelare infondate. Ciò malgrado, G. perseverò nei suoi sforzi durante l'intero pontificato: il tema della lega antiturca ricorre nella corrispondenza con i nunzi e finirà con l'incidere significativamente sugli orientamenti generali della politica della Santa Sede.
Perno dell'alleanza cristiana non poteva che rimanere la Spagna. I piani di Filippo II non coincidevano però con quelli del papa: la strategia del sovrano era in quel momento indirizzata verso un attacco contro i Barbareschi dell'Africa settentrionale. L'ordine da lui impartito a don Giovanni d'Austria, comandante della flotta spagnola in rada a Messina, di non muoversi suscitò l'immediata reazione di G., il quale, con una lettera autografa del 30 giugno, fece pervenire a Filippo II le sue più vive rimostranze. Di fatto la lettera del papa si incrociò con un contrordine del sovrano: ciò nonostante la flotta salpò troppo tardi, sicché le operazioni congiunte delle galere spagnole, veneziane e pontificie nel Mediterraneo orientale non diedero risultati apprezzabili.
Non fu questa l'unica delusione provata dal pontefice. Dai primi passi diplomatici apparve evidente che la Francia non aveva la benché minima intenzione di partecipare alla lotta contro la potenza ottomana, mentre risultò che il Portogallo non disponeva di mezzi finanziari sufficienti per potere inviare forze navali anche nel Mediterraneo. Ma il colpo più duro inferto ai progetti di G. doveva venire l'anno successivo. Il 7 marzo 1573, infatti, la Repubblica di Venezia, timorosa di non potere fare fronte all'avversario, firmava una svantaggiosa tregua con il sultano. A questo punto, il papa poteva contare soltanto sulla Spagna, che nell'ottobre 1573 conquistava Tunisi, per poi perderla nuovamente l'anno successivo. Nell'estate del 1577, G. sollecitò l'intervento di Filippo II allo scopo di fronteggiare la minaccia turca contro il possedimento veneziano di Corfù. Nella sua risposta, il sovrano si mantenne sulle generali. In realtà aveva già fatto prendere contatti con la Porta in vista della conclusione di un armistizio, circostanza che il papa non tardò a scoprire con somma sua indignazione. Di fatto la tregua venne firmata soltanto due anni più tardi, il 21 marzo 1580. Dinnanzi alla severa condanna di G., Filippo II si limitò a fare valere la situazione disastrata delle sue finanze e la necessità di concentrare lo sforzo bellico nella lotta contro i ribelli delle Fiandre. Alla riprovazione suscitata dalla decisione del sovrano si doveva aggiungere per G. un ulteriore motivo di preoccupazione: essendosi, infatti, nel frattempo aperto il problema della successione alla Corona di Portogallo, a Roma si temeva che le trattative con il Turco avessero anche lo scopo di rendere disponibili le forze militari necessarie per un intervento armato di Filippo II a difesa dei diritti da lui vantati su quella Corona, come di fatto poi avvenne. Comunque sia, la defezione della Spagna implicava per il papa la rinuncia ad un'offensiva navale e un cambio di strategia volta a spostare le operazioni sul fronte terrestre.
Per appoggiare questa nuova opzione, nel 1582, G. nominò legato pontificio alla Dieta imperiale di Augusta il cardinale L. Madruzzo. Al porporato fu affidata la duplice missione di indurre Rodolfo II ad aderire al mai abbandonato progetto di lega e di impedirgli di fare concessioni in materia di religione ai protestanti in cambio del loro sostegno finanziario. Le attese del papa andarono ancora una volta deluse, anche se grazie all'azione del legato Rodolfo II seppe resistere alla pressioni dei protestanti: ciò gli costò uno stanziamento della Dieta inferiore alle sue richieste. Come gesto di apprezzamento per l'atteggiamento di fermezza mantenuto dall'imperatore, G., agli inizi del 1583, decise di assegnargli un contributo di 100.000 fiorini. Fallito il tentativo di coinvolgere Rodolfo II nei suoi piani, il pontefice fece rinnovare inutilmente i passi diplomatici a Madrid e a Venezia, nonché presso il re di Polonia Stefano Báthory, anche in questo caso senza esito. In nessun altro settore entro il quale si esplicò l'azione di G. risulta più evidente la divaricazione tra il dinamismo della politica pontificia e la scarsezza dei risultati conseguiti. Il sostanziale fallimento dei progetti del pontefice non deve essere attribuito a mancanza di realismo, quanto a una non esatta valutazione dei molteplici fattori avversi. In primo luogo, la convinzione, diffusa nella maggior parte delle corti europee, che dopo la sconfitta subita a Lepanto la potenza turca non rappresentasse più, almeno sul mare, una incombente minaccia; in secondo luogo, le ragioni di politica interna e di politica estera che trattenevano i singoli principi dall'aderire alla progettata lega, come lo spostamento degli interessi strategici di Filippo II dal fronte mediterraneo al fronte atlantico (Paesi Bassi, Portogallo e, in certa misura, Inghilterra), come la debolezza della Repubblica veneta, come le tensioni religiose all'interno dell'Impero, l'impegno militare contro gli ugonotti e la decennale alleanza con la Porta, per quanto riguardava la Francia. Nei riguardi di quest'ultima, la politica di G. puntò verso alcuni obiettivi fondamentali: smorzare i possibili attriti con la Spagna nella remota speranza che le due potenze si unissero per lottare contro gli eretici e, appunto, contro il Turco; nonché stimolare la Corona a combattere risolutamente gli ugonotti.
Poco dopo l'ascesa al soglio pontificio di G. si verificò a Parigi quell'orrendo massacro di ugonotti passato alla storia come la notte di S. Bartolomeo (23-24 agosto 1572). Contrariamente a quanto in passato fu sostenuto, il papato non ebbe nulla a che vedere con la strage. Questa del resto non fu il sanguinoso epilogo di un piano lungamente maturato, ma la tragica conseguenza di un'improvvisa decisione della regina madre Caterina de' Medici, dopo il fallito attentato organizzato contro il principale esponente ugonotto, l'ammiraglio Gaspard de Coligny: è quindi impossibile che il papa ne fosse stato previamente informato. Ciò non toglie che quando la notizia giunse a Roma G. considerasse l'avvenimento come una vittoria dei cattolici sui calvinisti e che come tale la facesse celebrare.
In questa prima fase del pontificato, il papa sperava ancora di ottenere l'adesione francese alla lega antiturca e di favorire un riavvicinamento tra Francia e Spagna per mezzo del matrimonio del fratello minore del re, il duca d'Angiò (il futuro Enrico III) con una delle figlie di Filippo II.
Passi diplomatici compiuti seguendo questa duplice direttrice non dettero alcun frutto. Ma più che l'evidente reticenza della Francia ad aderire ai piani antiturchi del papa, preoccupava a Roma l'atteggiamento - giudicato troppo remissivo - del re e, soprattutto, di Caterina de' Medici, la vera detentrice del potere, nei confronti degli ugonotti. La morte di Carlo IX (30 maggio 1574) e la successiva ascesa al trono del fratello Enrico III fecero sperare in una svolta. Le nuove prospettive che sembravano dischiudersi indussero G. a inviare a Parigi, nel giugno 1574, un nunzio straordinario, F.M. Frangipani, la cui missione consisteva essenzialmente nello spingere la regina madre e il nuovo re ad affrontare con maggiore energia la repressione antiugonotta e ad accordarsi con la Spagna per un'offensiva comune contro le forze protestanti in Europa.
La missione non produsse i risultati sperati, come, del resto, non ne doveva produrre quella successiva, anch'essa affidata al Frangipani verso la fine del 1575. Compito assegnatogli questa volta era quello di riportare alla ragionevolezza il duca d'Alençon, François-Hercule de Valois, il quale si era ribellato contro il re suo fratello e si era unito alle forze protestanti. Gli sforzi di G. diretti a spingere la Corona a combattere gli ugonotti con decisione si rivelarono vani. Enrico III, debole e indeciso, soggiogato dalla madre, si mostrava a parole ben disposto ma soltanto perché sperava di ottenere sussidi finanziari dalla Santa Sede per le esauste casse dell'erario. In effetti, illudendosi di indurre il sovrano a passare all'azione, G., nell'agosto 1574, gli concesse 200.000 lire tornesi. La generosità del papa fu, però, mal ripagata. La pace di Beaulieu, sottoscritta da Enrico III il 6 maggio 1576 con gli ugonotti, attribuiva loro, tra le altre concessioni, la libertà di culto in tutto il Regno, eccezione fatta per Parigi. L'iniziativa regia, oltre a suscitare la ferma disapprovazione di G., provocò, per contraccolpo, la formazione della Lega cattolica sotto la guida della famiglia dei duchi di Guisa. La nuova fase delle guerre di religione che ne seguì ridestò le speranze del papa, il quale, nel luglio 1577, fece inviare a Enrico III un donativo di 50.000 scudi. Il conflitto si concluse alla fine dell'estate con la pace di Bergerac (17 settembre 1577), i cui termini erano, questa volta, assai meno favorevoli agli ugonotti. Ciò malgrado la notizia provocò una cocente delusione a Roma, ove la cessazione delle ostilità fu giudicata prematura.
Nel periodo successivo prevalsero nella politica francese di G. gli sforzi tesi a prevenire il pericolo di un conflitto armato tra Francia e Spagna. Nell'estate del 1578, al Frangipani fu affidata una terza missione straordinaria nel rinnovato tentativo di dissuadere l'irrequieto François-Hercule, nel frattempo divenuto duca d'Angiò, dal recarsi nei Paesi Bassi per fornire l'appoggio militare delle sue truppe alle province rivoltatesi contro la Spagna. Sebbene, come i precedenti, il passo non producesse i frutti attesi, G. ottenne però che Enrico III si dissociasse, quanto meno sul piano ufficiale, dalle improvvide iniziative del fratello. Il medesimo intento di mantenere la pace tra le due maggiori potenze cattoliche doveva ispirare, negli anni successivi, gli interventi pontifici miranti ad impedire la conclusione del matrimonio tra il principe ed Elisabetta I d'Inghilterra, favorendo, viceversa, il progetto di dargli in sposa una delle "infantas" di Spagna.
Se la prematura morte del duca d'Angiò, avvenuta il 10 giugno 1584, eliminava dalla scena un personaggio scomodo, essa apriva però il delicato problema della successione sul trono: non avendo infatti Enrico III discendenza, il pretendente alla Corona si trovava ad essere l'eretico relapso Enrico di Borbone, re di Navarra. Alla diplomazia pontificia in Francia fu di conseguenza assegnato il compito di adoprarsi in favore della costituzione di un forte partito cattolico imperniato sulla stretta intesa tra i membri cattolici della famiglia di Borbone e i membri della famiglia di Guisa. Dal canto suo, G. si asterrà dal dare una qualsiasi sanzione formale alla ripresa delle attività della lega. Sembra per contro che, pochi mesi prima della sua morte, il pontefice avesse fatto aprire un procedimento contro Enrico di Navarra con il proposito di dichiararlo inabile a regnare in quanto eretico. La linea politica seguita da G. nei confronti della Spagna si sviluppò in senso parallelo e, per certi aspetti, speculare rispetto alla linea adottata nei confronti della Francia. Da un lato il papa non lasciò nulla di intentato al fine di coinvolgere Filippo II nei suoi piani antiottomani; dall'altro si preoccupò di impedire che i ricorrenti contrasti con la Francia potessero provocare un aperto conflitto tra le due maggiori potenze cattoliche.
Fonte di possibili tensioni fu, in particolare, la successione sul trono di Portogallo. Il 4 agosto 1578 moriva nel corso di una spedizione contro i Mori del Nord Africa il giovane re di Portogallo Sebastiano I. Gli succedeva un suo prozio, il cardinale Enrico, ultimo legittimo discendente della casa d'Avis. L'ascesa al trono di un porporato anziano e di salute cagionevole lasciava presagire che entro breve tempo si sarebbe venuto a porre il problema successorio. I pretendenti erano diversi: Filippo II, in primo luogo, come figlio e marito di principesse portoghesi; quindi la duchessa Caterina di Braganza, dom António, figlio naturale di un fratello del cardinale, e persino, facendo valere più remoti vincoli di parentela, Caterina de' Medici. G. avrebbe visto di buon occhio Filippo II sul trono di Portogallo, perché riteneva che una Spagna resa più potente da nuovi acquisti territoriali avrebbe potuto cooperare più efficacemente con il papato nella lotta contro eretici e infedeli. Ciò malgrado, tenuto conto delle preesistenti rivalità tra i candidati, G. preferì adottare un atteggiamento ispirato a due principi fondamentali: mantenere la più rigorosa neutralità e vigilare affinché la controversia successoria non degenerasse in un conflitto armato tra principi cattolici. Soltanto quando, all'indomani della morte del cardinale Enrico (31 gennaio 1580), risultò chiaro che Filippo II si preparava a intervenire militarmente in Portogallo per fare valere i propri diritti, il papa decise di inviare presso di lui il cardinale A. Riario, in qualità di legato "a latere", al fine di scongiurare un possibile conflitto. La missione di pace fallì per il semplice motivo che il legato poté abboccarsi con il sovrano soltanto quando l'esercito spagnolo aveva ormai varcato la frontiera del vicino Regno e se ne era praticamente già reso padrone. Messo dinnanzi al fatto compiuto, G. non esitò a riconoscere ufficialmente Filippo II come re di Portogallo: le speranze che il sovrano avrebbe finalmente appoggiato la Santa Sede nei suoi piani d'azione contro la potenza ottomana e contro l'Inghilterra dovevano però presto rivelarsi infondate.
In effetti, G. aveva, sin dal luglio 1572, inviato alla corte di Madrid un nunzio straordinario, il vescovo di Padova N. Ormaneto (poi destinato a rimanere a Madrid come nunzio ordinario) per spingere il sovrano ad ordinare un massiccio attacco navale contro il Turco e a preparare la conquista dell'Inghilterra. I negoziati del nunzio Ormaneto non ebbero, però, esito positivo. Filippo II si trincerò dietro le buone parole, ma evitò di assumere impegni concreti, soprattutto per quanto riguardava la partecipazione della Spagna all'offensiva antiturca. Né migliori risultati produsse, al riguardo, la decisione di G. di inviare a Madrid altri rappresentanti straordinari nel 1573 e nel 1574.
Alla luce dell'impegno profuso da G. per assicurare un'adeguata partecipazione spagnola ai suoi piani antiturchi, ben si comprendono i sentimenti di indignazione con i quali il papa accolse, nell'estate 1577, la notizia delle trattative intavolate dalla Spagna con la Sublime Porta in vista della conclusione di una tregua. Ma né le pressioni della diplomazia pontificia a Madrid, né la decisione del papa di non rinnovare la concessione del "subsidio de las galeras" (il privilegio pontificio in forza del quale la Corona poteva tassare il clero per finanziare le operazioni navali contro gli infedeli) valsero a impedire la firma di un armistizio.
G. non contava soltanto sull'appoggio determinante della Spagna alla sua politica antiturca: egli faceva assegnamento pure sulla sua partecipazione ai piani pontifici d'invasione dell'Inghilterra. Anche in questo caso, l'azione diplomatica di G. perseguiva un obiettivo concepito da Pio V: l'invasione dell'isola, la deposizione di Elisabetta I e la restaurazione del cattolicesimo. La realizzazione di tale piano presupponeva il superamento delle rivalità tra Francia e Spagna. Per questo motivo il pontefice si era fatto promotore, nel 1572, di un'alleanza matrimoniale franco-spagnola e aveva persino ventilato la possibilità che, una volta celebrato il connubio, gli sposi, vale a dire il duca d'Angiò e l'infanta, potessero salire sul trono d'Inghilterra. La proposta non fu raccolta da Filippo II in quanto non vedeva di buon occhio un fratello del re di Francia regnare sull'isola; preferiva piuttosto mettere sul trono la regina di Scozia, Maria Stuarda (in quel momento prigioniera di Elisabetta I) e unirla in matrimonio con un esponente dell'aristocrazia cattolica inglese, mentre il figlio di Maria, Giacomo, sarebbe stato inviato in Spagna, educato nel cattolicesimo e dato poi in sposo ad un'infanta.
Questa prima fase dei negoziati ispano-pontifici non ebbe seguito, perché dopo l'uscita di Venezia dalla lega antiturca assicurare una massiccia presenza navale della Spagna nel Mediterraneo divenne un obiettivo prioritario della politica spagnola di Gregorio XIII. Soltanto nel 1575, in un momento in cui la minaccia di un'offensiva ottomana sembrava allontanarsi, le trattative furono riprese a Roma con la partecipazione di un rappresentante dei cattolici irlandesi P. O'Hely. Seguendo un suggerimento di quest'ultimo, il papa modificò parzialmente i propri piani e iniziò a prendere in considerazione anche la conquista dell'Irlanda. In un primo momento pensò di conferire la Corona irlandese a don Giovanni d'Austria, mentre quella inglese sarebbe andata a Maria Stuarda, a sua volta destinata a sposare un principe italiano. Il pontefice finì poi per propendere verso un'altra soluzione, e cioè il matrimonio tra don Giovanni e Maria.
Il nuovo piano papale coincideva con le ambizioni del fratellastro di Filippo II, il quale aspirava ad essere nominato governatore dei Paesi Bassi per potere da lì preparare la spedizione e salpare alla conquista dell'Inghilterra. Il papa approvò questo progetto e lo caldeggiò presso Filippo II. Nella primavera del 1576 questi decise la nomina di don Giovanni a governatore. Il sovrano, tuttavia, non vedeva di buon occhio l'immediata messa in esecuzione del piano d'invasione: da un lato temeva che l'impresa contro l'Inghilterra distogliesse dai Paesi Bassi le forze necessarie per reprimere la rivolta; dall'altro paventava eventuali ritorsioni di Elisabetta I, la quale avrebbe potuto accrescere gli aiuti che già forniva ai ribelli. L'atteggiamento temporeggiatore di Filippo II e le gravi difficoltà incontrate da don Giovanni nella sua opera di pacificazione indussero, nel 1577, G. a rinunciare all'impresa contro l'Inghilterra e a puntare ora su una spedizione in Irlanda, con l'idea di prendere le forze inglesi alle spalle.
A questo scopo, il papa decise di patrocinare uno sbarco di truppe in Irlanda, affidato all'avventuriero inglese T. Stuckley e all'irlandese J. Fitzmaurice Fitzgerald, della famiglia dei conti di Desmond. La spedizione pontificia si risolse in un disastro. Stuckley non partecipò alla spedizione, perché giunto a Lisbona - la base delle operazioni - finì con il seguire re Sebastiano nella sfortunata campagna africana. Fitzmaurice fallì nel suo primo tentativo di raggiungere l'Irlanda nel 1578 e fu costretto a tornare in Portogallo. Vi riuscì l'anno seguente, nel luglio 1579, attestandosi con il contingente spagnolo posto ai suoi ordini nella regione di Smerwick. Ricevuta la notizia del felice sbarco del corpo di spedizione pontificio, G. profuse ogni impegno nel sostenere l'impresa con adeguati finanziamenti: mise a disposizione 350.000 scudi e sollecitò l'intervento di Filippo II, il quale, a sua volta, fece fornire due navi per quattro mesi, quattromila uomini, oltre ad armi, munizioni e vettovaglie. Di conseguenza nell'agosto 1580 una squadra di sei navi al comando del capitano italiano Bastiano di San Joseppi (o San Joseffo) salpava per l'Irlanda, ove approdò dopo una quindicina di giorni. Nonostante i successi ottenuti dal Fitzmaurice nel fomentare la rivolta antinglese e nell'ottenere l'adesione di importanti esponenti dell'aristocrazia cattolica irlandese, il nuovo corpo di spedizione, assediato a Smerwick da soverchianti forze inglesi, il 9 novembre si dovette arrendere. L'infelice iniziativa pontificia in Irlanda non produsse altro effetto che quello di spingere Elisabetta I a un ulteriore giro di vite della sua politica anticattolica, a dispetto del fatto che G., il 14 aprile 1580, avesse dichiarato che era lecito ai cattolici riconoscere l'autorità della regina nella sfera temporale. La nuova ondata repressiva colpì particolarmente gli esuli cattolici inglesi che, con l'appoggio di Roma, erano riusciti a penetrare in Inghilterra: alcuni, come il gesuita R. Parsons, furono costretti a fuggire, altri vi persero la vita, e fra essi un altro gesuita, E. Campion, salito sul patibolo il 1° dicembre 1581.
G. non rivolse la sua attenzione soltanto all'Inghilterra e all'Irlanda: anche le sorti del cattolicesimo in Scozia gli stavano a cuore. Dopo il fallimento del progetto di riunione delle tre Corone sulla testa di Maria Stuarda e del suo eventuale matrimonio con don Giovanni, nel 1578, il papa s'interessò al piano, concepito dalla famiglia dei duchi di Guisa, imparentati con Maria, e consistente nel rapimento dell'erede al trono di Scozia, Giacomo, e nel suo successivo trasferimento in un paese ove avrebbe potuto essere educato nel cattolicesimo. Il papa si dichiarò disposto a contribuire con un sussidio finanziario, ma soltanto dopo che i Guisa avessero compiuto il primo passo. In attesa che ciò avvenisse, egli cercò di coinvolgere Filippo II nell'impresa. Tuttavia, nonostante i suoi reiterati inviti, nel 1584, il sovrano spagnolo non aveva preso alcuna decisione: il piano non ebbe perciò mai concreta attuazione.
Se il papa si preoccupò, durante l'intero pontificato, di assicurare il concorso di Filippo II alla politica antiturca e ai progetti di restaurazione del cattolicesimo nelle isole britanniche, ciò si deve al fatto che era pienamente consapevole di come la Spagna rappresentasse in quel momento l'unica potenza cattolica sul cui appoggio la Santa Sede potesse contare nella lotta contro eretici e infedeli. Si spiega così l'atteggiamento più flessibile e conciliante assunto, come si vedrà, nei frequenti conflitti giurisdizionali tra potere laico e potere ecclesiastico verificatisi tanto nei Regni peninsulari, quanto nei domini spagnoli d'Italia; si spiega così anche il sostegno dato alla politica di Filippo II nei Paesi Bassi, a dispetto della circostanza che, in alcuni momenti, il papa si dimostrò incline a seguire una linea d'azione diversa da quella adottata dal sovrano.
Nel quadro delle relazioni con la Corona cattolica si inserisce infatti l'azione di G. mirante a favorire la pacificazione dei Paesi Bassi in rivolta. Agli inizi del pontificato, il papa si limitò a proseguire la politica del suo predecessore, fornendo il sostegno, anche finanziario, della Santa Sede alla repressione attuata manu militari dal governatore spagnolo, il duca d'Alba. Il regime di terrore istaurato da quest'ultimo doveva però risolversi in un fallimento suggellato dalla sua sostituzione con don Luis de Requeséns alla fine del 1573. Ma l'evolversi della situazione indusse il papa a mutare atteggiamento e a farsi fautore di un perdono generale quanto più ampio possibile. Convinto che esso avrebbe sortito gli effetti auspicati soltanto se fosse stato esteso a Guglielmo d'Orange e agli altri capi della rivolta, G. era disposto a sorvolare sulla circostanza che l'uno e gli altri avessero abbracciato il calvinismo. L'atteggiamento realistico del papa non fu condiviso da Filippo II: l'amnistia concessa dal sovrano il 6 giugno 1574 non venne infatti estesa a quanti si rifiutassero di rientrare nel grembo della Chiesa cattolica. Come aveva previsto il papa, questa restrizione doveva impedire all'atto di clemenza di produrre i frutti desiderati.
La successiva pacificazione di Gand (5 novembre 1576), conclusa tra le province cattoliche da un lato, l'Orange, l'Olanda e la Zelanda dall'altro, rendeva palese il fallimento della politica di Filippo II. Deceduto il Requeséns, nella primavera del 1576 era stato nominato suo successore don Giovanni d'Austria con l'incarico di congedare le truppe spagnole e fare le necessarie concessioni, sempre che non ne risultasse alcuna menomazione all'autorità regia e fosse mantenuto l'uso esclusivo del culto cattolico. Sulla base di queste direttive don Giovanni emanò l'Editto Perpetuo del 12 febbraio 1577, accolto con grande favore a Roma. G. era infatti convinto che la partenza delle truppe spagnole - ed un loro auspicabile reimpiego nell'impresa d'Inghilterra - avrebbe favorito la pacificazione e, con essa, il trionfo del cattolicesimo. Per ottenere più rapidamente questi risultati, il pontefice impartì ripetutamente, tra il 1577 e il 1578, istruzioni ai vescovi dei Paesi Bassi affinché impedissero ai cattolici, e in particolare al clero, di prestare man forte ai ribelli. In appoggio all'opera di pacificazione intrapresa da don Giovanni, inviò presso di lui, in qualità di nunzio, il vescovo di Ripatransone F. Sega. A quest'ultimo veniva affidata una doppia missione: aiutare il principe a stabilire la pace con gli Stati Generali e spingerlo all'impresa d'Inghilterra. I due obiettivi facevano parte di un unico piano: solo con l'impiego delle truppe agli ordini del governatore sarebbe stato infatti possibile sconfiggere Elisabetta I, il che implicava la previa pacificazione dei Paesi Bassi. Tale progetto si rivelò di fatto irrealizzabile a causa degli ostacoli incontrati da don Giovanni. Il papa finì così con il concepire l'impresa d'Inghilterra come un'operazione da affidare unicamente ai fuorusciti inglesi e decise di mandare il Sega a Madrid in qualità di nunzio ordinario (20 luglio 1577).
La presa di Namur da parte di don Giovanni doveva peggiorare la situazione, provocando la rottura dei rapporti con gli Stati Generali e inducendo Filippo II al richiamo delle truppe spagnole uscite dai Paesi Bassi dopo la proclamazione dell'Editto Perpetuo. Anche G., che si era fino ad allora dimostrato favorevole alla ricerca di una soluzione pacifica, si convinse che soltanto la repressione per mezzo delle armi avrebbe riportato la pace in quelle martoriate province. A intricare ulteriormente la situazione contribuì poi la quasi contemporanea comparsa nei Paesi Bassi dell'arciduca Mattia, fratello dell'imperatore Rodolfo II, e del duca d'Angiò, fratello di Enrico III di Francia, decisi a pescare nel torbido per soddisfare le loro ambizioni di potere. Di fronte a queste nuove complicazioni, G. si convinse della necessità di mantenere il pieno appoggio alla politica di Filippo II. Mentre predisponeva passi diplomatici presso le corti di Parigi e di Vienna per ottenere il richiamo dei due principi, il papa, nel luglio 1578, faceva intimare ai cattolici dei Paesi Bassi il divieto di partecipare alle riunioni degli Stati Generali. Prese anche in considerazione la possibilità che la Santa Sede si interponesse come mediatrice fra tutte le parti coinvolte. Gli ostacoli incontrati lo indussero poi a lasciare a Rodolfo II questo compito e a limitarsi a inviare il nunzio G.B. Castagna alla Dieta imperiale, convocata apposta a Colonia per il 29 marzo 1578.
Nel frattempo, il 1° ottobre 1578, era deceduto don Giovanni. Gli succedeva nell'incarico il nipote, il duca Alessandro Farnese, cui Filippo II rinnovò le istruzioni date al predecessore. Farnese seppe muoversi con abilità: avendo le province dell'Hainaut e dell'Artois cercato di formare una confederazione cattolica al fine di contrastare l'avanzata del calvinismo (Unione di Arras, 6 gennaio 1579), il duca seppe convincerle ad aderire alla successiva pace di Arras (17 maggio 1579) insieme agli Stati di Lilla, Douai e Orchies. Pur comportando concessioni sul piano politico, la pace rappresentava un successo per la causa cattolica. Essa consentiva inoltre a Farnese di proseguire l'offensiva militare, coronata dalla conquista dell'importante piazzaforte di Maastricht (29 giugno 1579), nel momento in cui appariva chiaro che la rigidità delle posizioni assunte dai negoziatori spagnoli condannava la Dieta di Colonia a un sicuro fallimento. La piega presa dagli avvenimenti non poteva che risultare gradita a G.: a Roma si temevano infatti possibili concessioni a favore dei protestanti da parte dell'imperatore, sicché lo scioglimento della Dieta senza un nulla di fatto non suscitò alcun rammarico nell'animo del pontefice.
Assai più difficili di quelli con Filippo II furono i rapporti di G. con l'imperatore Massimiliano II, prima, e con il figlio Rodolfo II, poi. Nella mente del pontefice, l'imperatore avrebbe dovuto svolgere un ruolo di primo piano nella lotta contro i Turchi. I passi ripetutamente compiuti al proposito non dovevano però approdare a nulla. Massimiliano II, infatti, temeva che una volta aperte le ostilità contro il Turco, egli potesse essere abbandonato dai suoi alleati e trovarsi quindi a dover fronteggiare da solo un potente nemico. La defezione della Repubblica veneta, nel marzo 1573, lo avrebbe confermato nei suoi timori, sicché egli non si dimostrò disposto a rompere la tregua firmata con la Sublime Porta sin dal 1568. Nonostante l'impegno profuso, G. non riuscì quindi a fare aderire Massimiliano II, e, dopo di lui, Rodolfo II ai suoi progetti di alleanza offensiva. Altra fonte di preoccupazione per G. era rappresentata dalla politica religiosa di Massimiliano II, dato che questi, sia per inclinazione personale, sia per considerazioni di opportunità politica, era poco propenso ad assumere un aperto atteggiamento antiprotestante. Sotto questo profilo, l'ascesa al trono, nel 1576, di Rodolfo II destò in G. nuove speranze. Educato alla corte di Filippo II, il nuovo imperatore, almeno nella fase iniziale del suo regno, si dimostrò convinto difensore degli interessi cattolici. In quello stesso 1576 rifiutò di confermare le concessioni del padre a favore dei protestanti dell'Austria Superiore; due anni più tardi, proibì l'esercizio del culto riformato a Vienna, provvedimento lodato da G. in un breve gratulatorio del 13 luglio 1578. Rodolfo II si preoccupava però di non urtare la sensibilità in materia religiosa dei principi protestanti dell'Impero. La riprova si ebbe in occasione della missione inviata a G. per pronunciare a nome di Rodolfo II il tradizionale discorso di obbedienza. L'imperatore, per timore delle reazioni protestanti, si rifiutò categoricamente di fare inserire il termine "oboedientia" nel testo: pertanto nel discorso fatto leggere in occasione del pubblico Concistoro del 2 luglio 1577, a dispetto delle richieste romane, figurava soltanto l'espressione "oboedientissimus filius". Al papa non rimase che rassegnarsi e promulgare la richiesta bolla di approvazione.
I timori nutriti a Roma circa possibili cedimenti di Massimiliano II e Rodolfo II di fronte alle rivendicazioni dei protestanti sono rispecchiati nelle istruzioni impartite da G. ai cardinali legati inviati alle due Diete imperiali del 1576 e del 1582. In entrambi i casi, obiettivo principale delle missioni era quello di rafforzare le posizioni cattoliche e di impedire concessioni a favore dei riformati, in particolare la conferma della cosiddetta "Declaratio Ferdinandea", sottoscritta da Ferdinando I il 24 settembre 1555, ma mai promulgata. Con tale documento, in sostanza veniva concessa, in deroga alla normativa sancita dalla Pacificazione di Augusta, la libertà di culto ai luterani sudditi di principi ecclesiastici cattolici. Nella Dieta di Ratisbona, l'abile azione svolta dal cardinale Morone valse a impedire qualsiasi cedimento dell'imperatore. Analoghi risultati ottenne alla Dieta di Augusta del 1582 il cardinale Madruzzo. In quella occasione egli riuscì anche a fare escludere dalle sedute il rappresentante dell'amministratore dell'arcivescovado di Magdeburgo, carica in quel momento abusivamente occupata dal luterano e coniugato margravio Gioacchino Federico di Brandeburgo. Si trattò di un successo rilevante, perché costituì il primo passo per l'esclusione degli amministratori protestanti di altre diocesi dalle successive Diete imperiali.
Necessariamente condizionato dai rapporti con l'imperatore fu l'atteggiamento assunto da G. in relazione alle elezioni al trono di Polonia del 1573 e del 1575. A Roma si era pienamente consapevoli che soltanto la scelta di un candidato favorevole agli interessi cattolici potesse garantire il proseguimento dell'opera di restaurazione religiosa e, nel contempo, assicurare un fattivo contributo alla lotta antiturca. Per questo motivo, in entrambi i casi, G. si dimostrò favorevole alle candidature di un membro della Casa d'Asburgo, anche se il precipitare degli eventi nel corso delle due contese elettorali, finì con l'indurlo a schierarsi a favore del principale candidato rivale.
Sin da prima della scomparsa di Sigismondo II Augusto, avvenuta il 7 luglio 1572, G. aveva fatto sapere all'imperatore che la Santa Sede avrebbe garantito il proprio appoggio all'elezione del figlio secondogenito, l'arciduca Ferdinando, allorquando il trono si fosse reso vacante. Morto Sigismondo Augusto, il papa non mancò di impartire istruzioni al cardinale legato G.F. Commendone affinché si adoperasse per l'elezione del giovane arciduca. A confermare il pontefice in questa scelta contribuiva anche la circostanza che l'altro più autorevole candidato, Enrico di Valois, per appartenere alla famiglia reale di un paese, la Francia, legato alla Sublime Porta da capitolazioni, non offriva le necessarie garanzie in ordine a una decisa azione antiturca. A dispetto di queste premesse, G. adottò poi un atteggiamento a dire il vero non lineare e, dinnanzi all'opposizione che incontrava tra la nobiltà polacca la soluzione asburgica, finì per dare l'appoggio della Santa Sede all'elezione del candidato francese, resa pubblica il 16 maggio 1573.
L'ascesa nel 1574 di Enrico al trono di Francia, dopo la scomparsa del fratello Carlo IX (30 maggio 1574) doveva riproporre nuovamente il problema dell'elezione al trono polacco. Questa volta da parte asburgica si candidò, oltre all'arciduca Ernesto e all'arciduca Ferdinando del Tirolo, lo stesso Massimiliano II. E anche questa volta G. garantì all'imperatore il pieno appoggio della Santa Sede. Rafforzava ora tale scelta il fatto che il più temibile concorrente, il voivoda di Transilvania Stefano Báthory, non sembrava dare alcun affidamento né riguardo all'impegno antiturco, né riguardo alla difesa della causa cattolica. Al momento dell'elezione, però, si verificò una spaccatura in seno alla nobiltà polacca: una parte elesse Massimiliano II, mentre l'altra, formata dalla piccola nobiltà ("szlachta") si pronunciò a favore del Báthory, il quale riuscì a farsi incoronare re di Polonia il 1° maggio 1576. La successiva morte dell'imperatore trasse il papa dall'imbarazzo. Accantonando le riserve sul Báthory, G. accolse la legazione da questi inviata a Roma e lo riconobbe come re di Polonia. Si trattò di una decisione felice, perché, contrariamente alle previsioni, il nuovo sovrano si doveva rivelare un appoggio prezioso per la Santa Sede sia nella lotta contro i Turchi, sia nell'opera di restaurazione del cattolicesimo in Polonia.
Amare delusioni dovevano per contro procurare al papa i contatti stabiliti con la Santa Sede dal re di Svezia, Giovanni III Vasa. Quest'ultimo era sposato con la cattolica Caterina Jagellone, sorella del re di Polonia Sigismondo II Augusto. Pur propendendo, sotto l'influsso della moglie, verso il cattolicesimo, furono in realtà motivi di opportunità politica - la speranza di ottenere l'appoggio di Roma alle sue aspirazioni al trono polacco - e di convenienza personale - il desiderio di assicurarsi l'appoggio pontificio nel tentativo di recuperare la cospicua eredità italiana della moglie, discendente di Bona Sforza - a spingere il sovrano a tentare di allacciare rapporti con la Santa Sede. Stabiliti dapprima in forma indiretta, i contatti si concretarono nell'invio di un'ambasceria, giunta a Roma nella primavera del 1577, con l'incarico di prestare, a nome personale del re, atto di obbedienza al pontefice. Sebbene non gli sfuggissero le reali motivazioni del sovrano svedese, G. concepì la speranza di un ritorno della Svezia al cattolicesimo e, per favorirlo, inviò alla corte di Giovanni III il celebre gesuita A. Possevino. Questi ottenne, nel maggio 1578, la conversione segreta del sovrano. Per ristabilire la piena obbedienza a Roma, Giovanni III poneva però una serie di condizioni, alcune delle quali - in particolare la comunione sotto le due specie e il matrimonio dei chierici - furono giudicate inaccettabili da un'apposita commissione nominata dal papa. A nulla valse un secondo soggiorno del Possevino a Stoccolma tra l'agosto del 1579 e l'agosto del 1580: il re si dimostrò irremovibile, sicché G. dovette prendere atto che le sue speranze si erano dimostrate infondate.
Per quanto riguarda i problemi connessi con il governo dello Stato pontificio, va rilevato che non si riscontra in questo settore quella tendenza centralizzatrice caratteristica invece dell'azione di G. in campo politico-ecclesiastico e rispecchiata dalla più articolata struttura assunta dall'organizzazione curiale durante il suo pontificato. Le difficoltà incontrate dall'amministrazione papale nel controllare i contrasti tra fazioni cittadine scoppiati in alcuni centri urbani quali Rimini, Cesena o Fano indicano come il processo di rafforzamento del potere centrale fosse lungi dall'avere raggiunto il suo pieno sviluppo. Nel quadro di questo processo si potrebbero semmai inserire i provvedimenti miranti a esercitare un più oculato controllo sulle entrate della Camera apostolica e a migliorare il funzionamento dell'apparato fiscale ovvero l'ampliamento della giurisdizione dei funzionari pontifici a scapito di quella dell'amministrazione municipale sancita nei nuovi statuti di Roma, approvati dal pontefice nel 1580.
Nemmeno la revisione dei titoli feudali, decisa da G. il 1° giugno 1580, andava nel senso del rafforzamento del potere centrale a spese del potere signorile. Essa s'inquadra invece nello sforzo complessivo di riordinamento della gestione finanziaria, posto che la concessione dei feudi rappresentava una fonte di entrate per la Camera apostolica. La revisione dei titoli, peraltro avviata prima del 1580, portò alla confisca di non pochi possedimenti, ma non si tradusse in una politica antisignorile, come dimostra il consolidamento del potere politico ed economico delle élites aristocratiche di città quali Ravenna o Macerata, ovvero il mantenimento, a favore dei feudatari, dei tradizionali privilegi in materia di esportazione delle granaglie e di esercizio della giurisdizione feudale.
Durante il pontificato di G. si assiste a una recrudescenza del fenomeno del banditismo. In passato, tale recrudescenza è stata interpretata come una reazione violenta delle province contro la tendenza accentratrice del governo temporale e contro il peso della crescente pressione fiscale. E la protezione non di rado accordata da taluni nobili ai banditi, palese a tal punto da suscitare sospetti di collusione, è stata spiegata alla luce della supposta politica antifeudale del papa. Queste interpretazioni sono oggi rimesse in discussione poiché, come si è appena visto, non vi fu, sotto G., né rafforzamento del processo di accentramento nell'ambito dell'amministrazione temporale, né aumento del peso fiscale e nemmeno un sistematico atteggiamento antisignorile. Alla radice del fenomeno del banditismo sembrano invece agire cause tipiche delle società di antico regime, in particolare l'imperversare della violenza e della criminalità, nonché il diffuso spirito di anarchia e di rivolta.
Il carattere endemico di queste cause spiega in parte il motivo per cui, sotto G., la lotta contro la criminalità e soprattutto contro il brigantaggio non desse gli esiti sperati. Va però aggiunto che la situazione non fu affrontata con la necessaria energia. Successi soltanto effimeri riscosse, nel 1580, il cardinale A. Sforza dopo essere stato nominato dal papa legato per la lotta contro il banditismo in tutto lo Stato pontificio. Né migliori risultati ottennero i successivi commissari generali, uno dei quali fu il figlio stesso del papa, Giacomo. Alla già rilevata mancanza di un potere centrale forte ed efficiente, si aggiunge, nel fallimento della lotta contro il banditismo, la mancata collaborazione dei principi confinanti, in particolare del granduca di Toscana, Francesco de' Medici, sul cui territorio si rifugiavano talune bande operanti nella zona settentrionale dello Stato al termine delle loro scorrerie.
Particolari premure il pontefice rivolse alla popolazione di Roma, soprattutto a favore dei ceti meno abbienti. Nel 1576 fece emanare precise direttive in materia annonaria al fine di impedire speculazioni sul prezzo del frumento nei periodi di penuria. A partire da quell'anno furono poi presi anche particolari provvedimenti a favore del Monte di Pietà in modo da abbassare il costo del denaro preso a prestito. Nel 1581 affidò alla Confraternita della Trinità dei Pellegrini il compito di raccogliere tutti i mendicanti della città nel convento di S. Sisto, provvedendo all'assistenza degli inabili al lavoro e procurando un'attività retribuita agli altri. Il progetto naufragò dopo breve tempo perché la sua realizzazione richiedeva risorse finanziarie superiori a quelle di cui disponeva la Confraternita.
Di notevole rilevanza furono gli interventi urbanistici, edilizi e artistici voluti da Gregorio XIII. Sotto questo profilo, riveste particolare importanza la costituzione Quae publice utilia del 1° ottobre 1574 con la quale venivano presi provvedimenti miranti a migliorare la viabilità e a stimolare l'edilizia nella Città Eterna. In questi due settori, le iniziative promosse dal papa dovevano lasciare un'impronta duratura. È interessante notare come i più importanti interventi di G. riprendessero progetti già delineati, ma non portati a termine da Pio IV, papa del quale l'antico vescovo Boncompagni era stato collaboratore. Un esempio al riguardo è offerto dalle opere realizzate in vista dell'Anno santo del 1575 nell'area circostante la basilica di S. Giovanni in Laterano: l'erezione, su progetto di G. del Duca, di una porta nelle Mura aureliane, ove Pio IV aveva già fatto aprire una breccia, e la costruzione, in corrispondenza di essa, di una nuova via d'accesso alla città (l'attuale via Appia Nuova); l'apertura di due strade destinate a collegare la basilica, rispettivamente a S. Maria Maggiore e alla porta S. Sebastiano. In tal modo S. Giovanni veniva a trovarsi al centro di un sistema viario che si irradiava verso le principali chiese meta di pellegrinaggio. Altri interventi urbanistici e edilizi intrapresi in occasione dell'Anno santo riguardano la ricostruzione dell'antico ponte Emilio, detto ponte Rotto, ad opera di M. Bertolani da Città di Castello (noto come Matteo da Castello), la creazione di quattro fontane affidata a G. della Porta, uno degli architetti preferiti da G., a piazza Colonna, piazza del Pantheon e alle due estremità di piazza Navona, la trasformazione dell'antico "planetarium" delle Terme di Diocleziano in deposito di grano progettata da M. Longhi il Vecchio. Se a G. si deve anche l'inizio, nel 1583, dei lavori di erezione del palazzo del Quirinale su un primo progetto di O. Nonni, detto il Mascherino, assai più significativi furono i lavori di abbellimento eseguiti in edifici sacri e la costruzione di nuove chiese, come il restauro del battistero e l'erezione della cappella del Santissimo nella basilica lateranense, come la committenza del ciclo delle trentaquattro scene di martirio, affrescate da N. Circignani, detto il Pomarancio, Matteo da Siena e altri, in S. Stefano Rotondo, o come la costruzione, nel 1578, della cappella Gregoriana in S. Pietro, e, nel 1580, della Madonna dei Monti, capolavoro del della Porta. Notevoli, infine, furono gli interventi artistici promossi in Vaticano, quali gli affreschi della sala Regia affidati a G. Vasari e F. Zuccari, quelli della volta della sala di Costantino, dipinti da L. Laureti, o la galleria delle Carte Geografiche, progettata, lungo il cortile del Belvedere, dal Mascherino: gli affreschi topografici, disegnati da I. Danti, noto architetto, astronomo e matematico, furono eseguiti dal fratello Antonio. A G. si deve infine la costruzione della torre dei Quattro Venti, affrescata da Pomarancio, da C. Roncalli e da M. e P. Brill.
Se sul piano politico-diplomatico e su quello dell'amministrazione dello Stato pontificio, le iniziative di G. non furono sempre coronate da successo, va per contro messa in evidenza la fondamentale importanza che il suo pontificato riveste sotto il profilo religioso. Sviluppando sistematicamente l'opera avviata da Pio V, egli si adoperò per una metodica applicazione della riforma voluta dal concilio di Trento e per il rafforzamento delle posizioni cattoliche ovunque esse fossero minacciate dalla diffusione del protestantesimo. La dichiarata volontà di G. di dare impulso a una sistematica applicazione della riforma elaborata dal concilio ebbe per effetto di rafforzare il centralismo romano. Nel prendere decisamente la guida dell'azione riformatrice, il pontefice si avvalse infatti principalmente di tre strumenti: le Congregazioni romane, le Nunziature e i nuovi centri di formazione sacerdotale eretti per iniziativa della Santa Sede. Vale la pena di notare come anche in riferimento all'erezione di nuove Congregazioni cardinalizie e al ripristino di altre, la cui attività era stata interrotta, G. seguì, sviluppandoli però con maggiore sistematicità, gli orientamenti del suo predecessore. Agli inizi del 1573, G. rendeva operativa la Congregazione dei Vescovi, formalmente istituita da Pio V il 13 gennaio 1572, ma mai entrata in funzione. Inizialmente alla Congregazione fu affidato soprattutto il compito di seguire e di coordinare il programma delle visite apostoliche fatto attuare dal papa per le diocesi dell'Italia centrosettentrionale a partire dal 1573. Nel giro di pochi anni il dicastero andò ampliando le proprie attribuzioni, pur occupandosi quasi esclusivamente della situazione religiosa della penisola italiana e delle isole adiacenti. Rientrarono progressivamente nelle sue competenze la trattazione dei problemi derivanti dall'attuazione dei decreti tridentini, le questioni connesse con il governo spirituale delle diocesi e, in particolare, quelle relative alle comunità religiose femminili soggette all'autorità dell'ordinario diocesano. Attraverso la Congregazione dei Vescovi, G. poté così dare un deciso impulso alla riforma postridentina in Italia e all'opera di disciplinamento che ad essa si accompagnò.
Ad un altro particolare settore della vita religiosa italiana il papa rivolse la sua speciale attenzione attraverso l'istituzione di una nuova Congregazione cardinalizia. Nel Concistoro del 10 giugno 1573, infatti, G. eresse la Congregazione per i Greci d'Italia. Compito principale del nuovo organismo era quello di sovraintendere al governo spirituale dei Greci d'Italia e dei monasteri dell'Ordine di S. Basilio, nonché di elaborare un provvedimento generale di riforma che recepisse le direttive tridentine, soprattutto in materia disciplinare e liturgica. Di fatto, però, la Congregazione non raggiunse l'obiettivo prefissato, sicché, a partire del 1581, la sua attività registrò una sostanziale stasi.
Risultati ben più rilevanti e significativi produsse per contro la decisione del pontefice di riattivare, verso la fine del 1572, i lavori della Congregazione Germanica, eretta anch'essa da Pio V nel 1568, ma da tempo scarsamente attiva. L'efficacia dell'azione svolta dall'organismo cardinalizio fu determinata anche dall'oculata designazione papale dei suoi componenti, porporati appartenenti all'area tedesca, come O. von Truchsess von Waldburg, M.S. Altemps o L. Madruzzo, vescovo di Trento, ovvero italiani esperti di problemi di quell'area, come Morone o Commendone, nonché lo stesso segretario domestico T. Gallio. A differenza della Congregazione dei Vescovi, la Congregazione Germanica si occupò non soltanto delle questioni religiose, ma anche dei problemi politico-ecclesiastici del mondo tedesco. Accanto al lavoro svolto dagli organismi centrali della Chiesa, di fondamentale importanza risulta l'azione svolta dai nunzi che, non a caso, sotto G. andarono aumentando di numero. Le Nunziature non erano mai state mere rappresentanze diplomatiche. A partire dal pontificato di papa Boncompagni, però, esse si andarono progressivamente trasformando in efficienti strumenti della volontà papale di riforma ecclesiastica. Nella Spagna di Filippo II i nunzi svolsero una parte fondamentale nel promuovere l'applicazione del concilio: in questo settore si distinse particolarmente N. Ormaneto, già vicario generale dell'arcivescovo di Milano C. Borromeo.
Sui rappresentanti pontifici ricadeva l'incombenza di vigilare circa l'osservanza dell'obbligo di residenza, di pungolare i vescovi per spingerli ad adempiere i loro obblighi pastorali, di invitarli a erigere, secondo le prescrizioni conciliari, un seminario nella propria diocesi: punto, quest'ultimo, che stava particolarmente a cuore a G., come evidenziano le tassative istruzioni date nel 1582 al nunzio F. Sega. Specifici poteri il papa volle fossero conferiti ai nunzi in ordine alla riforma del clero regolare spagnolo, soprattutto maschile: tale riforma fu portata a termine dall'Ormaneto nei confronti dei Premostratensi, nel 1577, mentre risultati parziali nella stessa direzione furono ottenuti dal Sega negli anni seguenti per quanto riguarda i Mercedari, i Francescani e i Certosini. In Francia, ove lo stato di generale confusione provocato dalle guerre civili non consentiva interventi sistematici al fine di ristabilire la disciplina ecclesiastica, le preoccupazioni di G. si incentrarono sul problema della pubblicazione, sotto forma di legge del Regno, dei decreti del concilio di Trento. Ma al riguardo, le richieste del papa, reiteratamente presentate attraverso i nunzi, dovevano incontrare una opposizione insuperabile. Il potere regio non intendeva promulgare la normativa tridentina perché la giudicava lesiva delle libertà gallicane, delle quali si considerava difensore e custode; un settore del clero vi si opponeva, in particolare i Capitoli cattedralizi, perché con l'applicazione dei canoni tridentini avrebbero perso una parte delle loro antiche esenzioni dall'autorità vescovile. Nonostante i ripetuti passi dei successivi rappresentanti pontifici G. morì senza aver visto la pubblicazione in Francia dei decreti tridentini, che peraltro la Corona non effettuerà mai.
Fu, però, nel mondo tedesco che l'azione dei nunzi si rivelò particolarmente fruttuosa ai fini dell'opera di restaurazione del cattolicesimo. All'inizio del suo pontificato, su indicazione della Congregazione Germanica, G. istituì due nuove Nunziature che vennero ad aggiungersi a quella, preesistente, presso l'imperatore. Le due nuove istituzioni rivestivano carattere innovativo nella misura in cui i loro titolari non furono accreditati presso una singola corte, bensì presso tutti i principi di una determinata area geografica; ai nunzi, inoltre, vennero affidati esclusivamente compiti di natura religiosa, più simili a quelli di un visitatore apostolico che a quelli di un rappresentante diplomatico. Così, nel 1573, il papa nominò nunzio nella Germania Superiore (Tirolo, Stiria, Baviera e provincia ecclesiastica di Salisburgo) l'abate B. Portia, coadiuvato dal domenicano F. Ninguarda, e nunzio nella Germania Inferiore (diocesi di Treviri, Colonia, Magonza, Augusta, Spira, Worms e Minden, l'intera Vestfalia, nonché i Ducati di Cleve, Jülich e Berg) l'auditore di Rota G. Gropper, affiancato dal francescano F. Sporeno e dal sacerdote secolare N. Egard. Entrambe le Nunziature non ebbero vita lunga: la prima fu soppressa nel 1583, dopo che nel 1580 G. aveva eretto la Nunziatura di Graz; la seconda si estinse nel 1578, ma ebbe un ideale prolungamento con l'istituzione, nel 1584, della Nunziatura di Colonia.
Difficilmente può essere sottovalutata l'opera dei rappresentanti papali nei paesi di lingua tedesca durante il pontificato di Gregorio XIII. Compito loro affidato fu quello di stimolare vescovi e superiori regolari - con l'eventuale coinvolgimento, se necessario, dei principi secolari - a promuovere l'attuazione della riforma ecclesiastica secondo le direttive tridentine. Sin dagli inizi, gli inviati di Roma si adoperarono per ottenere la convocazione dei concili provinciali e dei sinodi diocesani. Così, nel 1573, il Portia riuscì a fare celebrare un concilio nell'importante provincia ecclesiastica di Salisburgo; grazie agli sforzi del Ninguarda fu ivi ottenuta anche la riunione di un sinodo diocesano nel 1576 e avviato il progetto di erezione di un seminario, di fatto però portato a termine soltanto tra il 1582 e il 1583. Laddove non fu possibile erigere seminari, i rappresentanti pontifici promossero la fondazione di collegi dei Gesuiti, come avvenne nel 1580 sia nella diocesi di Strasburgo, a Molsheim, sia nella diocesi di Augusta. Proficua si rivelò l'opera riformatrice del Ninguarda, al quale G. aveva conferito l'incarico di visitatore, dapprima dei conventi degli Ordini mendicanti della provincia ecclesiastica di Salisburgo e degli Stati degli arciduchi Carlo e Ferdinando d'Asburgo, e, quindi, nel 1574, dei conventi della Boemia e della Moravia.
Il problema più delicato che si poneva nei territori dell'Impero era quello dell'elezione dei vescovi, diritto normalmente spettante ai singoli Capitoli cattedralizi, in seno ai quali sedevano non di rado elementi filoprotestanti. In alcuni casi l'intervento degli inviati romani risultò determinante ai fini della designazione di un candidato cattolico, come avvenne per la nomina di C.A. von Spaur a vescovo di Gurk e, nel 1575, di J.C. Blarer a vescovo di Basilea. In altri, allo scopo di ostacolare candidature protestanti, G. si adoperò per fare procrastinare l'elezione: se ne ebbe un esempio a Münster, il cui seggio episcopale fu lasciato di fatto vacante tra il 1576 e il 1585. In altri casi ancora, il papa, sulla base di una valutazione realistica delle singole situazioni, preferì, seppure a malincuore, optare per soluzioni di ripiego. Così, al fine di impedire che importanti diocesi cadessero nelle mani dei luterani, il pontefice si rassegnò a confermare, in deroga al divieto tridentino di cumulo dei benefici, le successive elezioni dell'amministratore della diocesi di Frisinga, Ernesto di Baviera (peraltro ecclesiastico di costumi non irreprensibili), a vescovo di Hildesheim, nel 1573, di Liegi, nel 1581, e quindi ad arcivescovo e principe elettore di Colonia nel 1583.
Analoghi risultati, sotto il profilo della riforma ecclesiastica, furono ottenuti in Polonia grazie all'azione dei nunzi G.A. Calligari e A. Bolognetti, nonché nella Confederazione Elvetica, ove nel 1579 G. inviò come nunzio e visitatore il vescovo di Vercelli G.F. Bonomini. Nel quadro della sua azione riformatrice, G. attribuì grande importanza a un terzo strumento, i centri di formazione sacerdotale. L'applicazione del decreto tridentino che imponeva l'erezione di un seminario in ogni diocesi urtava ovunque contro ostacoli di natura organizzativa ed economica, specialmente nei paesi in cui le posizioni cattoliche erano più minacciate. In considerazione di queste difficoltà, il pontefice diede l'avvio a un programma sistematico orientato in due direzioni: a Roma, rafforzamento delle istituzioni già operanti e creazione di nuovi collegi per chierici provenienti da particolari aree geografiche; a nord delle Alpi, erezione di seminari nei centri considerati nevralgici dal punto di vista confessionale.
Nella Città Eterna, G. iniziò con il potenziamento di due preesistenti collegi retti dai Gesuiti: nel 1573 dotò il Collegio Germanico - fondato nel 1552 in vista della formazione dei chierici originari dei territori dell'Impero - di una rendita annua di 10.000 scudi e l'anno seguente gli assegnò una nuova sede nel palazzo di S. Apollinare, mentre nel 1580 univa ad esso il Collegio Ungarico, da lui eretto due anni prima; nello stesso periodo assicurò una cospicua dotazione al Collegio Romano, operante dal 1551, e ne fece ampliare la sede originaria. Con quest'ultimo duplice provvedimento egli venne di fatto a configurarsi come il secondo fondatore di quella che sin da allora fu, in suo onore, denominata anche Università Gregoriana. Frattanto, il pontefice aveva eretto il Collegio Greco, nel 1577, il Collegio Inglese, nel 1578, mentre, nel 1584, per suo diretto interessamento apriva i battenti il Collegio Maronita.
Se Roma divenne, grazie alle sollecitudini di G., il luogo privilegiato per la formazione dei futuri sacerdoti, in particolare di quelli destinati a rientrare nei paesi d'origine per svolgervi la propria missione, non per questo il papa trascurò la creazione di istituzioni analoghe fuori d'Italia, in particolare nell'Europa centrale. All'interessamento del pontefice si deve l'erezione dei seminari o collegi di Vienna nel 1574, Praga nel 1575, Graz nel 1578, Olmütz nel 1579, Klausenburg nel 1583, Fulda nel 1584, Dillingen nel 1585. Con questo complesso di iniziative, dentro e fuori Roma, G. dava un contributo decisivo al raggiungimento di uno dei principali obiettivi della riforma voluta dal concilio, la creazione di un clero adeguatamente preparato a soddisfare le nuove esigenze della Chiesa postridentina. Si deve indubbiamente alla politica di riforma ecclesiastica attuata da G. attraverso l'attività degli organismi centrali della Santa Sede, l'azione dei nunzi e la creazione di nuovi centri di formazione sacerdotale se il consolidamento delle posizioni cattoliche, soprattutto nell'Europa centrale, registrò, durante il suo pontificato, progressi così rapidi e decisivi. Al termine del suo pontificato nessuno avrebbe potuto più sostenere ciò che si dava per scontato un quarantennio prima, vale a dire che il mondo germanico fosse stato definitivamente perso per la Chiesa.
Altro settore della vita della Chiesa al quale G. dedicò particolari cure fu quello del clero regolare. La sua attenzione si concentrò innanzi tutto sul ripristino della disciplina regolare negli antichi Ordini religiosi presso i quali essa era andata decadendo. Intenzionato a proseguire l'azione avviata da Pio V, il pontefice emanò provvedimenti di riforma ispirati alle direttive tridentine, nei confronti, per esempio, dei Vallombrosani d'Italia, nel 1573 e nel 1574, degli Eremiti di S. Girolamo in quest'ultimo anno, dei Trinitari di Spagna e Portogallo nel 1576, dei Cistercensi nel 1578. Una serie di misure, in particolare una costituzione del 13 giugno 1575, mirò invece a ristabilire secondo il primitivo rigore l'osservanza della clausura in seno alle comunità femminili.
Nel quadro del suo programma di rinnovamento religioso, il papa favorì l'espansione degli Ordini di recente fondazione, quali i Barnabiti, i Teatini o i Cappuccini. Ma l'Ordine per il quale dimostrò una evidente inclinazione e al quale accordò particolare protezione per l'opera svolta in campo educativo e missionario fu la Compagnia di Gesù: non a caso ad alcuni dei suoi esponenti di maggior spicco - P. Canisio, A. Possevino, L. Norvegus, P. Skarga - furono affidati durante il suo pontificato importanti incarichi.
Il nome di G. rimane anche vincolato alla storia della riforma carmelitana promossa da Teresa d'Ávila e della Congregazione dei preti secolari dell'Oratorio. Da papa Boncompagni quest'ultima ottenne il riconoscimento canonico nel 1575. Veniva così formalmente eretta a Ordine religioso quella comunità di ecclesiastici costituitasi intorno alla figura carismatica di Filippo Neri, al quale il papa era personalmente legato. Più guardingo fu inizialmente l'atteggiamento di G. nei confronti della riforma carmelitana. Nella prima fase del pontificato, verosimilmente per effetto delle informazioni ostili al movimento di rinnovamento promosso da Teresa d'Ávila ricevute dal generale dell'Ordine G.B. Rossi, G. approvò l'iniziativa di quest'ultimo di inviare da Roma a visitare le nuove fondazioni spagnole un frate da lui nominato. Successivamente, il pontefice si convinse dell'importanza della riforma teresiana e, per conseguente, della necessità di riconoscere al nuovo istituto dei Carmelitani Scalzi una maggiore autonomia. Pertanto, con breve del 22 giugno 1580 eresse i rami maschile e femminile dei "descalzos" in un'unica Congregazione autonoma.
L'azione mirante ad attuare la riforma postridentina in tutta la Chiesa includeva necessariamente anche la difesa della giurisdizione ecclesiastica contro le invadenze del potere civile: una sistematica applicazione dei decreti tridentini richiedeva infatti il rafforzamento dell'autorità dei vescovi e della Santa Sede stessa in quei casi in cui il libero esercizio dei diritti della Chiesa fosse stato ostacolato dalle autorità laiche. In questo campo Pio V aveva a suo tempo seguito una linea d'azione inflessibile. G., pur dimostrandosi convinto difensore della giurisdizione ecclesiastica, era però incline, sia per temperamento, sia per scelta ragionata, ad assumere posizioni meno rigide di quelle del suo predecessore. In linea generale, il papa intendeva evitare che le tensioni prodotte da conflitti locali tra autorità laiche e autorità ecclesiastiche finissero con l'incrinare i rapporti tra il papato e le potenze cattoliche e con l'ostacolare il raggiungimento di obiettivi di più ampio respiro, quali l'attuazione del programma di riforma ecclesiastica o la lotta contro eretici e infedeli. Si spiega così come, agli inizi del pontificato, nel momento in cui si adoperava per rivitalizzare la lega antiturca, G. si astenesse dal rintuzzare le pretese della Repubblica di Venezia in relazione alla giurisdizione temporale sulla diocesi di Ceneda e dal protestare contro le difficoltà più di una volta frapposte dalle autorità venete al rilascio dell'assenso ducale per l'immissione degli ecclesiastici nel possesso dei loro benefici. Ma le controversie più acute si verificarono nei Regni e domini della monarchia ispanica. La politica regalistica di Filippo II determinava infatti frequenti inframettenze del potere laico nelle materie meramente ecclesiastiche. Lo attestano, ad esempio, la pretesa del re di imporre la presenza di un rappresentante regio durante i lavori del concilio provinciale di Toledo del 1582-1583 o le intromissioni del Consiglio Reale nei conflitti insorti, durante gli anni precedenti, tra i vescovi di Calahorra e di Cadice e i rispettivi Capitoli cattedralizi. Le maggiori tensioni si vennero tuttavia a creare a Napoli, nel 1572 e nel 1573, e soprattutto a Milano, ove le rivendicazioni in materia giurisdizionale del cardinale Borromeo si scontrarono ripetutamente contro l'opposizione delle autorità spagnole. Nel 1573 i rapporti si erano a tal punto deteriorati che l'arcivescovo non aveva esitato a fulminare la scomunica contro il governatore L. de Requeséns. In quell'occasione, G., nonostante il parere contrario del Borromeo, concesse al rappresentante di Filippo II l'assoluzione in considerazione del fatto che era stato nel frattempo nominato governatore dei Paesi Bassi, ove non era opportuno giungesse nella condizione di scomunicato.
La maggiore flessibilità delle posizioni del papa, rispetto a quelle dell'arcivescovo di Milano, dinnanzi alle pretese delle autorità spagnole era anche determinata dal quadro politico-ecclesiastico più generale ed è confermata dalla linea seguita dal pontefice nel corso delle complesse trattative intavolate a Roma, tra il 1578 e il 1581, in relazione ai conflitti giurisdizionali che da tempo intorbidavano i rapporti tra potere laico e potere ecclesiastico nei domini spagnoli d'Italia. Sebbene G. si dimostrasse fermo nella difesa dei principi giuridici, il desiderio di non compromettere il più generale clima d'intesa con la Spagna - l'unica potenza cattolica dal cui appoggio il papato, in quel momento storico, non poteva prescindere - lo indusse ad avallare soluzioni di compromesso per quanto riguardava l'esercizio dell'"exequatur" a Napoli, nonché di quel complesso di diritti d'intervento, rivendicato dalla Corona spagnola nelle questioni ecclesiastiche del Regno di Sicilia e noto con il nome di Legazia Apostolica o Monarchia Sicula.
Di fatto l'intransigenza dimostrata dagli inviati a Roma di Filippo II, A. de Borja, marchese di Alcañices, e F. de Vera, nel sostenere le pretese della corte di Madrid non consentì di raggiungere alcuna intesa e portò alla rottura delle trattative.
Naturalmente, nei casi in cui era in giuoco l'autorità della Santa Sede, G. non esitava ad agire con fermezza. Così, quando con decreto del 4 ottobre 1580 il parlamento di Parigi proibì la pubblicazione e l'applicazione in Francia delle disposizioni contenute nella bolla In coena Domini, il pontefice fece esercitare dal nunzio insistenti pressioni su Enrico III finché, nel dicembre 1581, non ottenne tanto la revoca della decisione, quanto la distruzione materiale del documento che la conteneva. Analogamente, impose al sovrano di annullare due ordini, emanati nel 1582 e nel 1583, in forza dei quali era stata disposta, senza il consenso previo della Santa Sede, la riscossione di decime sulle rendite del clero. Ma anche nei confronti della Corona francese G. seppe mostrarsi accomodante allorquando si trattò di tutelare superiori interessi di natura religiosa. In cambio dell'eliminazione di numerosi abusi introdotti nelle provviste regie ai vescovati, il pontefice accondiscese nel 1582 a sancire il principio in base al quale le rendite di ciascun beneficio ecclesiastico potevano essere gravate da pensioni a favore di laici.
Merito precipuo di G. fu quello di avere compreso come la battaglia a favore del rafforzamento del cattolicesimo dovesse essere combattuta anche sul terreno della cultura, attraverso un rilevante e qualificato impegno soprattutto nel settore delle scienze sacre e degli studi ecclesiastici. Durante il suo pontificato, Roma divenne una vera e propria fucina di iniziative culturali e di imprese editoriali. Nel contesto degli indirizzi generali della riforma postridentina vanno inserite la prosecuzione dei lavori per una nuova edizione del testo greco della Bibbia, detto dei Settanta, ad opera di una commissione della quale facevano parte il dotto cardinale A. Carafa e rinomati studiosi quali F. Orsini e i gesuiti R. Bellarmino e F. Toledo; la revisione dei libri corali affidata, nel 1577, a due musicisti, il celebre compositore G. Pierluigi da Palestrina e A. Zoilo, poi di fatto tradottasi in una rielaborazione dei testi musicali che non ricevette l'approvazione pontificia; la pubblicazione, nel 1582, del Corpus Iuris Canonici, nell'ambito del quale particolare cura era stata dedicata alla emendazione del Decreto di Graziano; la stampa di catechismi nelle lingue dell'Europa orientale e dell'Oriente cristiano; il sostegno dato alla Tipografia Orientale fondata dal cardinale F. de' Medici nel 1584, il cui primo lavoro fu l'edizione in quattromila esemplari della traduzione araba dei vangeli.
Di indole diversa, perché intese a ribadire le posizioni cattoliche in polemica con quelle protestanti, furono altre iniziative. G. era convinto assertore della necessità di dare una risposta cattolica alla storia ecclesiastica compendiata da parte luterana nelle Centurie di Magdeburgo. È probabilmente con questo intendimento che, nel 1578, prese personalmente l'iniziativa di commissionare una storia della Chiesa ad un celebre studioso suo concittadino, C. Sigonio. Va ascritto invece a merito di F. Neri l'avere individuato nel più giovane confratello C. Baronio il soggetto in grado di affrontare siffatta impresa: G. però non visse abbastanza per vedere pubblicato il primo tomo degli Annales ecclesiastici.
Il particolare interesse dimostrato dal pontefice per la scoperta, nel 1578, delle catacombe dei Giordani si spiega anche alla luce della circostanza che i dipinti murali in esse conservati attestavano come la venerazione delle immagini sacre, inesorabilmente condannata dai calvinisti, risalisse invece ai primi secoli dell'era cristiana: tali dipinti furono fatti riprodurre per inziativa del domenicano spagnolo A. Chacón (Ciacconio), il quale proprio a G. doveva la sua chiamata a Roma. La disponibilità di nuovi dati forniti dalla nascente archeologia paleocristiana ridiede slancio al progetto di una edizione emendata del Martyrologium Romanum. Il lavoro di revisione, inizialmente affidato dal papa a una commissione presieduta dal cardinale Sirleto, fu poi portato a termine da Baronio nel 1586, un anno dopo la scomparsa del papa. Collegata alla correzione del Martyrologium Romanum e, più in generale, alla precedente revisione dei libri liturgici (breviario e messale) promossa da Pio V, è l'altra iniziativa cui doveva rimanere indissolubilmente associato il nome di G.: la riforma del calendario. Tale riforma non fu infatti ispirata da motivazioni di carattere scientifico o culturale, bensì da una preoccupazione di carattere religioso, e cioè l'esigenza di far coincidere il calendario solare con il calendario ecclesiastico.
Già da tempo era noto agli esperti che l'errore nella stima della durata dell'anno, in base alla quale era stato elaborato il calendario giuliano, comportava un ritardo dell'anno civile rispetto all'anno solare. Nella seconda metà del Cinquecento lo sfasamento aveva ormai raggiunto i dieci giorni, sicché l'effettivo equinozio di primavera - in relazione al quale andava fissata la data della Pasqua di ciascun anno - cadeva in realtà l'11 marzo.
Per risolvere il problema, G. nominò, in data imprecisata, ma verosimilmente non posteriore al 1575, un'apposita commissione. Nella fase iniziale essa fu presieduta dal vescovo di Sora, T. Giglio, cui successe a partire, sembra, dal 1576, il cardinale Sirleto. Ne facevano parte giuristi, teologi e matematici: fra questi ultimi il domenicano I. Danti (lo stesso che aveva disegnato le mappe della galleria delle carte geografiche in Vaticano) e il gesuita tedesco C. Clavius. I lavori procedettero con lentezza. Soltanto alla fine del 1577 il progetto poté essere elaborato nella forma di un Compendium. G. lo fece inviare, per mezzo dei nunzi pontifici, ai principi e alle Università del mondo cattolico, affinché, a loro volta, lo trasmettessero ai matematici più competenti dei rispettivi paesi. Tenendo conto dei giudizi pervenuti, la commissione elaborò una relazione datata 14 settembre 1580, nella quale si proponeva di procedere alle necessarie correzioni nell'ottobre del 1581. L'entrata in vigore del nuovo calendario slittò invece di un anno. Il 24 febbraio 1582, G. emanava la bolla Inter gravissimas con la quale stabiliva che al giovedì 4 ottobre di quell'anno seguisse il venerdì 15 ottobre e che non fossero considerati bisestili gli anni centenari non multipli di 400. La riforma fu accolta immediatamente, o quasi, nei paesi cattolici; i paesi protestanti invece tardarono nell'adottarla, anche a motivo dei termini imperativi ("mandamus") con i quali la bolla papale la imponeva. Il sostegno della causa cattolica attraverso le attività culturali non escludeva, né poteva escludere l'esercizio del controllo sulla stampa attraverso gli strumenti della censura ecclesiastica. Fu proprio G. a rendere esecutiva, con la costituzione Ut pestiferarum opinionum del 13 settembre 1572, la decisione presa da Pio V nel Concistoro del 5 marzo 1571 di erigere un'apposita Congregazione cardinalizia permanente dell'Indice. Sotto papa Boncompagni, la Congregazione lavorò alla preparazione di un Indice espurgatorio e ad una nuova edizione dell'Indice tridentino del 1564. Nessuna delle due iniziative vedrà però la luce durante il suo pontificato. In questi anni si delinea una tendenza contraria alle traduzioni in volgare della Sacra Scrittura, come attesta la proibizione promulgata nel 1575 da G. della versione francese della Bibbia curata da R. Benoist. L'esercizio della censura ecclesiastica non era peraltro che un aspetto del più generale impegno del papa nella lotta contro l'eresia. Se, durante il suo pontificato, l'attività dell'Inquisizione romana sembra abbandonare i ritmi repressivi degli anni di Pio V, non per questo la sua opera di vigilanza fu meno attenta, come dimostrano i tredici imputati condannati alla pubblica abiura - e uno di essi al rogo - il 24 maggio 1573 o i diciassette penitenziati il 13 febbraio 1583, fra i quali figurava il domenicano G. Massilara, detto Paleologo, destinato a salire sul patibolo due anni più tardi.
Due comunque furono i casi di maggiore risonanza cui il papa dovette interessarsi. Il primo è quello dell'arcivescovo di Toledo, Carranza, del quale G., da cardinale, si era occupato in occasione della sua legazione in Spagna. Nel 1566, Pio V aveva avocato a sé la causa e, superando le resistenze spagnole, aveva imposto il trasferimento a Roma dell'imputato. Papa Ghislieri era convinto dell'innocenza dell'arcivescovo, ma morì prima di avere potuto pronunciare la sentenza assolutoria. Un esito del processo favorevole all'imputato era però osteggiato dall'inquisitore generale F. de Valdés, acerrimo avversario di Carranza, e dallo stesso Filippo II, il quale temeva che l'assoluzione di un imputato già processato in Spagna potesse sminuire il prestigio e l'autorità dell'Inquisizione spagnola. Per questo motivo, dopo l'elezione di G., accrebbe le pressioni sul papa, facendogli rimettere nuovi pareri teologici avversi all'imputato e invocando una condanna esemplare. G., che aveva partecipato personalmente all'ultima fase del processo romano, non tenne conto delle richieste del sovrano. Il 14 aprile 1576 veniva letta alla presenza del pontefice una sentenza relativamente mite. Con essa Carranza era giudicato "vehementer suspectus" d'eresia per diciassette proposizioni contenute nelle sue opere e condannato ad abiurarle "ad cautelam" prima di essere scarcerato. Il secondo caso del quale G. ebbe a occuparsi è quello del teologo Michele Baio (Michael de Bay), dal 1575 cancelliere dell'Università di Lovanio. Alcune sue tesi in materia di grazia e libero arbitrio erano state già condannate da Pio V con una bolla del 1° ottobre 1567. Ma proposizioni contenute nelle opere posteriori di Baio, ed in particolare i suoi dubbi circa l'infallibilità dottrinale del papa, dovevano dare adito al sospetto che egli non considerasse come definitiva la condanna pronunciata da Pio V. Filippo II e la stessa Università di Lovanio si appellarono perciò al nuovo pontefice. Con la bolla Provisionis nostrae del 29 gennaio 1579, G. accolse la richiesta e confermò, riportandone il testo integrale, la bolla del suo predecessore. Quindi, per assicurarsi la piena sottomissione di Baio, inviò a Lovanio, nel marzo 1580, il teologo gesuita F. Toledo. Questi ottenne dall'interessato una piena ed esplicita ritrattazione. Siccome, però, le sue tesi trovavano tra i suoi seguaci accesi sostenitori, nel 1584, G. incaricò il nunzio G.F. Bonomini di studiare, d'intesa con l'arcivescovo di Malines J. Hauchinus, il modo di sradicare l'errore. La soluzione individuata dai due presuli fu quella di affidare alla facoltà di teologia di Lovanio una trattazione sistematica degli argomenti controversi: il documento vedrà però la luce soltanto nel 1586.
Se s'impegnò in una lotta senza quartiere contro la Riforma in Europa, G. compì per contro ogni possibile sforzo per intensificare le relazioni con le Chiese dissidenti d'Oriente. L'inaspettato arrivo, tra la fine del 1577 e gli inizi del 1578, del più alto esponente della Chiesa siro-giacobita, il patriarca d'Antiochia Ignazio Na῾mattalah, accese le speranze di un ritorno all'unione con Roma delle Chiese monofisite (la sira, innanzittutto, nonché la copta, l'abissina e l'armena). Convinto assertore dell'unione, Ignazio aveva rinunciato alla dignità patriarcale facendo eleggere in suo luogo il nipote Dawudšah. G. lo accolse benevolmente, ma preferì trattare direttamente con il patriarca in carica. Seppure con lentezza i contatti stabiliti sembrarono sulle prime incamminarsi per il verso giusto, sicché, nel marzo 1583, il papa fece partire da Roma una missione pontificia, guidata dal gesuita L. Abel, per l'occasione promosso vescovo "in partibus" di Sidone, allo scopo di confermare l'elezione di Dawudšah, conferirgli il pallio e riceverne la piena professione di fede. Alla resa dei conti, però, l'auspicata unione non fu raggiunta. Nel frattempo, nell'estate del 1582, era stato deciso l'invio dei gesuiti G.B. Eliano e F. Sasso in Egitto nel tentativo di promuovere l'unione anche con la Chiesa copta. Nonostante le favorevoli disposizioni inizialmente dimostrate dal patriarca Giovanni al-Manfaluti, il progetto di unione fu respinto da un sinodo tenuto il 1° febbraio 1584. La morte del patriarca stesso, avvenuta repentinamente nel settembre successivo, segnò il definitivo fallimento della missione. Così, alla morte di G. l'auspicata unione con Roma delle Chiese monofisite non si realizzò: solo alcune isolate comunità caldee e armene accettarono infatti di pronunciare la professione di fede. L'interesse del papa per il dialogo interconfessionale si manifestò anche nei riguardi della Chiesa ortodossa. Sin dagli inizi del pontificato, G. rivolse ad essa la sua attenzione e ritenne di poter trovare nel patriarca di Costantinopoli Geremia II Tranos un interlocutore aperto al dialogo. I primi contatti furono stabiliti per mezzo del vescovo dalmata P. Cedolini, che soggiornò a Costantinopoli tra l'ottobre del 1580 e l'aprile del 1581. Una seconda missione affidata al cavaliere L. Cellini aveva per scopo di ottenere l'adesione del patriarca e della sua Chiesa alla revisione del calendario. La proposta fu però respinta da un sinodo riunito appositamente a Costantinopoli il 20 dicembre 1582.
Sebbene Geremia II non avesse mancato di manifestare il suo risentimento per una riforma unilateralmente decisa da Roma, egli continuava a dimostrarsi disponibile ad un proseguimento dei contatti. Di questa favorevole disposizione approfittò G. inviandogli, nell'estate del 1583, due nuovi emissari, M. Eparco e G. Buonafè, i quali erano latori di un breve pontificio e di doni. Questa volta la missione produsse esiti positivi: sinceramente fautore della causa dell'unità, Geremia II si dichiarò disposto a consultare gli altri patriarchi in vista di adottare entro due anni il nuovo calendario. La lettera con la quale comunicava a G. le sue intenzioni e che accompagnava con l'invio di reliquie e di doni preziosi lasciava presagire ulteriori possibili sviluppi. Nel marzo 1584, tuttavia, su denuncia di esponenti dell'alto clero costantinopolitano ostili ad ogni intesa con Roma, il patriarca fu arrestato dalle autorità turche e deposto. Quando, più tardi, recupererà il trono patriarcale, sulla cattedra di Pietro troverà un altro interlocutore, Sisto V, poco incline al dialogo con le Chiese orientali.
Quelli con il patriarca Geremia II non furono gli unici contatti allacciati da G. con il mondo ortodosso. Una occasione inattesa si presentò nel 1581, allorquando lo zar Ivan IV il Terribile fece chiedere al papa di interporre i suoi buoni uffici presso re Stefano Báthory al fine di giungere alla conclusione di una pace tra la Polonia e la Moscovia. Per quanto la richiesta dello zar non facesse alcun riferimento a questioni di natura religiosa, G. si lasciò indurre ad avviare la mediazione richiesta dalla speranza che il suo intervento sarebbe valso ad aprire uno spiraglio verso una possibile unione con Roma della Chiesa ortodossa russa. Per la delicata missione fu scelto Possevino: le istruzioni segrete impartitegli per ordine di G. configurano il ritorno della Moscovia all'unione con Roma come lo scopo principale della missione. Benché le trattative politiche si rivelassero irte di difficoltà, la mediazione pontificia, condotta con destrezza dal Possevino, produsse i suoi frutti, concretatisi con la firma della tregua decennale di Jam Zapolski del 15 gennaio 1582. Per contro, i colloqui in materia religiosa, svoltisi nel mese successivo tra il gesuita e Ivan IV, valsero soltanto a evidenziare l'insanabile divario delle rispettive posizioni e l'assenza, da parte dello zar, di una qualsiasi reale inclinazione per l'unione delle Chiese. A dispetto del suo fallimento sotto il profilo religioso, la missione di Possevino consentì comunque alla Santa Sede di acquisire più precise informazioni sulla situazione religiosa della Moscovia e sulle posizioni dottrinali della Chiesa ortodossa russa. Gli sforzi di G. per stabilire rapporti con le Chiese orientali non cattoliche furono accompagnati anche da una particolare attenzione dedicata all'evangelizzazione delle popolazioni non cristiane. Di grande rilevanza fu infatti l'impulso da lui dato all'espansione missionaria: il particolare slancio impresso da G. all'opera di evangelizzazione rappresenta infatti una delle prime risposte date alla più generale esigenza di adeguare l'azione della Chiesa postridentina a quella sua funzione universale cui il concilio di Trento l'aveva ripetutamente richiamata. È forse in questo settore che si manifesta nel modo più evidente la particolare predilezione del pontefice per la Compagnia di Gesù. Egli non solo confermò facoltà e privilegi ad essa concessi dai suoi predecessori, ma li ampliò: nel 1573, accordò la licenza di predicare a tutti i suoi membri delle Indie Occidentali e Orientali che in qualunque occasione avessero ricevuto l'approvazione del loro generale o di un vescovo, senza dovere richiedere una nuova autorizzazione; nel 1577, stabilì che ad essi potevano essere conferiti gli ordini sacri un anno prima del compimento dell'età fissata dal concilio di Trento e persino fuori dai tempi stabiliti; autorizzò, nel 1576, i Gesuiti della Nuova Spagna a erigere ovunque, anche nelle vicinanze delle missioni di altri Ordini religiosi, chiese, case e collegi; nel 1583, intervenne presso Filippo II affinché consentisse loro di predicare, confessare e insegnare la dottrina cristiana senza restrizione alcuna, raccomandando però che ad essi non fosse assegnata la cura spirituale dei colonizzatori, bensì unicamente degli indigeni. Nel 1585, infine, riservò ai soli membri della Compagnia, con esclusione di tutti gli altri regolari, l'evangelizzazione della Cina e del Giappone.
In effetti, è proprio in Estremo Oriente, grazie soprattutto all'opera di M. Ricci in Cina e di A. Vallignani in Giappone, che l'impegno missionario dei Gesuiti doveva produrre risultati significativi, anche se numericamente modesti. A sostegno di tali sforzi, con breve del 13 giugno 1583, G. assegnò un sussidio di 4.000 "cruzados" per il mantenimento dei seminari e dei collegi della Compagnia in Giappone. Nella primavera del 1585, poco prima di morire, il pontefice ebbe la gioia di accogliere la prima delegazione giapponese mai giunta in Europa. Guidata da Vallignani e formata da giovani cristiani, principi e aristocratici dei Regni del Giappone meridionale, essa giunse a Roma dopo un viaggio durato tre anni e mezzo. Notevoli progressi registrò pure l'evangelizzazione delle Filippine, dapprima ad opera degli Agostiniani e, quindi, a partire dal 1577, anche dei Francescani. In riconoscenza per l'appoggio ricevuto da G., questi ultimi intitolarono la custodia da loro fondata a s. Gregorio Magno. Lo sviluppo dell'attività missionaria in Estremo Oriente imponeva anche un rafforzamento delle strutture ecclesiastiche. A tale fine, nel 1576, il pontefice creava la diocesi di Macao, la cui giurisdizione si estendeva alla Cina e al Giappone; tre anni più tardi, creava la prima diocesi delle Filippine con sede a Manila. In Africa, è soprattutto verso la copta Etiopia che si indirizzarono le sollecitudini del papa. Egli non solo la considerava una sorta di testa di ponte da utilizzare per la penetrazione del cristianesimo tra le popolazioni mussulmane e pagane del continente, ma le attribuiva anche una particolare rilevanza ai fini tanto della politica antiottomana, quanto dei progetti di riunione delle Chiese cristiane orientali alla Sede apostolica. Nel 1578 scriveva al re Sebastiano di Portogallo - i Portoghesi erano presenti in Etiopia sin dal 1490 - per sollecitarlo ad accordare la sua protezione ai cattolici ivi residenti contro le violenze di turchi e mussulmani. Il 3 gennaio 1579, al fine di garantire la continuità dell'azione missionaria, stabiliva che, in caso di scomparsa del patriarca cattolico d'Etiopia, A. Oviedo (il quale, di fatto, era già defunto), gli sarebbe subentrato, in veste di amministratore, il superiore della locale comunità gesuitica. Qualche mese più tardi, il papa scriveva al re di Etiopia - che il documento pontificio erroneamente identifica nella persona di Claudio, in realtà morto nel 1560, quando invece il sovrano regnante era il nipote Malach Sagad - per esortarlo a convertirsi al cattolicesimo e a concludere la pace con il principe ribelle, il Bahar Nagasì ("Principe del Mare") Ieshàch. Contemporaneamente G. indirizzava a quest'ultimo un messaggio nel quale lo ringraziava per la protezione accordata ai cattolici e tentava di indurlo a rompere l'alleanza contratta con i Turchi. A dispetto della promessa di aiuti inviata all'amministratore patriarcale, il gesuita M. Fernandes, e di nuove lettere spedite ai due principi, le aspettative riposte da G. in una possibile espansione missionaria nel paese e nella costituzione di una coalizione dell'Etiopia cristiana contro i Turchi si rivelarono fallaci. Malach Sagad riuscì a sconfiggere il rivale, ma poco si curò delle esortazioni papali, ammesso che gli fossero mai pervenute.
Rilevanti furono invece i progressi dell'attività missionaria nell'America spagnola, dei quali è già di per sé un significativo indicatore il consolidamento della organizzazione diocesana operato durante il pontificato. Come pietra miliare nella storia della evangelizzazione del Nuovo Mondo si configura il breve di G. del 25 gennaio 1576. Con esso il pontefice, invertendo la prassi sino ad allora seguita, concedeva ai vescovi delle Indie Occidentali la facoltà di conferire gli ordini sacri ai figli, anche illegittimi, di spagnoli e indigene, ovvero di spagnoli ivi residenti, sempre che i candidati fossero in possesso degli altri requisiti fissati dal concilio di Trento e che parlassero le lingue locali. La concessione si doveva scontrare contro l'opposizione delle autorità spagnole: il 2 dicembre 1578 un'apposita cedola reale di Filippo II ne vietò l'applicazione. Soltanto nel 1588, in seguito alle reiterate pressioni diplomatiche della Santa Sede, il sovrano accondiscese a revocarla: malgrado il ritardo con il quale la decisione del pontefice entrò in vigore, a G. spetta il vanto di avere dato l'avvio ad un processo che, con il tempo, era destinato a favorire la creazione di un clero indigeno nell'America spagnola. La solenne accoglienza della delegazione dei primi cristiani giapponesi, svoltasi il 23 marzo 1585, fu una delle ultime pubbliche cerimonie alle quali partecipò il pontefice. Egli doveva infatti spirare, dopo breve malattia, il 10 aprile successivo, alla veneranda età di ottantaquattro anni. I suoi resti mortali furono inumati quattro giorni più tardi nella basilica di S. Pietro. Lo sviluppo che hanno conosciuto le ricerche sul suo pontificato e in particolare la sistematica pubblicazione delle fonti, non soltanto diplomatiche, avviata da tempo, consentono di proporre un giudizio globale sul suo operato. Nel tentare di delineare siffatta valutazione complessiva occorre distinguere l'azione del papa nel campo politico-diplomatico da quella svolta nel campo più specificamente religioso, ancorché la prima sia spesso intrecciata con la seconda e da essa costantemente ispirata. Per G., come per la maggior parte degli altri papi del periodo postridentino, i rapporti con gli Stati, cattolici o meno, sono infatti condizionati da presupposti di natura confessionale.
Nel primo settore risulta evidente come alcuni degli obiettivi prioritari che il papa stesso si era prefissato agli inizi del pontificato non furono raggiunti. Con un totale fallimento si conclusero gli sforzi miranti a costituire una lega contro i Turchi o quantomeno a condurre una efficace politica antiottomana; i piani di restaurazione del cattolicesimo in Inghilterra; i contatti stabiliti con Giovanni III in vista di una possibile riunione della Svezia alla Chiesa di Roma. Questi insuccessi non debbono però indurre a sottovalutare, per contro, la rilevanza di un'azione diplomatica instancabile e paziente volta a impedire che le ricorrenti rivalità tra le maggiori potenze cattoliche - in particolare tra Francia e Spagna - potessero degenerare in aperti conflitti.
Ma è sotto il profilo religioso che l'importanza dell'opera di G. risulta palese. Il suo lungo pontificato segna un momento particolarmente incisivo dell'impegno rivolto dal papato postridentino all'applicazione del concilio di Trento e alla restaurazione del cattolicesimo laddove esso, sotto la spinta dell'avanzata protestante, aveva perduto terreno. Che questo impegno - peraltro preparato dalla coerente e vigorosa azione riformatrice di Pio V - rappresenti una scelta consapevole e definitiva risulta evidente anche dai riflessi istituzionali prodotti sulla struttura e sull'organizzazione del governo centrale della Chiesa. L'ampliarsi dell'attività delle Congregazioni cardinalizie permanenti, il moltiplicarsi di quelle temporanee con compiti delimitati, l'estendersi delle competenze dei nunzi alle questioni riguardanti la vita ecclesiastica e religiosa delle Chiese locali, accompagnata dalla stessa crescita numerica delle rappresentanze pontificie, il vigoroso sviluppo delle istituzioni per la formazione sacerdotale promosso da Roma, sono le manifestazioni più appariscenti di un processo di accentramento nel governo della Chiesa, in generale, e dell'opera riformatrice, in particolare. Tale processo consentì alla Santa Sede di operare, a partire da un quadro informativo più ampio e preciso, a favore del rinnovamento del cattolicesimo postridentino e di adempiere alla propria missione universale così come l'aveva delineata il concilio di Trento. Sotto questo profilo, il lungo pontificato di G. apre una nuova e fondamentale tappa nella storia del papato in età moderna.
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Per G. e la monarchia ispanica: B. de Meester, Le Saint-Siège et les troubles des Pays-Bas, 1566-1579, Louvain 1934, ad indicem; A. Fernández Collado, Gregorio XIII y Felipe II en la nunciatura de Felipe Sega (1577-1581). Aspectos político, jurisdiccional y de reforma, Toledo 1991; A. Borromeo, L'arcivescovo Carlo Borromeo, la Corona spagnola e le controversie giurisdizionali a Milano, in Carlo Borromeo e l'opera della "Grande Riforma". Cultura, religione e arti del governo nella Milano del pieno Cinquecento, a cura di F. Buzzi-D. Zardin, Milano 1997, pp. 260, 265 s.; Id., La Santa Sede y la candidatura de Felipe II al trono de Portugal, in Congreso internacional "Las sociedades ibéricas y el mar a finales del siglo XVI", VI, El área Atlántica. Portugal y Flandes, Madrid 1998, pp. 41-57, passim.
Per G. e i progetti di ricattolicizzazione dell'Inghilterra può essere ancora utilmente utilizzato il vecchio lavoro di A.O. Meyer, England und die katholische Kirche unter Elisabeth und den Stuarts, I, Roma 1911, ad indicem; cfr. anche T.H. Clancy, Papist Pamphleteers: The Allen-Persons Party and the Political Thought of the Counter-Reformation in England, 1572-1615, Chicago 1964, pp. 5, 54, 128; M. Benvenuta, The Geraldine War: Rebellion or Crusade?, "The Irish Ecclesiastical Record", 103, 1965, pp. 151, 153; A.M. Voci, L'impresa d'Inghilterra nei dispacci del nunzio a Madrid Niccolò Ormanetto (1572-1577), "Annuario dell'Istituto Storico Italiano per l'Età Moderna", 35-6, 1983-84, pp. 335-425; D. Flynn, The English Mission of Jasper Heywood, S. J., "Archivum Historicum Societatis Iesu", 54, 1985, pp. 49 s., 60, 71.
Sui rapporti con l'Impero e la Polonia, cfr. G. von Lojewski, Bayerns Weg nach Köln. Geschichte der Bayerischen Bistumspolitik in der zweiten Hälfte des 16. Jahrhunderts, Bonn 1962, ad indicem; K. Vocelka, Die politische Propaganda Kaiser Rudolfs II. (1576-1612), Wien 1981, ad indicem; A. Bues, Die habsburgische Kandidatur für den polnischen Thron während des ersten Interregnums in Polen, 1572/73, ivi 1984, pp. 135 ss.; S. Vareschi, La legazione del cardinale Ludovico Madruzzo alla Dieta imperiale di Augusta, 1582. Chiesa, papato, impero nella seconda metà del XVI secolo, Trento 1990; B. Steinhauf, Giovanni Ludovico Madruzzo (1532-1600). Katholische Reformation zwischen Kaiser und Papst. Das Konzept zur praktischen Gestaltung der Kirche der Neuzeit im Anschluß an das Konzil von Trient, Münster 1993, ad indicem; D. Neri, Giovanni Dolfin e la sua nunziatura a Vienna presso la corte imperiale negli anni 1575/76, in Kurie und Politik, pp. 137, 141-46; A. Koller, Der Konflikt um die Obödienz Rudolfs II. gegenüber dem Hl. Stuhl, ibid., pp. 148 ss.; J. Rainer, Die Grazer Nuntiatur 1580-1622, ibid., pp. 274, 278, 280; A. Bues, Die päpstliche Politik gegenüber Polen-Lituanen zur Zeit der ersten Interregna, ibid., pp. 116 ss.
Per le relazioni politico-religiose con i paesi dell'Europa settentrionale: O. Garstein, Rome Counter-Reformation in Scandinavia Until the Establishment of the S. Congregatio de Propaganda Fide in 1622 Based on Source Material in the Kolsrud Collection, I-II, Oslo 1963-80, ad indices; Id., Rome and the Counter-Reformation in Scandinavia. Jesuit Educational Strategy, 1553-1622, Leiden-New York-København-Köln 1992, ad indicem.
Sulla politica antiturca di G. non esiste alcun lavoro specifico: qualche indicazione in M. Petrocchi, La politica della Santa Sede di fronte all'invasione ottomana (1444-1718), Napoli 1955, pp. 78 ss.; J.P. Niederkorn, Die europäischen Mächte und der "Lange Türkenkrieg" Kaiser Rudolfs II. (1593-1606), Wien 1993, ad indicem.
Per il governo dello Stato pontificio: J. Delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVIe siècle, I-II, Paris 1957-59, ad indicem; G. Carocci, Lo Stato della Chiesa nella seconda metà del secolo XVI. Note e contributi, Milano 1961, ad indicem; W. Reinhard, Papstfinanz und Nepotismus unter Paul V. (1605-1621). Studien und Quellen zur Struktur und zu quantitativen Aspekten des päpstlichen Herrschaftssystems, I-II, Stuttgart 1974, ad indicem; M. Caravale-A. Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX, Torino 1978 (Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, 14), pp. 336-52; P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 1982, ad indicem; I. Polverini Fosi, La società violenta. Il banditismo dello Stato pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma 1985, ad indicem; P. Blastenbrei, Kriminalität in Rom, 1560-1585, Tübingen 1995, pp. 18, 23, 43-4, 49, 55 s., 59, 63, 161, 169, 224.
Su G. e la cultura: A. Ziggelaar, The Papal Bull of 1582 Promulgating a Reform of the Calendar, in Gregorian Reform of the Calendar, Proceedings of the Vatican Conference to Commemorate Its 400th Anniversary, 1582-1982, a cura di G.V. Coyne-M.A. Hoskin-O. Pedersen, Città del Vaticano 1983, pp. 201-39, passim; G. Mercati, Giambattista Bandini e le correzioni del Martirologio Romano sotto Gregorio XIII, in Id., Opere minori raccolte [...], II, ivi 1987, pp. 421-22; Id., Un tentativo d'introdurre nuove sequenze sotto Gregorio XIII, ibid., III, ivi 1987, pp. 26-9; F. Maiello, Tempo, potere e cosmologia: la riforma gregoriana del calendario, "Dimensioni, Problemi della Ricerca Storica", 1989, nr. 1, pp. 115-16, 118, 136; W. McCuaig, Carlo Sigonio. The Changing World of the Late Renaissance, Princeton, N.J. 1989, ad indicem.
Per G. e l'arte: H. Röttgen, Zeitgeschichtliche Bildprogramme der Katholischen Restauration unter Gregor XIII., 1572-1585, "Münchner Jahrbuch der Bildenden Kunst", 26, 1975, pp. 89 ss.; M. Fagiolo, La Roma dei Longhi, in La Roma dei Longhi. Papi e architetti tra Manierismo e Barocco, a cura di Id., Roma 1982, pp. 9, 12 ss., 23, 46, 47, 50, 51; F. Toni, La Roma di Gregorio XIII, ibid., pp. 16-9; R. Schiffmann, Roma Felix. Aspekte der städtebaulichen Gestaltung Roms unter Papst Sixtus V., Bern-Frankfurt a. M.-New York 1985, ad indicem; J. Freiberg, The Lateran in 1600. Christian Concord in Counter-Reformation Rome, Cambridge-New York 1995, ad indicem.
Sull'azione di G. in campo specificamente religioso e, in partic., sull'impulso dato alla riforma postridentina: G. Catalano, Controversie giurisdizionali fra Chiesa e Stato nell'età di Gregorio XIII e Filippo II, "Atti dell'Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo", 15, pt. II, 1954-55, pp. 5-306, passim; I. Cloulas, Notes sur la participation de Jerôme Ragazzoni, évêque de Bergame, à l'oeuvre apostolique des visites de diocèses pendant sa nonciature en France (1583-1586), "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 13, 1959, pp. 293, 295; P. Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), I-II, Roma 1959-67, ad indicem; K. Krasenbrinck, Die Congregatio Germanica und die katholische Reform in Deutschland nach dem Tridentinum, Münster i. Westfalen 1972, pp. 74-248; A. Borromeo, Fonti vaticane riguardanti il cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano: orientamenti per una ricerca, "Studia Borromaica", 4, 1990, pp. 49, 51 ss., 64, 66; K. Jaitner, Die päpstliche Kirchenreformpolitik von Gregor XIII. bis Gregor XV., Katholische Reform und Gegenreformation in Innerösterreich 1564-1628, a cura di F.M. Dolinar et al., Klagenfurt-Graz 1994, pp. 280 ss., 284; A. Borromeo, I vescovi italiani e l'applicazione del concilio di Trento, in I tempi del Concilio. Religione, cultura e società nell'Europa tridentina, a cura di C. Mozzarelli-D. Zardin, Roma 1997, pp. 29-30, 33-4, 36, 38, 63, 80-1, 89-90, 96; Id., La nunziatura di Madrid, la Curia romana e la riforma postridentina nella Spagna di Filippo II, in Kurie und Politik, pp. 39-40, 48-52, 55-6, 59-60.
Per la fondazione dei collegi romani e altre istituzioni di formazione: P. Raphael, Le rôle du Collège Maronite Romain dans l'orientalisme aux XVIIe et XVIIIe siècles, Beyrouth 1950, pp. 55 ss.; L. Lukács, Die Gründung des Wiener päpstlichen Seminars und der Nuntius Giovanni Delfino (1573-1577), "Archivum Historicum Societatis Iesu", 23, 1954, pp. 35-75; R.G. Villoslada, Storia del Collegio Romano dal suo inizio (1551) alla soppressione della Compagnia di Gesù (1773), Romae 1954, pp. 142-54; A. Kenny, From Hospice to College, 1559-1579, in The English Hospice in Rome, numero speciale di "The Venerabile Sexcentenary Issue", 21, 1962, pp. 227 ss., 232, 236 ss., 240 ss., 253 ss., 271 s.; V. Peri, Inizi e finalità ecumeniche del Collegio Greco in Roma, "Aevum", 44, 1970, pp. 1-71; Il Collegio Greco di Roma. Ricerche sugli alunni, la direzione, l'attività, a cura di A. Fyrigos, Roma 1983, ad indicem; P. Schmidt, Das Collegium Germanicum in Rom und die Germaniker. Zur Funktion eines römischen Ausländerseminars (1552-1914), Tübingen 1984, pp. 15 ss.
Per la lotta contro l'eresia: J.I. Tellechea Idígoras, El final de un proceso. Sentencia original de Gregorio XIII y abjuración del arzobispo Carranza (14 de abril de 1576), "Scriptorium Victoriense", 23, 1976, pp. 202 ss.; G.L. Masetti Zannini, Il cardinale Gian Francesco Gambara e il Sant'Uffizio sotto Gregorio XIII, "Brixia Sacra", 13, 1978, pp. 112-19; J.I. Tellechea Idígoras, El proceso del arzobispo Carranza, in Historia de la inquisición en España y América, a cura di J. Pérez Villanueva-B. Escandell Bonet, I, Madrid 1984, pp. 589 ss.; G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti delle Scritture (1471-1605), Bologna 1997, ad indicem.
Per G., il cattolicesimo orientale e l'Oriente cristiano non cattolico: V. Buri, L'unione della Chiesa copta con Roma sotto Clemente VIII, Roma 1931, pp. 108, 122, 125, 133, 136 ss.; G. Levi Della Vida, Documenti intorno alle relazioni delle Chiese orientali con la S. Sede durante il pontificato di Gregorio XIII, Città del Vaticano 1948, pp. 1-113; S. Polcin, Une tentative d'Union au XVIe siècle. La mission religieuse du père Antoine Possevin S. J. en Moscovie (1581-1582), Roma 1957, ad indicem; Cardinal Giulio Antonio Santoro and the Christian East. Santoro's Audiences and Consistorial Acts, a cura di J. Krajkar, ivi 1966, pp. 20-81; V. Peri, Due date, un'unica Pasqua. Le origini della moderna disparità liturgica in una trattativa ecumenica tra Roma e Costantinopoli (1582-1584), Milano 1967, pp. 17 s., 26, 34, 41, 45 ss.; Id., La congregazione dei Greci (1573) e i suoi primi documenti, "Studia Gratiana", 13, 1967, pp. 129-256, passim; Id., Chiesa romana e "rito" greco. G.A. Santoro e la Congregazione dei Greci (1566-1596), Brescia 1975, pp. 78 ss.; F.B. de Medina, Legación pontificia a los siros-ortodoxos, 1583-1584. Las relaciones de Ignacio de la Casas de la Compañía de Jesús, "Orientalia Christiana Periodica", 55, 1989, pp. 123, 129 ss., 141, 156 s., 159.
Per G. e le missioni: America Pontificia primi saeculi evangelizationis, 1493-1592, a cura di J. Metzler, II, Città del Vaticano 1991, pp. 932-1235; Africa Pontificia, seu de Africae evangelizatione ex documentis pontificiis, I, 1419-1980, a cura di S. Palermo, Roma 1993, pp. 84-9; L. Lopotegui, El papa Gregorio XIII y la ordenación de los mestizos hispano-incáicos, in Xenia Piana SS.mo D.no N.ro Pio Papae XII dicata, ivi 1943, p. 185 ss.; R. Lefevre, Riflessi etiopici nella cultura europea del Medioevo e del Rinascimento, "Annali Lateranensi", 11, 1947, pp. 263, 268, 295, 301 ss., 316 s., 319 ss., 324 s., 328 ss., 332 ss.; G. Sorge, Il "Padroado" regio e la S. Congregazione "De Propaganda Fide" nei secoli XIV-XVII, Bologna 1985, ad indicem; J. Wicki, Die Sinoden der Thomaschristen (auch Syromalabaren genannt) (1583-1603), "Annuarium Historiae Conciliorum", 18, 1986, pp. 337, 342 s.; G. Sorge, Il cristianesimo in Giappone e il De Missione, Bologna 1988, pp. 36, 45, 65-74.
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E.C., VI, s.v., coll. 1143-54.
New Catholic Encyclopaedia, VI, Washington 1967, s.v.
Theologische Realenzyclopedie, XIV, Berlin-New York 1985, s.v.
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R. Aubert, Grégoire XIII, in D.H.G.E., XXI, coll. 1441-42.
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