Gregorio XIV
Niccolò Sfondrati nacque, probabilmente a Somma Lombarda, l'11 febbraio 1535 da Francesco e Anna Visconti.
La sua nascita avvenne prematuramente: questa circostanza, secondo i contemporanei, sarebbe stata all'origine della sua costituzione gracile e dei problemi di salute che lo avrebbero poi accompagnato per l'intera vita. Il padre, insigne giurista e senatore, aveva saputo conquistarsi la fiducia di Carlo V dal 1535, anno in cui il Ducato di Milano era stato devoluto all'Impero. Essendo rimasto vedovo nel 1538, Francesco abbracciò lo stato clericale. Cardinale nel 1544, dopo avere occupato altre sedi episcopali, nel 1550 veniva trasferito alla diocesi di Cremona, dove una morte improvvisa lo coglieva a sole due settimane dalla presa di possesso. La posizione del genitore ai vertici della struttura ecclesiastica avrebbe indubbiamente spianato al figlio primogenito Niccolò la strada che, ricalcando le sue orme, doveva decidere di percorrere. Dopo avere appreso a Milano i primi rudimenti della grammatica, il giovinetto si recò a Firenze per completare la sua formazione umanistica sotto la ferula del fiorentino F. Migliori, rettore dell'Università di Pisa. Nel capoluogo toscano proseguì poi gli studi di filosofia, fino a quando, in seguito all'inopinata scomparsa del genitore, si trasferì a Padova, la cui Università frequentò tra il 1550 e il 1555. Il 2 marzo di quell'anno terminava i suoi studi, addottorandosi "in utroque iure".
Frattanto aveva abbracciato lo stato ecclesiastico. Appena quattordicenne, il 21 marzo 1549, era subentrato al genitore nella dignità di abate commendatario del monastero olivetano di Civate, presso Lecco, alle cui rendite si dovevano aggiungere, in data imprecisata, 700 scudi di pensione sugli introiti della mensa vescovile di Cremona, anch'essi trasmessigli dal padre. Una volta terminati gli studi universitari, Sfondrati si dedicò alla riforma della vita religiosa nell'abbazia di Civate, al restauro dei suoi edifici, nonché al rinnovo delle suppellettili e degli arredi sacri.
Quest'opera di risanamento spirituale e materiale è indicativa del suo zelo religioso e adombra già il suo successivo impegno di vescovo riformatore. Tale zelo è probabilmente anche espressione dell'influsso esercitato su di lui dal barnabita Alessandro Sauli, futuro vescovo e santo, al quale Sfondrati fu particolarmente legato. A questi anni, oltre ai contatti con uno degli ambienti milanesi più rappresentativi della riforma pretridentina, risalgono anche i rapporti con quelle che saranno poi alcune importanti figure dell'episcopato postconciliare, quali Guido Ferrero e, soprattutto, Carlo Borromeo.
Il 20 giugno 1552, a soli diciassette anni, Sfondrati fu chiamato da Filippo II a far parte del Senato milanese, il supremo organo politico-amministrativo del Ducato di Milano. La nomina era certamente espressione della benevolenza dimostrata da Filippo II nei confronti del figlio di un autorevole personaggio, il quale aveva, a suo tempo, goduto della fiducia di Carlo V. A questi sentimenti di benevolenza il giovane Niccolò non esitò del resto ad appellarsi qualche anno più tardi, nel 1557, quando il cardinale Federico Cesi, allora titolare della diocesi di Cremona (nella quale, peraltro, non aveva mai messo piede), si dimostrò disposto a cedere al giovane abate quel seggio vescovile in precedenza occupato dal padre. Filippo II diede a questa candidatura il suo pieno appoggio, non solo perché gli Sfondrati rappresentavano una famiglia la cui fedeltà alla Corona era stata ampiamente dimostrata, ma anche perché, come doveva specificare al proprio rappresentante presso la Santa Sede, il cardinale F. Pacheco, la preparazione, le qualità personali e la vita esemplare del candidato gli erano note sin dall'epoca della sua nomina a senatore. Ma a dispetto delle insistenti pressioni della diplomazia spagnola (o, forse, proprio a causa di esse), Paolo IV non si dimostrò disposto a concedere al troppo giovane Niccolò la dispensa necessaria per ricevere la consacrazione episcopale. La nomina sarebbe venuta soltanto dopo la morte di papa Carafa, il 3 marzo 1560, all'inizio del pontificato di Pio IV, il cui cardinale nipote era proprio quel Carlo Borromeo con il quale Sfondrati era già da anni in relazione ed al quale sembra fosse legato da non meglio specificati vincoli di parentela.
Il 4 luglio di quello stesso anno faceva il suo ingresso solenne nella diocesi. Sebbene, sin dall'inizio, il nuovo vescovo dimostrasse con i fatti di volersi impegnare nell'osservanza dei suoi doveri pastorali, a cominciare dall'obbligo della residenza (non ancora formalmente sancito dal concilio di Trento), traspaiono anche dal suo agire come tratti peculiari della sua personalità le non celate aspirazioni a più elevate dignità, nonché l'eccessiva importanza attribuita alle forme esteriori. Questi difetti imputabili probabilmente alla ancor acerba età erano comunque compensati dalla pietà, dalla illibatezza dei costumi e dal sincero zelo pastorale dal quale era animato.
Nel periodo successivo al suo ingresso nella diocesi, Sfondrati non ebbe modo di avviare una sistematica attività pastorale, opera che, a motivo dell'assenteismo dei suoi immediati predecessori, si rivelava particolarmente urgente. Pochi mesi più tardi, il 29 novembre 1560, Pio IV riconvocava infatti a Trento il concilio per la terza e ultima fase dei suoi lavori. Il vescovo di Cremona fu tra i primi ad aderire alla convocazione papale e il primo padre conciliare in assoluto a raggiungere la città del concilio, nella quale entrò il 31 marzo 1561. La ripresa dei lavori conciliari pareva al giovane vescovo propizia per ingraziarsi i favori del papa e del cardinale nipote Borromeo in vista di ottenere l'elevazione al cardinalato, elevazione alla quale, del resto, si adoperava, dal canto suo, il fratello Paolo, allora residente a Roma. L'appoggio dato da Sfondrati alla linea seguita dalla Curia papale al fine di condurre in porto i lavori conciliari sembrò inizialmente produrre i frutti sperati. Ma nella primavera del 1562, la posizione assunta dal vescovo di Cremona sulla questione cruciale dell'obbligo della residenza - sul problema, cioè, se si trattasse di un dovere imposto all'episcopato e al clero con cura d'anime "iure divino" ovvero in forza di semplici norme di diritto positivo - doveva fare tramontare ogni speranza di una possibile promozione cardinalizia.
Sfondrati, convinto, come egli stesso dichiarava al fratello Paolo, di dovere anteporre "la verità e il servizio di Dio a qualsivoglia altro mio rispetto particolare" (Trento, maggio 1562, senza indicazione del giorno, cit. in L. Castano, Gregorio XIV, p. 71), aveva infatti preso posizione a favore della tesi dell'origine divina dell'obbligo della residenza, in contrasto con l'opposta tesi caldeggiata dagli ambienti curiali romani. Con ciò, le prospettive di una promozione cardinalizia sfumarono. Lo stesso Niccolò giudicò più prudente evitare di mettersi ulteriormente in mostra, sicché il suo successivo apporto ai lavori conciliari risultò di fatto irrilevante.
Conclusosi il concilio il 4 dicembre 1563, Sfondrati rientrò a Cremona. A partire da quel momento, la sua principale preoccupazione sarà quella di dare esecuzione nella sua diocesi al programma di riforma delineato dal concilio. Va subito notato come, pur dimostrandosi egli sin dall'inizio pastore solerte e impegnato, la sua azione di riforma mancò talvolta di incisività: più che le capacità gli difettavano la necessaria energia di carattere, nonché le condizioni di salute per affrontare fatiche e disagi di un'opera richiedente ben altra resistenza fisica. Comunque sia, pochi mesi dopo il suo ritorno in diocesi, convocò - come prevedeva uno specifico canone conciliare - il sinodo diocesano. In questa prima assemblea del clero, tenutasi il 5 e il 6 giugno 1564, furono letti pubblicamente tutti i decreti del concilio di Trento e i membri presenti pronunciarono la prescritta solenne professione di fede. Si trattava di un avvenimento già di per sé incoraggiante e significativo, posto che il precedente sinodo diocesano si era tenuto a Cremona circa ottant'anni prima. Il concilio di Trento aveva però imposto a tutti i vescovi l'obbligo della convocazione annuale dei sinodi diocesani. Sfondrati - che, pure, nonostante i suoi limiti, non poté mai essere tacciato di pastore negligente - ne convocò soltanto tre nel corso del suo trentennale episcopato. Dopo il primo del 1564, ne riunì un secondo nell'agosto del 1580; il terzo ed ultimo fu celebrato nel settembre del 1583. L'anno successivo, poco dopo la sua promozione cardinalizia avvenuta il 12 dicembre 1583, fece riunire in volume e dare alle stampe il complesso della legislazione da lui promulgata.
Nulla sappiamo delle specifiche ragioni che possono avere indotto il vescovo di Cremona a disattendere una norma tridentina che, a dire il vero, fu ignorata dalla stragrande maggioranza dell'episcopato italiano. A dissuadere Sfondrati dal convocare annualmente il sinodo valse probabilmente quella stessa motivazione che, con maggior frequenza, sembra aver spinto altri vescovi italiani ad agire analogamente: il timore, cioè, che la riunione annuale di tutto il clero della diocesi si trasformasse in una occasione di aggregazione degli elementi più ostili alla riforma, i quali coalizzandosi avrebbero potuto frenare ogni azione di rinnovamento. Nel caso di Sfondrati può avere giuocato anche un altro fattore, vale a dire l'esistenza di una ampia e dettagliata legislazione provinciale. Cremona faceva infatti parte della provincia ecclesiastica di Milano, al cui metropolita, l'arcivescovo Carlo Borromeo, sappiamo che Sfondrati era legato sin da prima della sua promozione all'episcopato. Il concilio di Trento aveva stabilito che i concili provinciali dovevano essere celebrati ogni tre anni e Borromeo fu uno dei pochi arcivescovi della penisola ad adempiere con precisione quasi assoluta alla prescrizione tridentina (sei tra il 1565 e il 1582). Sfondrati risulta avere partecipato a tutti i concili provinciali milanesi. Soltanto nel 1579, ragioni di salute sembrano avergli impedito di prendere parte alla fase iniziale dei lavori del quinto concilio, celebrato nel maggio di quell'anno. Dovette però presenziare almeno alla sua chiusura, perché la sua firma figura regolarmente in calce ai relativi atti.
L'avere partecipato all'elaborazione dei decreti dei concili provinciali e l'essersi poi attivamente adoperato affinché venissero eseguiti nella propria diocesi possono quindi essere motivi ulteriori per spiegare il ridotto numero dei sinodi diocesani celebrati da Sfondrati. Data l'appartenenza di Cremona alla provincia ecclesiastica milanese e dati i rapporti di devota amicizia nei confronti di Borromeo, non desta comunque stupore che nel suo sforzo inteso a dare attuazione alla riforma voluta dal concilio egli prendesse l'arcivescovo di Milano a modello ed esempio. Quest'ultimo, dal canto suo, fu sempre prodigo di consigli e di incoraggiamenti, ma anche di ammonizioni verso il suo quasi coetaneo confratello nell'episcopato. Che nei suoi confronti Borromeo provasse affetto e stima è indubbio; altrettanto certo, però, è che, pur senza sottovalutare gli sforzi compiuti da Sfondrati, l'arcivescovo di Milano avrebbe desiderato da lui un'azione riformatrice più incisiva. Questa sua convinzione, che traspare qua e là nella loro corrispondenza, è evidenziata anche dagli atti della visita apostolica svolta da Borromeo, per incarico di Gregorio XIII, nella diocesi di Cremona tra l'11 giugno e il 6 settembre 1575. Nei decreti della visita ricorrono con una certa frequenza direttive o suggerimenti su come reprimere abusi e disordini, su come rimediare alle manchevolezze del clero, su come curare il buono stato degli edifici sacri. In particolare, uno di questi decreti, nel quale si imponeva al vescovo di provvedere a fornire al duomo un certo paramento sacro, doveva provocare le sommesse ma ferme proteste di Sfondrati, il quale si riteneva ingiustamente accusato di negligenza: ciò malgrado non mancò di ubbidire e di eseguire alla lettera quanto ordinatogli. Che il vescovo di Cremona, sia per il carattere meno energico, sia per la malferma salute, non fosse in grado di emulare il suo modello milanese è fuori dubbio. Nonostante tutta la sua buona volontà, gli mancava quella capacità di prendere di petto le situazioni, quella fermezza di polso nell'imporre le misure disciplinari decise, quella costante tensione verso l'ideale del rinnovamento spirituale, che furono caratteristiche precipue del futuro santo arcivescovo di Milano. Ma se la visita apostolica del 1575 aveva messo in evidenza come l'opera di riforma fosse ancora lungi dall'essere completata, essa attestava però anche i notevoli risultati raggiunti da Sfondrati ad un decennio dalla conclusione del concilio. Risultati ancor più apprezzabili se si tiene conto del lungo periodo di abbandono nel quale era stata lasciata la diocesi e delle difficoltà oggettive contro le quali, soprattutto nel periodo iniziale del suo episcopato, il giovane vescovo aveva dovuto lottare. Sin dagli inizi la realizzazione del programma di rinnovamento religioso aveva inevitabilmente incontrato gravi ostacoli, soprattutto nelle resistenze di quegli elementi del clero che tentavano di sottrarsi al peso della più rigorosa disciplina ecclesiastica imposta dal concilio. Pur con queste limitazioni di carattere soggettivo e oggettivo, certo è che, sin dagli inizi, Sfondrati profuse tutto il suo impegno nel cercare di attuare l'opera di riforma delineata dai canoni conciliari.
La sua prima realizzazione si concretò nell'erezione del Seminario diocesano, senza dubbio una delle innovazioni più significative introdotte dal concilio. Un progetto in materia era già stato ventilato nel corso del primo sinodo del 1564. L'istituzione nacque però due anni più tardi, con decreto vescovile del 1° dicembre 1566, che ne costituisce il formale atto di fondazione: Sfondrati veniva così a collocarsi tra i primi vescovi italiani ad avere dato concreta applicazione al dettato conciliare. La sollecita creazione del Seminario rappresentava la premessa necessaria per la formazione di un clero diocesano meglio preparato sotto il profilo intellettuale, morale e pastorale. Molte erano però le difficoltà da superare: occorreva elaborare i piani di studio, selezionare insegnanti idonei e, soprattutto, reperire i fondi necessari per mantenere l'istituzione e per retribuire il personale docente. Al raggiungimento di quest'ultimo obiettivo si dedicò Sfondrati negli anni successivi, fornendo il proprio contributo finanziario e costringendo il clero della diocesi a versare, come prevedeva il relativo decreto conciliare, la quota spettante a ciascuno dei suoi membri. Un decennio più tardi l'istituzione era però ancora lungi dall'essere pienamente operativa: la consapevolezza che il Seminario non avrebbe potuto adempiere in tempi brevi i propri compiti istituzionali spiega il motivo per cui Sfondrati mantenne in vita le scuole di grammatica e d'arti liberali operanti presso alcune parrocchie e, negli anni successivi, ammise agli ordini sacri chierici formatisi in esse. Altro obbligo fondamentale incombente sul vescovo a norma del Tridentino era quello della visita pastorale. Il vescovo di Cremona vi si applicò con solerzia sin dal periodo successivo al suo ritorno da Trento. Alla prima visita fu dato inizio il 19 maggio 1565 e venne condotta personalmente da Sfondrati o da ecclesiastici da lui all'uopo delegati. Essa si svolse con una certa lentezza, sia per i legittimi impedimenti derivanti dagli altri obblighi pastorali ricadenti sul vescovo, sia per le interruzioni e i rinvii cui lo costringeva il suo precario stato di salute. Nel 1575, comunque, più dei due terzi della diocesi erano stati visitati e in molte località egli si era recato personalmente. Lo schema seguito era quello tradizionale: esame dei sacerdoti, ispezione degli edifici ecclesiastici, celebrazione della messa e amministrazione dei sacramenti, in particolare della cresima, sacramento che l'assenteismo dei suoi predecessori aveva di fatto lasciato cadere in disuso. Inoltre, seguendo una specifica prescrizione tridentina, Sfondrati si dedicò con frequenza crescente nel corso del suo episcopato alla predicazione personale, anche se la scarsa facilità dell'eloquio, unita ad una naturale ritrosia, gli rese sempre - per sua stessa ammissione - la pratica dell'oratoria sacra un esercizio particolarmente ostico. Per quanto la documentazione non consenta di valutare con precisione l'opera svolta da Sfondrati nel campo delle visite pastorali, sembra che egli compisse nel quarto di secolo successivo alla conclusione del concilio quattro visite: la prima tra il 1565 e il 1575, la seconda tra il 1575 e il 1580, la terza negli anni successivi al 1583; la quarta, iniziata nel 1590, fu poi lasciata incompiuta per l'avvenuta esaltazione al soglio pontificio.
Le visite pastorali altro non erano se non uno degli strumenti per conseguire l'attuazione della riforma tridentina. L'opera di rinnovamento religioso e morale richiedeva soprattutto un'azione continua e sistematica nel quotidiano governo spirituale della diocesi. Seguendo una direttiva del primo concilio provinciale, Sfondrati avviò un processo di riassetto delle strutture diocesane, introducendo l'istituzione del Vicariato foraneo, creato mediante la riunione di gruppi di parrocchie soggette all'autorità di un vicario, il quale le doveva visitare periodicamente e fungere da anello di congiunzione tra la curia vescovile e i singoli parroci. In data imprecisata fu introdotta la prassi di indire assemblee (congregazioni) del clero della città al fine di migliorarne la formazione: da un documento del 1588 risulta che il clero si riuniva tutte le domeniche nel palazzo episcopale. I due principali abusi da colpire erano quello dell'assenteismo dei sacerdoti con cura d'anime e quello, collegato al primo, del cumulo dei benefici. Perciò dopo il suo ritorno da Trento, Sfondrati aveva intimato a tutti i beneficiati di presentargli i rispettivi titoli d'investitura. Vennero così alla luce numerosi casi di ecclesiastici che mai avevano risieduto o che erano investiti di più di un beneficio, senza per questo vivere in alcuno di essi. Non tutti i chierici interessati erano desiderosi di sanare la loro situazione irregolare, ma, al contrario, si ingegnavano per intralciare l'azione riformatrice del vescovo interponendo, con motivi pretestuosi, appelli ai tribunali romani. Emblematico il caso del prevosto di Busseto, tale Ercole Scotti, il quale per sottrarsi ai provvedimenti di Sfondrati, nel 1564, fece ricorso a Roma sostenendo che la sua prepositura era "nullius dioeceseos". La causa andò per le lunghe: alla fine, però, nella primavera del 1567, il vescovo vide finalmente riconosciute le sue ragioni. Ulteriori resistenze alla sua azione riformatrice doveva incontrare Sfondrati da parte del Capitolo della cattedrale. Arroccati, come molti altri Capitoli della penisola, nella difesa dei loro presunti privilegi, i canonici cremonesi pretendevano che l'ordinario diocesano non potesse procedere alla loro sospensione, nemmeno in caso di gravi colpe, e neanche prendere alcuna misura contro di loro senza il parere e l'assenso previo del Capitolo stesso. Per vincere la loro opposizione, Sfondrati fu costretto a rivolgersi al pontefice, ottenendo un breve di Pio V del 30 settembre 1568 in forza del quale gli si concedeva, nella veste di delegato della Santa Sede, la facoltà di visitare, correggere ed eventualmente punire i canonici del duomo. Ulteriori tensioni tra ordinario diocesano e Capitolo doveva ingenerare la controversia circa il diritto di nomina ai seggi vacanti rivendicato da entrambe le parti. Il conflitto si trascinò fino al 1582, anche se le successive nomine effettuate da Sfondrati dimostrano che alla fine egli ebbe partita vinta. Il processo di rinnovamento del clero, nonostante la sincera volontà riformatrice del vescovo, fu perciò lento e faticoso. Occorreva sradicare abusi inveterati, modificare vecchi schemi mentali, istillare il nuovo spirito in elementi formatisi nell'anteriore clima pretridentino. Questo complesso di fattori frenanti spiega come un decennio dopo la conclusione del concilio, in occasione della visita apostolica, Borromeo dovesse riscontrare ancora parecchie situazioni irregolari.
Con la riforma del clero, Sfondrati mirava, seguendo le indicazioni del concilio di Trento, a creare una nuova figura di sacerdote in grado di fare efficacemente fronte ai propri doveri pastorali. Elevare il livello della vita religiosa e morale del popolo cristiano era infatti l'obiettivo ultimo del governo spirituale affidato al vescovo. Come quelle degli altri vescovi dell'età postridentina, l'azione di Sfondrati si incentrò sulla santificazione delle feste e sulla frequenza ai sacramenti. Sia la legislazione sinodale, sia i decreti delle visite pastorali sono indirizzati a incoraggiare l'assiduità alla messa e l'osservanza del precetto festivo, mentre per converso limitano o vietano quegli intrattenimenti profani suscettibili di alterare il clima religioso del giorno festivo, come i balli, gli spettacoli, i giuochi (soprattutto quelli tradizionalmente organizzati in occasione delle feste patronali). Una normativa particolareggiata riguarda i sacramenti della penitenza e dell'eucarestia. I parroci sono esortati a spronare il popolo alla confessione e alla comunione frequenti: essi debbono controllare, in particolare, che i loro parrocchiani adempiano l'annuale precetto pasquale e segnalare, ai vicari foranei, entro la terza domenica dopo Pasqua, quanti, senza giusta causa, abbiano disatteso tale specifico obbligo. L'azione di disciplinamento impostata sulla base di queste e altre norme fu accompagnata da uno speciale sforzo inteso a migliorare la formazione cristiana dei fedeli per mezzo della predicazione e, soprattutto, della catechesi. In quest'ultimo settore, l'attività di Sfondrati fu, sin dall'inizio del suo episcopato, particolarmente incisiva. Avvalendosi dell'aiuto offertogli dal sacerdote G. Rabbia, priore generale della Compagnia della Dottrina Cristiana di Milano, risollevò dallo stato di decadimento nel quale versavano le scuole della Dottrina Cristiana fondate in precedenza a Cremona per l'istruzione catechetica dei fanciulli. Nel 1568, il loro numero ascendeva già a trenta nella città, mentre da due anni si stavano diffondendo nel resto della diocesi. Qualche anno più tardi, nel 1572, il vescovo eresse la struttura esistente a confraternita, affidandole il compito di coordinare l'attività delle scuole parrocchiali e di assicurarne uniformità di contenuti e di indirizzi.
Altro settore bisognoso di attenti interventi riformatori risulta essere stato quello delle comunità religiose femminili soggette alla giurisdizione dell'ordinario. Secondo il costume dell'epoca, l'ingresso in monasteri e conventi era spesso il destino obbligato di quelle fanciulle di buona famiglia che, per mancanza di dote, non potevano essere avviate al matrimonio. Più difficile risultava, di conseguenza, per il vescovo prendere provvedimenti contro religiose indisciplinate quando queste ultime potevano all'occorrenza fare intervenire a loro favore parenti influenti. Ciò malgrado, anche in questo campo, Sfondrati esercitò la sua autorità. Egli ripristinò la rigorosa osservanza della clausura e impose il rispetto della disciplina regolare: nei casi più gravi non mancò di agire con severità, come doveva imparare a proprie spese, nel 1565, la badessa del monastero di S. Quirico, la quale, per essersi opposta alla visita episcopale, fu sospesa dalla carica. Al fine di riportare l'ordine laddove era più compromesso, nel 1571 chiedeva e otteneva un breve pontificio in forza del quale gli veniva conferita la facoltà di affidare il governo delle comunità di Benedettine e di Clarisse a religiose - dello stesso o anche di altro Ordine - da lui stesso designate.
A dispetto dell'atteggiamento di quanti, come Borromeo, avrebbero desiderato dal vescovo di Cremona un'azione riformatrice più energica, va però rilevato come, a prescindere da una certa discontinuità (per esempio nella convocazione dei sinodi diocesani), l'opera di rinnovamento da lui realizzata risulta comunque rilevante. Tali risultati non sarebbero stati raggiunti se, oltre al contributo di collaboratori capaci, Sfondrati non si fosse potuto avvalere dell'apporto fornito dai membri dei nuovi Ordini religiosi nati nella temperie spirituale pretridentina. Nel 1566, chiamò a Cremona i Cappuccini; nel 1570, grazie ai suoi antichi legami con il Sauli, in quel momento preposito generale dell'Ordine, fece venire i Barnabiti che vi aprirono il collegio di S. Giacomo; nel 1579, ottenne, non senza fatica, che vi si istallassero i Teatini, a disposizione dei quali mise il convento di S. Abbondio, mentre sin dal 1561 aveva consegnato ai Somaschi la chiesa di S. Geroldo, per ospitare nell'edificio ad essa adiacente un orfanatrofio: nel 1583, poi, affiderà loro anche la chiesa parrocchiale di S. Lucia. Con un completo fallimento si salderà per contro il suo tentativo di introdurre nella città i Gesuiti. Nonostante quest'ultimo insuccesso, difficilmente può essere sottovalutato lo sforzo compiuto da Sfondrati per coinvolgere e associare le forze vive della Chiesa postridentina nella sua opera di rinnovamento religioso della diocesi. Con il potere laico, il vescovo di Cremona seppe mantenere buone relazioni, senza per questo rinunciare a difendere i diritti della Chiesa di fronte alle contrapposte, e non sempre fondate, rivendicazioni dei rappresentanti dell'amministrazione spagnola.
Momenti di tensione dovevano ingenerare nel 1575, e poi ancora nel 1587, le divergenti interpretazioni date dalle parti all'estensione del privilegio di foro goduto dagli ecclesiastici e del diritto d'asilo riconosciuto a quanti, laici o chierici, si fossero rifugiati in edifici sacri, o comunque di proprietà ecclesiastica, per sottrarsi alla giustizia secolare. L'avere dovuto allora constatare l'indeterminatezza delle norme ecclesiastiche in vigore spiega probabilmente il motivo per cui, più tardi, da papa, Sfondrati sarà indotto a legiferare su questa delicata materia.
Nel corso delle controversie il vescovo seguì una linea più morbida di quella adottata a Milano da Borromeo, il quale si era duramente scontrato con le autorità spagnole. Senza cedere di fronte alle rivendicazioni della controparte, Sfondrati si sforzò di mantenere aperto il dialogo sia con i rappresentanti locali del potere civile, sia con la diplomazia spagnola presso la Santa Sede, alla quale le autorità laiche milanesi non mancavano di ricorrere affinché appoggiasse le loro pretese presso il pontefice. Stando così le cose, non stupisce che, in una relazione spagnola inviata a Filippo II verso la fine del pontificato di Gregorio XIII, il vescovo di Cremona venisse annoverato tra i cardinali devoti alla Corona spagnola. Una svolta decisiva nella vita di Sfondrati la doveva rappresentare, nel 1583, la sua elevazione al cardinalato. Dopo che le sue prese di posizione nel concilio di Trento avevano frustrato le sue aspettative al riguardo, il vescovo di Cremona aveva deciso di dedicarsi interamente ai propri doveri pastorali, mettendo da parte ogni aspirazione a possibili sviluppi della carriera ecclesiastica. Chi invece continuava a lavorare per la sua promozione alla porpora era il fratello Paolo, che già all'epoca del concilio si era prodigato per procurargli il cappello cardinalizio. Grazie alle sue relazioni con il duca Carlo Emanuele I di Savoia, con il cardinale Marco Sittico Altemps e con il duca di Sora, figlio legittimato di Gregorio XIII, Paolo finì col raggiungere il suo intento. Il vescovo di Cremona ricevette la porpora nella promozione cardinalizia del 12 dicembre 1583, della quale - circostanza forse unica nella storia della Chiesa - facevano parte, oltre a Sfondrati, altri tre futuri papi (Urbano VII, Innocenzo IX e Leone XI).
Se particolarmente autorevoli erano stati i suoi protettori, non risulta però che, a dispetto degli ottimi rapporti intercorrenti tra i due, alla sua ascesa avesse avuto alcuna parte il cardinale Borromeo. Neppure sembra essere intervenuto Filippo II, il quale, quando ne fu informato dall'interessato, non mancò di rallegrarsi per l'avanzamento ottenuto da un suddito che egli stesso aveva a suo tempo nominato senatore ed appoggiato nella sua elezione a vescovo.
La nuova dignità non doveva inizialmente modificare il ritmo di vita del neoporporato. La sua formale incorporazione nel Sacro Collegio avvenne soltanto un anno più tardi, in quanto ragioni di salute lo avevano costretto a posticipare un viaggio a Roma programmato in precedenza. Giunto nella Città Eterna poco prima del Natale del 1584, prese parte al suo primo Concistoro il 7 gennaio successivo; il 14 dello stesso mese gli veniva quindi assegnato il titolo presbiterale di S. Cecilia. È probabile che poco tempo dopo rientrasse nella sua sede episcopale. Ma non vi doveva rimanere a lungo. A Roma tornò qualche mese dopo, allorché, morto il 10 aprile 1585 Gregorio XIII, undici giorni più tardi il Sacro Collegio si chiudeva in conclave: fra i cinquantadue membri presenti figura anche Sfondrati. Dal conclave, nel quale il cardinale di Cremona non sembra avere svolto alcuna parte di rilievo, usciva eletto, con il nome di Sisto V, il cardinale Felice Peretti. Nel gennaio 1587, lo troviamo nuovamente a Roma per un breve soggiorno. Ignoriamo le ragioni che possono averlo spinto a recarsi nella Curia papale: sappiamo soltanto che per i primi di marzo era di ritorno in sede. Di lì a poco tempo, agli inizi di maggio, doveva però lasciare di nuovo Cremona, questa volta per recarsi a Torino dove, a nome di Sisto V, tenne a battesimo il piccolo Filippo Emanuele, figlio del duca Carlo Emanuele I. Verso la metà del mese di giugno del 1587 era già di ritorno nella diocesi, che nel settembre successivo lasciava una volta di più per recarsi a Roma. Qui sarebbe rimasto questa volta per oltre due anni. Oscuri rimangono i motivi di tale suo trasferimento: dell'attività da lui svolta nella Curia romana durante questo periodo non sappiamo peraltro quasi nulla.
Probabilmente, durante la sua permanenza, partecipò ai lavori della neoeretta Congregazione dei Riti, alla quale Sisto V lo ascrisse nel quadro della riforma della Curia romana varata con la bolla Immensa aeterni Dei del 22 gennaio 1588. La Congregazione era competente in materia di liturgia e di cause di canonizzazione dei santi, ma ignoriamo con quale effettivo apporto contribuisse Sfondrati all'assolvimento di questi compiti istituzionali. È certo, per contro, che durante il suo soggiorno romano rafforzò i legami personali con Filippo Neri, prendendo parte anche alle attività da questi promosse nell'ambito dell'Oratorio della Chiesa Nuova. Dell'ambiente oratoriano, ormai divenuto principale centro di irradiazione a Roma della rinnovata religiosità postridentina, sembra essere stato assiduo frequentatore.
Tra la seconda metà del febbraio 1590 e i primi di marzo fece ritorno a Cremona, donde ripartiva per Roma agli inizi di settembre, quando gli pervenne la notizia della morte di Sisto V, avvenuta il 27 agosto. Nel successivo conclave, Sfondrati figurava tra i papabili. Già prima dell'8 settembre, giorno in cui esso fu chiuso, il nome del cardinale di Cremona circolava con insistenza. Pur essendo gradito al partito spagnolo, del quale faceva parte, altre candidature precedevano la sua nella lista dei porporati appoggiati da Filippo II. Fra questi ultimi spiccava il nome del cardinale Giambattista Castagna, il quale fu effettivamente eletto il successivo 15 settembre, al termine di un conclave durato una settimana. Ma Urbano VII non doveva vivere a lungo: morì infatti il 27 settembre, dopo appena dodici giorni di pontificato.
Ancora una volta, alla vigilia del nuovo conclave, il nome di Sfondrati figurava nella ristretta rosa dei papabili. A rafforzare le aspettative a suo favore contribuì l'iniziativa senza precedenti presa dalla diplomazia spagnola a Roma (impersonata dall'ambasciatore ordinario, conte di Olivares, e da un inviato straordinario, il duca di Sessa) di rendere pubblica, prima dell'inizio del conclave, la lista dei sette cardinali sostenuti da Filippo II. In essa, come la volta precedente, figurava il vescovo di Cremona, anche se alla sua candidatura il sovrano anteponeva quella di altri porporati, in particolare quella dei cardinali G.A. Santoro e L. Madruzzo. L'appoggio della Corona spagnola avrebbe avuto, al giusto momento, peso determinante, posto che, almeno in teoria, essa controllava ventidue voti su cinquantadue, quanti erano i cardinali presenti: non abbastanza per raggiungere il "quorum" dei due terzi, ma numero sufficiente per escludere qualsiasi altra candidatura non gradita.
Contrariamente a quanto era avvenuto la volta precedente, il secondo conclave fu particolarmente lungo: quasi due mesi. Apertosi la sera del 6 ottobre 1590, si concluse il 5 dicembre successivo con l'elezione del vescovo di Cremona, dopo che le candidature dei soggetti più quotati erano naufragate una dopo l'altra. Certamente giocò a favore di Sfondrati - il quale assunse il nome di Gregorio XIV in segno di gratitudine per Gregorio XIII che lo aveva creato cardinale - la circostanza che, essendo vissuto per la quasi totalità della sua vita lontano dagli intrighi della Corte di Roma, nessuno degli elettori gli era ostile per motivi personali. La sua elezione fu comunque considerata un successo degli Spagnoli, non solo perché era un loro candidato, ma anche perché si trattava di un suddito della Corona, i cui sentimenti di devozione per il sovrano erano noti. A Roma furono presto conosciute la vita esemplare, la frugalità e la pietà del nuovo papa, che anche dopo l'esaltazione al soglio pontificio conservò l'abitudine di confessarsi tutti i giorni e di celebrare quotidianamente la messa. Il suo carattere mite, la sua poca pratica della Curia romana e la sua totale inesperienza nelle questioni politico-ecclesiastiche e amministrative lo rendevano però inadatto a sostenere il peso del governo della Chiesa e dello Stato pontificio. G. stesso ne era consapevole e perciò chiamò presso di sé persone di sua piena fiducia, quali il teatino G. Ferri e, soprattutto, il nipote Paolo Emilio Sfondrati, trentenne abate promosso cardinale sin dal 19 dicembre 1590, messo a capo della Segreteria pontificia e investito della soprintendenza dello Stato pontificio con breve del 31 dicembre 1590.
Dal momento che il papa aveva riservato a sé le questioni meramente ecclesiastiche, nelle mani del cardinale nipote - che era ancor meno preparato dello zio - finirono con il concentrarsi vastissimi poteri decisionali nel disbrigo degli affari di governo. Tali poteri furono poi ulteriormente ampliati dalla delega concessagli nella Segnatura delle suppliche, mediante la quale, in sostanza, gli veniva conferita la facoltà di accordare o rifiutare quanto i postulanti richiedevano al pontefice. Quest'ultima concessione era eccessiva e senza precedenti. Dinanzi al malcontento suscitato in seno al Sacro Collegio, G. si indusse a modificarla: con breve del 12 ottobre 1591, la Segnatura nelle materie di grazie e di giustizia e in quelle relative allo Stato pontificio veniva attribuita congiuntamente a Sfondrati, ai tre cardinali capi d'ordine e al cardinale Mariano Pierbenedetti. La decisione giungeva però tardiva, perché tre giorni più tardi il papa decedeva. La designazione del nipote, che pure aveva ricevuto un'ottima formazione nell'Oratorio della Chiesa Nuova, prima, e nell'Università di Pavia, dopo, fu una scelta infelice. La sua palese bramosia di potere, la sua mancanza di tatto, i modi autoritari con i quali, a dispetto dell'inesperienza, tentava di imporre le proprie scelte lo resero presto impopolare e contribuirono in definitiva a gettare un'ombra sul pontificato dello zio.
Tra i problemi politico-ecclesiastici rimasti irrisolti alla morte di Sisto V, il più grave e urgente era quello della successione sul trono di Francia. Alla morte di Enrico III, il successore designato era l'ugonotto Enrico di Borbone, re di Navarra. Questi era però stato dallo stesso Sisto V scomunicato come eretico relapso e dichiarato inabile a regnare. All'ascesa al trono di un candidato protestante si opponevano inoltre sia i cattolici francesi riuniti nella Lega cattolica, sia Filippo II di Spagna, il quale forniva a quest'ultima l'appoggio militare spagnolo anche perché intendeva fare valere i diritti alla successione che la figlia Isabella Clara Eugenia vantava come nipote "ex sorore" di Enrico III. Le insistenti pressioni esercitate dalla diplomazia spagnola a Roma su Sisto V affinché orientasse la politica della Santa Sede in senso favorevole alle mire egemoniche di Filippo II avevano fatto registrare momenti di acuta tensione nei rapporti tra Spagna e Santa Sede. Adesso che - dopo il vuoto di potere creatosi durante i due conclavi intervallati dal breve pontificato di Urbano VII - sedeva sulla cattedra di Pietro un papa favorevole agli interessi spagnoli, Filippo II fece rinnovare i precedenti passi presso G. e, soprattutto, presso il cardinale nipote, prevedibilmente più ansioso, per i propri personali interessi, di entrare nelle grazie del sovrano. La nuova iniziativa diplomatica doveva produrre i suoi frutti. Agli inizi di gennaio, il papa riuniva la Congregazione per gli Affari di Francia, alla quale aveva ascritto alcuni cardinali di sentimenti filoispanici, quali L. Madruzzo, G.A. Santoro e E. Caetani, mentre il 19 dello stesso mese inviava un breve laudatorio a Filippo II per il soccorso portato alla città di Parigi assediata dagli ugonotti.
Una settimana più tardi, G. nominava nunzio straordinario in Francia un suddito del sovrano spagnolo, il milanese Marsilio Landriani. A questo prelato notoriamente devoto alla Corona spagnola veniva affidato il compito di favorire l'unione di tutte le forze cattoliche contro Enrico di Navarra: in particolare, egli doveva adoprarsi affinché i seguaci cattolici di quest'ultimo abbandonassero la sua causa. Nel mese di marzo, il pontefice, vincendo l'opposizione di una parte dei cardinali, otteneva dal Concistoro l'autorizzazione a prelevare dal Tesoro di Castel S. Angelo la cospicua somma di 300.000 scudi per finanziare l'invio di un corpo di spedizione pontificio destinato a combattere a fianco della Lega e della Spagna. Al comando delle truppe nominava, il 19 maggio, il nipote Ercole Sfondrati. Questi lasciava Roma alla testa delle sue truppe il successivo 12 giugno. Lo seguiva, pochi giorni più tardi, il nunzio Landriani, al quale furono consegnati un monitorio che dichiarava il re decaduto da ogni diritto alla Corona e una bolla che fulminava la scomunica contro quanti si ostinassero a difenderne la causa. Siffatto complesso di iniziative - con le quali, a differenza dei predecessori, il papa si schierava decisamente a favore della Lega e della Spagna - si fondava sul presupposto che i cattolici francesi avrebbero prontamente accolto le esortazioni del pontefice. I fatti dovevano dimostrare il contrario, anche perché la posizione di Enrico di Borbone era più solida di quanto si pensasse a Roma. Landriani si scontrò contro l'opposizione del Parlamento di Parigi, che ravvisò nella sua missione una indebita interferenza papale negli affari interni del Regno; dal canto loro, alcuni dei principali seguaci cattolici del Navarra si rifiutarono di aderire all'invito del pontefice. In quanto al corpo di spedizione pontificio, esso giunse in Lorena, stremato dalle fatiche e decimato dalle diserzioni, soltanto nel mese di settembre. Si acquartierò, insieme alle truppe del duca di Lorena, presso Verdun, dove alla fine di ottobre non si era ancora verificata la prevista congiunzione con l'esercito spagnolo comandato da Alessandro Farnese. Nel frattempo G. era morto: la prematura scomparsa del pontefice veniva a sancire il completo fallimento della sua politica francese. Al momento della sua ascesa al soglio pontificio, oltre alla questione della successione sul trono di Francia, G. si trovò a dover far fronte a tre gravi problemi interni: la carestia, la peste e il banditismo. La penuria di generi alimentari, soprattutto di farina, si era già manifestata nel corso del lungo conclave. Non appena eletto, G. cercò di fare fronte alla difficile situazione. Il 9 dicembre scriveva a Filippo II per ottenere l'invio di frumento dalla Sicilia. Dall'isola non giunse nulla, ma il sovrano provvide a far pervenire rifornimenti dal Regno di Napoli nel febbraio. Altri cospicui invii il papa ottenne dal granduca Ferdinando I di Toscana e dal duca Carlo Emanuele I di Savoia. Di scarsa efficacia si rivelarono per contro i provvedimenti papali intesi a colpire la speculazione e a imporre il razionamento del pane. Nel mese di marzo, G. ricevette dai cardinali riuniti in Concistoro l'autorizzazione a prelevare 100.000 scudi dal Tesoro di Castel S. Angelo per sovvenire ai bisogni alimentari della popolazione. La situazione d'emergenza fu finalmente superata verso la fine d'aprile grazie all'arrivo di nuovi rifornimenti dal Regno di Napoli.
L'anno 1591 fu anche funestato dalla comparsa della peste. I primi sintomi si manifestarono in gennaio, sebbene l'epidemia cominciasse a diffondersi soltanto nei mesi di aprile e maggio. Sin dall'inizio, G. largheggiò in elemosine ed aiuti e promosse l'apertura di lazzaretti per gli appestati. Nel soccorso agli ammalati si distinsero Camillo de Lellis e i suoi confratelli, nonché il giovane Luigi Gonzaga il quale, spinto dal suo ardente spirito di carità, finì con il contrarre il morbo, morendo a soli ventitré anni. Fortunatamente, con l'arrivo della bella stagione l'epidemia cessò.
Con la carestia e la pestilenza, contribuì a turbare il già tribolato pontificato la piaga endemica del banditismo. La lunga sede vacante, la penuria dei generi alimentari, oltre alle diffuse collusioni con la nobiltà (il più famoso bandito dell'epoca fu Alfonso Piccolomini, duca di Montemarciano), avevano reso le bande più audaci e aggressive. Nessun risultato produsse la promessa della remissione della pena a quei fuorilegge che si fossero arruolati nel corpo di spedizione destinato alla Francia. Effetti concreti si ebbero solo con la decisione papale di avviare una energica azione di repressione. Nella primavera del 1591, un contingente di seicento uomini fu destinato alla lotta contro i fuorilegge; determinante si rivelò inoltre la collaborazione richiesta alle autorità spagnole di Napoli e al granduca di Toscana, le cui truppe catturarono in territorio pontificio, agli inizi del gennaio 1591, il famigerato Piccolomini.
La volontà di attuare una più efficace repressione della criminalità, ma anche di delimitare con maggiore chiarezza i confini tra giurisdizione ecclesiastica e giurisdizioni laiche ispirò la promulgazione della costituzione Cum alias del 24 maggio 1591. Evidentemente memore delle controversie affrontate come vescovo di Cremona, G. intendeva, con il nuovo documento pontificio, dettare una più chiara normativa in materia di diritto d'asilo. Nella costituzione, pur riaffermando le tradizionali immunità della Chiesa, il papa veniva incontro alle esigenze manifestate in vari Stati dalle autorità civili, escludendo, in particolare, dal godimento di tale diritto gli autori dei crimini più gravi, quali il banditismo, l'omicidio, l'assassinio su commissione, la lesa maestà.
Le spese che comportarono l'invio del corpo di spedizione in Francia e l'approvvigionamento di Roma durante la carestia non consentirono a G. di intraprendere grandi lavori urbanistici e artistici. Riprendendo i progetti architettonici avviati sotto Sisto V, ordinò di continuare le opere di completamento della cupola di S. Pietro e di proseguire la costruzione del palazzo del Quirinale. Fece realizzare il collegamento del palazzo del Laterano con gli appartamenti dell'arciprete della basilica e ripristinò il passaggio che univa il palazzo di S. Marco con S. Maria in Aracoeli. A Domenico Fontana commissionò la tomba del cardinale Federico Cornaro, cui era stato particolarmente legato, in S. Silvestro al Quirinale. Il progetto per la costruzione della propria cappella funebre in S. Maria Maggiore, abbozzato nel marzo 1591, fu poi da lui stesso abbandonato. Sin dall'epoca del suo episcopato cremonese, G. sembra avere avuto uno speciale interesse per la musica (a lui dedicarono proprie composizioni Marc'Antonio Ingegneri, Paolo Isnardi e Ippolito Chamaterò). Non stupisce perciò che durante il suo breve pontificato, con la bolla Cum nos super (promulgata il 1° ottobre 1591, ma avente effetto retroattivo dal 1° gennaio precedente), egli si preoccupasse di dotare la Cappella musicale pontificia di nuove rendite. Ed il sommo compositore Giovanni Pierluigi da Palestrina, che era tra i beneficiari del provvedimento, non mancò di esprimere la propria gratitudine dedicando al papa la raccolta Magnificat Octo Tonum Liber Primus, pubblicata in quello stesso anno.
L'ultima questione in campo politico-ecclesiastico che il papa dovette affrontare fu la successione sul trono ducale di Ferrara. Il duca Alfonso II d'Este non aveva discendenti diretti e pertanto, alla sua morte, il Ducato, feudo pontificio, avrebbe dovuto essere devoluto alla Sede apostolica in base alla bolla Admonet nos del 29 marzo 1567 (detta De non infeudandis) con la quale Pio V aveva vietato nuove infeudazioni. Alfonso II desiderava invece potere nominare suo successore il capostipite di un ramo collaterale, Filippo d'Este, marchese di San Martino. G. era incline ad accontentarlo, tanto più che i marchesi di San Martino erano imparentati con gli Sfondrati. Occorreva tuttavia accertare se il caso del duca Alfonso II fosse o meno compreso nella bolla di Pio V, dal momento che quest'ultima faceva riferimento alle nuove investiture, ma non al prolungamento di quelle ancora in vigore. Per il pontefice, il caso non rientrava in quelli contemplati dalla bolla: la sua tesi si scontrò però contro l'opinione contraria della maggior parte dei cardinali riuniti nel Concistoro del 13 settembre 1591. In un primo momento tale aperta opposizione suscitò lo sdegno del papa e lo indusse, probabilmente su istigazione del cardinale nipote, a prendere in considerazione la possibilità di scavalcare il Concistoro. G. finì però per desistere dai suoi propositi e il 4 ottobre faceva pubblicare una bolla confirmatoria di quella di Pio V. A dispetto della sua brevità è nel settore specificamente religioso - campo d'azione più consono alla preparazione e alle inclinazioni dell'antico vescovo di Cremona - che il pontificato di G. riveste una particolare rilevanza.
Le sue iniziative riflettono quello spirito riformatore al quale si era ispirato il suo impegno di pastore. Sin dagli inizi del 1591, il papa impartì direttive affinché i cardinali e tutti gli altri ecclesiastici presenti in Curia che fossero vincolati all'obbligo della residenza rientrassero nelle rispettive sedi. Al fine di garantire un più attento controllo sull'applicazione del concilio di Trento, con il breve Ut securitati del 22 febbraio 1591 ampliò le competenze della Congregazione cardinalizia del Concilio, alla quale furono attribuite le facoltà di interpretare i decreti disciplinari tridentini, di conoscere tutte le cause relative alla loro applicazione e di emanare propri decreti a nome del pontefice. G. si preoccupò anche di garantire una accurata selezione dei candidati all'episcopato: per mezzo della costituzione Onus apostolicae servitutis del 15 maggio successivo, fissò le procedure da seguire nella raccolta di informazioni quanto più esaurienti possibili sui promovendi alle sedi vescovili. Risulta che egli avesse in mente di sottoporre i candidati alle diocesi della penisola italiana e delle isole adiacenti ad un esame personale da svolgersi dinanzi a un'apposita Congregazione cardinalizia: al progetto fu però data attuazione concreta soltanto più tardi, nel 1592, per iniziativa di Clemente VIII, al quale si deve l'erezione formale della Congregazione per l'Esame dei Vescovi voluta dal suo predecessore.
Particolari sollecitudini il papa riservò agli Ordini religiosi, specialmente a quelli di più recente formazione. Su richiesta del preposito generale C. Acquaviva intervenne nel giugno 1591 per confermare le originarie costituzioni della Compagnia di Gesù contro il tentativo messo in opera sin dall'epoca di Sisto V per modificarle. A dimostrazione dello speciale suo apprezzamento per l'opera di evangelizzazione svolta dai Gesuiti nelle missioni d'Oltremare, G. ripristinò la pensione, sospesa qualche anno prima da Sisto V, di 4.000 ducati a beneficio dei collegi e dei seminari della Compagnia in Giappone. Con il breve del 21 settembre 1591, poi, confermava tutti i privilegi, indulgenze e facoltà concessi dai suoi predecessori ai Gesuiti operanti nelle Indie Occidentali e Orientali. G. inoltre favorì gli Oratoriani, ai quali fece consegnare due chiese a Napoli nell'agosto 1591. A Filippo Neri, cui era legato sin da prima della sua esaltazione al soglio pontificio, avrebbe voluto conferire la porpora, mentre prese in considerazione il nome del celebre storico oratoriano Cesare Baronio come possibile vescovo di Senigallia: il rifiuto di entrambi gli interessati lo indusse poi a rinunciare ai suoi propositi. Il 18 febbraio 1591 confermò inoltre l'erezione canonica della Congregazione dei Chierici Regolari Minori fondati da Francesco Caracciolo e da Giovanni Agostino Adorno, mentre il 21 settembre concedeva la solenne approvazione delle costituzioni della Congregazione dei Ministri degli Infermi di Camillo de Lellis, alla quale, per le sue benemerenze nel soccorrere gli appestati, aveva in precedenza assegnato un sussidio mensile di 50 scudi.
Una delle più importanti imprese rimaste in sospeso dopo la morte di Sisto V riguardava l'edizione ufficiale del testo della Vulgata. Il lavoro di revisione, inizialmente affidato ad una commissione di esperti, era stato poi personalmente ripreso da papa Peretti sulla base di criteri di critica testuale del tutto arbitrari. L'edizione, pubblicata nella primavera del 1590, fu subito oggetto di critiche severe. G., seguendo il parere del dotto gesuita Roberto Bellarmino, decise di promuovere una nuova edizione che, a salvaguardia della memoria del defunto pontefice, sarebbe stata pubblicata sotto il suo nome dopo un'accurata correzione. Tale compito fu affidato ad una commissione presieduta dal cardinale M.A. Colonna e composta da altri diciassette membri. Essa si riunì per la prima volta il 7 febbraio 1591. Siccome però i suoi lavori procedevano a rilento, anche a motivo del numero troppo elevato dei suoi componenti, G. finì con il deliberare la formazione di una commissione più ristretta presieduta dal Colonna e dal cardinale W. Allen. Agli inizi di luglio l'opera di revisione era ultimata, anche se la nuova edizione a stampa vedrà la luce soltanto dopo la morte del papa.
Nell'ultima decade di settembre, G. soffrì di un attacco di calcolosi. Le sue condizioni apparvero subito gravi, tanto che il giorno 25 gli fu portato il viatico. Dopo un'effimera ripresa, si verificò una ricaduta dalla quale non si riprese più: esalò l'ultimo respiro nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 1591. G. lasciava di sé il ricordo di un uomo pio, di costumi illibati, animato da rette intenzioni, ma dominato dal nipote e succube della Spagna. Sul suo pontificato, durato poco più di dieci mesi, pesa il fallimento di una politica francese troppo sbilanciata a favore degli interessi della Lega cattolica e di Filippo II e troppo onerosa per le finanze della Santa Sede.
fonti e bibliografia
Per quanto riguarda la storia del pontificato di G., insuperata rimane l'opera di L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, X, Roma 1955, pp. 533-75. A differenza di altri papi della seconda metà del Cinquecento, disponiamo in questo caso anche di una moderna biografia scritta da L. Castano, Gregorio XIV, Niccolò Sfondrati 1535-1591, Torino 1957. Fonte di preziose informazioni rimane pur tuttavia M. Facini, Il pontificato di Gregorio XIV su documenti inediti, Roma 1911.
Per la biografia di Sfondrati prima del pontificato, cfr.: D. Bergamaschi, Vita di Gregorio XIV per la prima volta raccolta e narrata, in B.A.V., Vat. lat. 10746, cc. 1-226 (ms. della fine del XIX secolo); Raccolta d'alcuni decreti provinciali et altri ordini particolari di Monsig. [...] Rm°. Cardinale et Vescovo di Cremona fatti et pubblicati nelle sinodi sue diocesane in diversi tempi celebrate [...], Cremona 1584; Die römische Kurie und das Koncil von Trient unter Pius IV. Actenstücke zur Geschichte des Koncils von Trient, I-IV, a cura di J. ŠSusta, Wien 1904-14: I-II e IV, ad indices; Concilium Tridentinum: diariorum, actorum, epistularum, tractatuum, a cura della Società Gorresiana, I-XIII, Friburgi Brisgoviae 1901-61, in partic. II, III/2, VIII, IX, ad indicem.
Per la sua attività di vescovo: F. Calvi, Sfondrati, in Id., Famiglie notabili milanesi, II, Milano 1881, fasc. XV, tavv. I-II; L. Castano, Mons. Niccolò Sfondrati, vescovo di Cremona, al concilio di Trento, 1561-1563, Torino 1939; M. Marcocchi, La riforma dei monasteri femminili a Cremona. Gli atti inediti della visita del vescovo Cesare Speciano (1599-1606), Cremona 1966, pp. XV s., XX s., XXIX, LI; F. Arese, Le supreme cariche del ducato di Milano da Francesco II Sforza a Filippo V, "Archivio Storico Lombardo", 97, 1970, pp. 83, 148; G. Politi, Aristocrazia e potere politico nella Cremona di Filippo II, Milano 1976, ad indicem; H. Jedin, Storia del concilio di Trento, IV, 1-2, Brescia 1979-88, ad indicem; F. Arese, Cardinali e vescovi milanesi dal 1535 al 1796, "Archivio Storico Lombardo", 107, 1981, pp. 164, 173, 186, 222, 223; L.M. Belloni, Il nome di San Carlo Borromeo nell'epistolario del vescovo Sfondrati, "Diocesi di Milano. Terra Ambrosiana", 24, 1983, pp. 354 ss.; M. Marcocchi, Per la storia della vita religiosa a Cremona nel Cinquecento. Problemi e prospettive di ricerca, in Vita religiosa a Cremona nel Cinquecento, Cremona 1985, pp. 9, 12, 14, 18-9; A. Cistellini, San Filippo Neri, l'Oratorio e la Congregazione oratoriana. Storia e spiritualità, I-III, Brescia 1990, ad indicem; E. Veronese Caseracciu, Niccolò Sfondrati, papa Gregorio XIV, studente de leggi a Padova (1550-1555), "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 24, 1991, pp. 83-96; S. Leydi, Cariche e poteri tra Cremona e Milano, in La città di Sofonisba. Vita urbana a Cremona tra XVI e XVII secolo, Milano 1994, pp. 39 s., 43, 49-50; M. Mazzolari-G. Rigoni Savioli, La condizione femminile, ibid., p. 101; Marc'Antonio Ingegneri e la musica a Cremona nel secondo Cinquecento [...], a cura di A. Delfino-M.T. Rosa Barezzani, Lucca 1995, ad indicem; G. Bosio, Tensioni religiose ed impulsi riformistici dall'inizio del sec. XV al concilio di Trento, in Diocesi di Cremona, a cura di A. Caprioli-A. Rimoldi-L. Vaccaro, Brescia 1998, pp. 146, 157, 159-61, 166; M. Marcocchi, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa a Cremona in età post-tridentina, ibid., pp. 169 ss., 175 s., 177, 179, 180, 186 s., 191 ss., 196 ss., 203, 205 ss.
Per le fonti a stampa relative al pontificato: Nuntiaturberichte aus Deutschland nebst ergänzenden Aktenstücken, 1589-1592. Zweite Abteilung: die Nuntiatur am Kaiserhofe, III, Die Nuntien in Prag. Alfonso Visconte, 1589-1591, Camillo Caetano, 1591-1592, a cura di J. Schweizer, Paderborn 1919, pp. 253-397; Nunziature di Napoli, III, a cura di M. Bettoni, Roma 1970 (Fonti per la Storia d'Italia, 109), pp. 281-380; Nuntiaturberichte aus Deutschland nebst ergänzenden Aktenstücken. Die Kölner Nuntiatur, II, 2, Nuntius Ottavio Mirto Frangipani (1590 August-1592 Juni), a cura di B. Roberg, Paderborn-München-Wien-Zürich 1971, pp. 21-154; Monumenta Historica Japoniae, I, a cura di J.F. Schütte, Romae 1975, ad indicem; Documenta Malucensia, II, a cura di H. Jacobs, ivi 1980, ad indices; Die Hauptinstruktionen Clemens' VIII. für die Nuntien und Legaten an den europäischen Fürstenhöfen, 1592-1605, I-II, a cura di K. Jaitner, Tübingen 1984, ad indices; America Pontificia primi saeculi evangelizationis, 1493-1592, a cura di J. Metzler, II, Città del Vaticano 1991, pp. 1418-76; Epistolae ad Principes, III, Sixtus V-Clemens VIII (1585-1605), a cura di L. Nanni-T. Mrkonji´c, ivi 1994, pp. 78-113.
Per studi su singoli aspetti del pontificato: R.G. Bindschleder, Kirchliches Asylrecht (Immunitas ecclesiarum localis) und Freistätten in der Schweiz, Stuttgart 1906 (rist. Amsterdam 1964), ad indicem; A. Mercati, Intorno a un "anecdoton" bellarminiano, in Id., Nell'Urbe dalla fine di settembre 1337 al 21 gennaio 1338. Documenti seguiti da altre "Varia" dall'Archivio Segreto Vaticano, Roma 1945, ad indicem; J. Delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVIe siècle, I-II, Paris 1957-59, ad indicem; G. Battelli, I registri delle suppliche e dei decreti di mons. Landriani e del card. Sega, nunzi in Francia (1591), in Mélanges offerts à Charles Braibant, Bruxelles 1959, pp. 19 ss.; P. Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), I-II, Roma 1959-67, ad indicem; I. Cloulas, L'armée pontificale de Grégoire XIV, Innocent IX et Clément VIII pendant la deuxième campagne en France d'Alexandre Farnèse (1591-1592), "Bulletin de la Commission Royale d'Histoire", 126, 1960, pp. 83 ss.; D.L. Jensen, Diplomacy and Dogmatism. Bernardino de Mendoza and the French Catholic League, Cambridge, Mass. 1964, p. 210; M. Vanti, San Camillo de Lellis e i suoi Ministri degli Infermi, Roma 1964⁵, ad indicem; N. del Re, La Curia romana. Lineamenti storico-giuridici, ivi 1970³, ad indicem; M. Laurain-Portemer, Absolutisme et népotisme: la surintendance de l'État ecclésiastique, "Bibliothèque de l'École des Chartes", 131, 1973, pp. 502-07; W. Reinhard, Papstfinanz und Nepotismus unter Paul V. (1605-1621). Studien und Quellen zur Struktur und zu quantitativen Aspekten des päpstlichen Herrschaftssystems, I-II, Stuttgart 1974, ad indicem; I. Polverini Fosi, La società violenta. Il banditismo dello Stato pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma 1985, ad indicem; L. Bianchi, Palestrina nella vita, nelle opere, nel suo tempo, Palestrina 1995, pp. 233-35; G. Caravale, Inediti di Francesco Pucci presso l'Archivio del Sant'Uffizio, "Il Pensiero Politico", 32, 1999, pp. 72 s., 75 ss., 81 s.
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