Etnici, gruppi
Nel suo famoso studio sul nazionalismo Elie Kedourie si chiede a un certo punto se tale fenomeno sia sempre esistito oppure se rappresenti uno sviluppo storico particolare (v. Kedourie, 1966³, pp. 73-74). La stessa questione si può porre in rapporto ai gruppi etnici. Al pari delle nazioni, anche i gruppi etnici richiedono la fedeltà dei propri membri, cui si accompagna spesso l'ostilità nei confronti degli estranei e una certa riluttanza ad ammetterli nel gruppo. Molti, come Kedourie nel caso del nazionalismo, risponderebbero che sebbene tali sentimenti siano universalmente diffusi in tutte le società umane, tuttavia non sono sufficienti a determinare, e ancor meno a spiegare, la forza e la persistenza dei legami etnici. Purtroppo però il problema in questo caso risulta assai più complicato, perché la risposta alla questione iniziale dipende in larga misura dal modo in cui vengono definiti i termini. Così come il termine 'nazione' è stato - ed è tuttora - impiegato dagli studiosi in modi differenti, allo stesso modo sussistono delle discordanze nell'uso dell'espressione 'gruppo etnico'.
Un'analisi del problema più approfondita di quella consentita in questa sede potrebbe dimostrare quanto questi concetti siano radicati nella storia intellettuale dell'Occidente e fino a che punto siano intrecciati. Per ragioni di spazio - e a rischio di una eccessiva semplificazione - concentreremo la nostra attenzione sul problema dei gruppi etnici così come esso si è posto in epoca più recente. La questione centrale al riguardo è sempre più quella del persistente ruolo sociale dei gruppi etnici, benché la teoria sociologica e un dogma del pensiero liberale ne avessero previsto da tempo la fine.
La definizione weberiana della natura dei gruppi etnici può costituire un utile punto di partenza per affrontare il nostro tema. Weber utilizzò l'espressione 'gruppi etnici' per designare quei gruppi umani caratterizzati dalla credenza soggettiva in una discendenza comune determinata dall'affinità dei tratti somatici o delle usanze o di entrambe (v. Weber, 1922). Per quanto riguarda la questione della discendenza, Weber si premurava di osservare che l'effettiva esistenza di un legame di sangue era irrilevante. Tuttavia è assai importante sottolineare che gli studiosi europei utilizzavano l'espressione 'gruppo etnico' per designare un gruppo equivalente per estensione alla 'nazione', e non un segmento o un sottogruppo di tale unità più ampia (v. Banton, 1983, p. 64). Il punto di vista 'europeo' continua a influenzare molti studiosi contemporanei (v. ad esempio Smith, 1981). Per altri invece, e in particolare per molti scienziati sociali americani, la nozione di collettività all'interno di una più ampia formazione sociale è diventata il fulcro della definizione di 'gruppo etnico' (v. Morris, 1968, p. 167; v. Schermerhorn, 1970, p. 12). Altri ancora oscillano tra le due posizioni: ad esempio Glazer (v., 1983, p. 234), fa rientrare l'espressione 'gruppo etnico' in una famiglia di termini affini o di significato analogo quali 'gruppo di minoranza', 'razza' e 'nazione'. Date queste discrepanze, non sorprende trovare uno studioso il quale lamenta che l'espressione in questione è diventata altrettanto camaleontica quanto il termine 'nazione' (v. Connor, 1978, p. 386). Come si vedrà, tuttavia, ciò non dipende esclusivamente da imprecisioni terminologiche: il problema nasce piuttosto dai tentativi degli scienziati sociali di vari ambiti disciplinari e specializzazioni di affrontare i diversi aspetti di un fenomeno alquanto complesso e sfaccettato.
Se esisteva un punto sul quale i sociologi del periodo classico concordavano, questo era la tesi secondo cui i gruppi etnici come forma di organizzazione sociale erano in declino e sarebbero probabilmente scomparsi nel giro di breve tempo. Secondo Weber, ad esempio, i vincoli basati sull'appartenenza etnica propri di contesti sociali relativamente indifferenziati avrebbero perso il loro ascendente, indeboliti dai processi di differenziazione strutturale in atto nelle società moderne. In breve tempo questi legami essenzialmente particolaristici sarebbero stati soppiantati da vincoli di portata più universale; in particolare, nel sistema di stratificazione sociale nonché nella determinazione della condotta politica i vincoli etnici avrebbero lasciato il posto a un sistema di affinità basato sulle classi sociali (v. Weber, 1922). Questa previsione non è stata confermata dagli eventi; al contrario, quanto più ci si avvicina all'epoca presente, tanto più la questione etnica sembra aver guadagnato importanza, come dimostra l'ampia diffusione negli ultimi decenni dei conflitti etnici o dei conflitti sociali caratterizzati da una componente etnica. La questione etnica è diventata un problema politico di primo piano in diversi paesi, costituendo una grave minaccia per la coesione degli Stati e una fonte di tensioni internazionali. Come è stato giustamente osservato, la questione etnica è riuscita a imporsi alla consapevolezza dell'opinione pubblica e del mondo accademico (v. Horowitz, 1985, p. XI). Tuttavia, sebbene le tensioni e i disordini che a volte sfociano nella guerra civile costituiscano attualmente l'espressione più drammatica del problema etnico, si dovrebbe aver cura di sottolineare che non è questo l'unico aspetto che ha attirato l'attenzione degli scienziati sociali. Inoltre, anche se il persistere dei gruppi etnici e della fedeltà a essi è diventato uno dei problemi centrali dell'analisi, questo fenomeno in se stesso non esaurisce la complessità della tematica in questione, perché i contesti in cui entra in gioco il fattore etnico sono estremamente fluidi e soggetti a improvvisi mutamenti. Sarà quindi opportuno per fini espositivi analizzare in primo luogo le diverse situazioni in cui è emersa la questione etnica e che hanno attirato l'attenzione degli scienziati sociali, per considerare poi i vari approcci teorici da essi adottati.
Quanti hanno affrontato il problema nella sua dimensione storica considerano la guerra e la conquista come i principali fattori che generano il sentimento etnico; il modello su cui si basa questo approccio analizza i rapporti tra gruppi etnici basati sulla territorialità (v. Smith, 1987, pp. 37-41). Per molti studiosi della società contemporanea, d'altro canto, sono stati gli spostamenti di popolazioni - attraverso migrazioni volontarie nelle terre d'oltreoceano alla ricerca di condizioni di vita migliori, attraverso il sistema della manodopera a contratto che portava lavoratori stranieri nelle piantagioni di canna da zucchero, tè, caucciù, ecc., o più semplicemente attraverso l'immigrazione di lavoratori nei nuovi centri urbani e industriali - a creare situazioni in cui, come in tutti i casi citati, gruppi di varia estrazione e provenienza si trovano a vivere in stretto contatto e a interagire in un contesto sociale comune. Non è un caso che alle origini dello studio moderno della questione etnica vi sia stata l'esperienza americana dell'immigrazione di massa.
I primi studi sui rapporti etnici e razziali negli Stati Uniti vennero condotti in gran parte da studiosi di psicologia sociale interessati ai problemi del pregiudizio e della discriminazione; fu l'antropologo W. Lloyd Warner a reintrodurre il termine 'gruppo etnico' nell'analisi sociologica col suo studio pionieristico sulla comunità del New England che egli chiamò Yankee city. Proponendosi di esaminare i processi di adattamento alla vita americana di differenti nuclei di immigrati, Warner fu indotto a considerare i gruppi etnici come sottogruppi e a interrogarsi sul loro destino nella società complessiva. Una conseguenza di questo impiego del termine della quale egli era del tutto inconsapevole fu che 'gruppo etnico' divenne sinonimo di 'gruppo di minoranza', con un evidente impoverimento del concetto. Inoltre la sua analisi trascurava ampiamente la componente soggettiva - tanto importante nella concezione weberiana - mettendo l'accento invece sui gruppi etnici come gruppi culturali. Anche se il processo di assimilazione poteva verificarsi con ritmi diversi a seconda dei gruppi, tuttavia il crescente abbandono delle tradizioni dei padri e il rifiuto degli antichi valori culturali da parte delle nuove generazioni sembravano portare inevitabilmente alla scomparsa dei gruppi etnici come elemento dell'organizzazione sociale (v. Warner e Srole, 1945).
A volte i processi di cambiamento in atto vennero interpretati come l'adattamento di culture e valori 'etnici' alla cultura e ai valori della società ospite, altre volte come la fusione di tutti i vari gruppi nel medesimo 'contenitore' sociale (v. Gordon, 1978, pp. 171172). In entrambi i casi l'assunto di fondo era che l'acculturazione - la tendenza a uniformarsi alla cultura comune - avrebbe contribuito a ridurre le discriminazioni e i pregiudizi producendo infine ciò che Gordon definiva 'assimilazione strutturale'. Si venne quindi a creare una profonda compenetrazione tra analisi e ideologia, e il modello assimilazionista rimase dominante sino agli anni sessanta. All'epoca, sebbene non fosse ancora possibile asserire che le previsioni di tale modello erano state smentite dal corso degli eventi, i sociologi americani - costretti a confrontarsi col 'persistere' dei vincoli etnici - furono indotti a rivedere le proprie premesse metodologiche e a ricercare nuovi modelli esplicativi.
Un'anticipazione dell'importante cambiamento di rotta che si stava preparando si ha nel seguente giudizio di Glazer e Moynihan (v., 1963, p. V), secondo il quale "l'idea che la mescolanza intensa e senza precedenti di gruppi etnici e religiosi in America avrebbe presto prodotto una società omogenea non è più valida e quindi ha perso la sua credibilità". A questo proposito vanno menzionate anche le tesi dell'antropologo norvegese Fredrick Barth (v., 1969), espresse pochi anni più tardi; anch'egli infatti, sebbene interessato ad aspetti assai diversi del problema, condusse un attacco a fondo contro gli assunti del modello dell'acculturazione, sia pure da una diversa prospettiva teorica. Mentre Glazer e Moynihan definivano i gruppi etnici come gruppi d'interesse, mettendo così in luce la loro funzione politica, Barth partiva da una definizione dei gruppi etnici come categorie di ascrizione e identificazione da parte degli attori sociali stessi. L'assunto implicito di questo approccio era che i gruppi tendono a definire se stessi non sulla base delle proprie caratteristiche ma per esclusione, ossia attraverso una comparazione con gli 'estranei'. Il problema etnico per Barth era quindi essenzialmente un problema di delimitazione: in questa prospettiva al centro dell'analisi vennero posti i confini che definiscono il gruppo etnico, non il contenuto culturale che essi delimitano. Sul piano empirico, comunque, Barth si interessò alle interrelazioni tra i gruppi etnici in diverse regioni del mondo in condizioni di relativa stabilità, e soltanto marginalmente si occupò delle situazioni in cui l'emergere della questione etnica era direttamente associato ai rapidi cambiamenti che gli antropologi cominciavano a riscontrare nel mondo coloniale degli anni cinquanta.
Negli anni cinquanta la crescita urbana e lo spostamento massiccio di popolazione da remoti villaggi alle città costituivano i segnali più chiari della trasformazione in atto sia in Africa che in altre aree coloniali. Nel continente africano il contesto urbano coloniale è stato definito "la culla della questione etnica contemporanea" (v. Nnoli, 1978), e sebbene nessuna singola città - o gruppo di città - possa essere considerata tipica, la feconda e precorritrice analisi di J.C. Mitchell sulla Copperbelt (cintura mineraria del rame) della Rhodesia settentrionale (l'attuale Zambia) alla metà degli anni cinquanta ci consente non soltanto di spiegare i motivi di questo fenomeno, ma anche di individuare alcuni processi più generali.
Utilizzando come punto di partenza il Kalela, un gruppo di danzatori 'tribali' che si esibiva nei ghetti dei minatori i pomeriggi domenicali, Mitchell osservò che l'espressione 'tribù' nelle città non aveva lo stesso significato che aveva nelle aree rurali; ciò che egli definiva "tribalismo" - un termine che venne presto sostituito con l'espressione "appartenenza etnica" per rispecchiare il carattere globale del fenomeno - aveva connotazioni assai diverse nei due contesti. Così ad esempio il comportamento 'tribale' degli africani della Copperbelt non poteva essere interpretato come un semplice trasferimento di valori e atteggiamenti tradizionali nel contesto urbano. Al contrario, lungi dall'essere un'espressione di conservatorismo o di inerzia, il tribalismo costituiva una reazione alle condizioni della vita urbana stessa. Mentre infatti il termine 'tribù' nelle aree rurali designava un gruppo organizzato all'interno di un singolo sistema sociale e politico, caratterizzato da usanze, credenze e valori in certa misura condivisi, nelle città esso designava una categoria di interazione all'interno del più ampio sistema urbano e sociale (v. Mitchell, 1956).
In questa prospettiva l'appartenenza etnica è in prima istanza un criterio di classificazione e quindi di definizione di categorie sociali. La categorizzazione è il processo attraverso il quale l'uomo struttura il mondo esterno; il bisogno di definire categorie è particolarmente acuto nelle situazioni - quali quelle dei nuovi agglomerati urbani - in cui i rapporti sociali sono necessariamente occasionali e superficiali, ma nello stesso tempo molteplici ed estesi. Ma in base a quali criteri vengono elaborate tali categorie? Per quel che riguarda la Copperbelt rhodesiana il principio della discendenza sembra adatto a fornire uno di questi criteri di categorizzazione, perché i clan di solito travalicano i confini etnici. Ma l'appartenenza al clan di fatto non poteva offrire una soluzione adeguata al problema, perché nonostante la sua diffusione il sistema clanico tradizionale non era esteso a tutte le regioni del paese. Inoltre i clan erano troppo numerosi, mentre ciò di cui si aveva bisogno era un numero ristretto di categorie. L'appartenenza al gruppo etnico costituiva il 'candidato' più adatto, di fatto l'unico che rispondesse allo scopo. Sebbene la popolazione africana di un centro della Copperbelt comprendesse a volte i membri di un centinaio di tribù, tenendo conto della prossimità geografica e della somiglianza/diversità culturale venne creato un sistema basato su un numero ristretto di categorie etniche principali. Dall'analisi di Mitchell emerge quindi un modello di rapporti sociali tra gli africani delle aree urbane basato su una componente - quella etnica - in grado di fornire una sorta di 'mappa cognitiva' al nuovo abitante dell'agglomerato urbano, consentendogli di orientarsi nella confusione creata dal fatto che la maggior parte di coloro con i quali entra in contatto direttamente o indirettamente sono per lui dei perfetti estranei.
Questa differenza tra 'tribù' come gruppo etnico e 'tribù' come categoria etnica va sottolineata. Alcuni impiegano l'espressione 'categoria etnica' per designare un'entità sociale di un determinato tipo, ad esempio le società acefale frequentemente descritte dagli antropologi; queste possono avere in comune determinate caratteristiche - elementi di una vicenda storica comune o un corpus di usanze e di dottrine religiose - ma hanno uno scarso senso della comunità in rapporto agli estranei e sono prive di un'organizzazione coesiva (v. Smith, 1981, p. 68). Tuttavia si può adottare anche una diversa prospettiva, considerando la categorizzazione principalmente in termini di percezione o di ordinamento cognitivo; ciò consente di riconoscere come la definizione di categorie sociali sia sempre un processo duplice: differenziare gli altri infatti significa contemporaneamente definire se stessi. Le categorie etniche hanno quindi un duplice aspetto: esse sono nello stesso tempo 'oggettive' - ossia esterne all'attore o indipendenti da lui - e 'soggettive' - ossia interne, espressione di un'autopercezione. La distinzione tra gruppo etnico e categoria etnica quindi non riguarda tanto le caratteristiche o gli attributi 'oggettivi' dell'entità in questione, quanto piuttosto la prospettiva - 'interna' o 'esterna' - in cui si considera la situazione. Ciò è attestato chiaramente dal fatto che in ogni contesto multietnico di solito le categorie accettate includono gruppi di varia nazionalità, ciascuno dei quali dalla propria prospettiva considera se stesso come un gruppo distinto e separato. In Canada ad esempio, in una cittadina dell'Ontario la categoria degli Ucraini comprende Polacchi, Rumeni, Russi, ecc., sebbene ognuno di questi gruppi definirebbe se stesso separatamente (v. Banton, 1983, p. 168).
Adottare la prospettiva 'esterno/interno' può essere utile per chiarire altre problematiche. È stato osservato ad esempio che l'esistenza dei gruppi informali degli 'home boys' in Africa non può essere considerata una prova diretta di 'tribalismo' (v. Harries-Jones, 1969, p. 300). È probabile infatti che i membri di tali gruppi non considerino se stessi in primo luogo come appartenenti alla stessa tribù. Dall'esterno, tuttavia, è proprio questa l'impressione che suscitano. È opportuno osservare in proposito che il termine gergale 'home boy' usato nella Copperbelt è una traduzione dell'espressione bemba bakumwesu, che significa letteralmente 'compaesani'. È evidente quindi che le categorie etniche di questo tipo possono aver significato solo se riferite a un atto di autoidentificazione.
Un'altra questione importante che l'impiego dello schema 'interno/esterno' contribuisce a chiarire riguarda il ruolo delle usanze e della cultura in rapporto ai gruppi etnici. Come abbiamo già accennato, il modello assimilazionista - al pari di altri modelli che collegano la definizione di gruppo etnico alla cultura - si scontra subito con la difficoltà comportata dal fatto che le situazioni in cui si pone la questione etnica contemporanea sono in genere caratterizzate da una notevole erosione della cultura tradizionale. In un contesto di questo tipo, di conseguenza, la collocazione in una categoria etnica consente di definire l'altro e quindi di rapportarsi a lui, ma non offre alcun indizio sulla conformità o meno del suo comportamento alle norme tradizionali o consuetudinarie del suo gruppo. Ciò non significa peraltro che la cultura non sia importante o che non abbia rilevanza nel contesto della questione etnica. D.L. Horowitz coglie bene il punto allorché osserva che la cultura è sì importante nella costituzione dei gruppi etnici, ma non tanto perché fornisce un qualche prerequisito indispensabile alla formazione di una identità, quanto piuttosto perché dà un contenuto post facto all'identità di gruppo (v. Horowitz, 1985, p. 69). Detto in altri termini, se l'appartenenza etnica vista dall'esterno costituisce un criterio di categorizzazione, dalla prospettiva 'interna' l'adesione alle usanze o ad altri simboli culturali segna la differenza tra una vuota etichetta imposta dall'esterno e una concreta identità etnica che deriva la sua forza da un'intima adesione o convinzione.
Il fatto che l'appartenenza etnica appaia in prima istanza come un criterio di classificazione non significa che le categorie definite da tale criterio siano delle semplici caselle neutre: al contrario, esse sono spesso investite di una notevole carica affettiva. Ciò trova talvolta espressione nel nome stesso - palesemente dispregiativo - che viene impiegato per designare un determinato gruppo, e più spesso nell'uso di stereotipi che nascono di solito dalla conoscenza frammentaria degli altri e dalla percezione delle caratteristiche che essi hanno sviluppato nel nuovo ambiente. La questione fondamentale in questo caso è il modo in cui il gruppo etnico diventa un'unità di autovalutazione e di confronto con altre unità analoghe. In certi casi emerge un modello di classificazione etnica di tipo gerarchico, ma anche qualora ciò non si verifichi i rapporti interetnici tendono a essere caratterizzati da una forte competitività. Riservandoci di tornare in seguito su questo punto, ci limiteremo a osservare che per spiegare la componente emotiva tanto spesso presente nei rapporti interetnici occorre far riferimento proprio allo stretto legame che sussiste tra definizione di sé e gruppo etnico.
Nel contesto coloniale urbano quindi l'appartenenza etnica aveva una duplice dimensione, cognitiva e affettiva; un terzo aspetto era quello organizzativo, che consentiva all'immigrato di adattarsi all'ambiente estraneo e spesso rischioso delle città. A questo riguardo l'onnipresenza e la forza delle affiliazioni etniche indicano l'esistenza di determinati bisogni dei quali si fanno carico i gruppi. Il legame etnico assume spesso una notevole importanza per lo straniero appena arrivato nella città; è tra i suoi 'compaesani' che egli troverà cibo, alloggio e sostegno morale finché non avrà trovato un lavoro, probabilmente ancora una volta grazie al loro aiuto.Soprattutto, al di fuori del contesto lavorativo dove spesso si ritrovano mescolati gli appartenenti di vari gruppi etnici, è principalmente con i membri della propria tribù che il nuovo arrivato interagisce: in loro compagnia può rilassarsi nella familiarità di idee e atteggiamenti condivisi. Questa interazione può essere in larga misura casuale e del tutto informale, ma a volte può assumere un carattere più formale attraverso le associazioni etniche. Tali gruppi non solo forniscono assistenza ai membri della tribù in varie circostanze, ma forniscono anche i leaders, i quali provengono di solito dalla élite urbana emergente e possono contare su un seguito che consente loro di accedere alla più vasta arena politica. Spesso inoltre sono stati tali gruppi a fornire la base dei movimenti nazionalisti che hanno portato i loro compatrioti alla indipendenza politica.
Se è legittimo affermare che le città sono state la culla della questione etnica nella situazione coloniale, ciò non significa peraltro che tutti gli aspetti del fenomeno possano essere spiegati in modo soddisfacente facendo riferimento unicamente al contesto urbano. Dopotutto le nuove città africane erano esse stesse un prodotto della colonizzazione, e anche le comunità urbane indigene erano state trasformate dal sistema coloniale. Per comprendere a fondo il problema occorre quindi considerare la questione etnica in un contesto più ampio. Ancora una volta può essere utile far riferimento al caso dello Zambia. Oltre ad attirare l'attenzione sull'emergere di un sistema di categorie etniche nelle città della Copperbelt rhodesiana, lo studio di Mitchell aveva dimostrato in che modo si fosse sviluppato un ordinamento gerarchico delle tribù basato sul prestigio. Uno dei criteri più importanti di questo ordinamento gerarchico era la reputazione di coraggio militare di cui godevano alcuni gruppi e che si basava sulle imprese condotte nel periodo precoloniale. Ben presto però divenne evidente anche la stretta associazione che sussisteva tra l'occupazione nella città, l'affiliazione etnica e persino l'appartenenza a una Chiesa. Le ragioni di questi nuovi sviluppi appaiono più chiare se si tiene conto delle trasformazioni comportate dall'imposizione del dominio coloniale, in particolare se si considera il processo storico attraverso il quale la presenza straniera si era imposta in tutto il paese. In sintesi, nel periodo che precedette l'inizio dell'egemonia coloniale si affermarono alcuni gruppi militarmente forti che imposero il loro dominio sui vicini più deboli; all'epoca della pax britannica queste popolazioni dotate di un'organizzazione politica più centralizzata svilupparono stretti legami con l'amministrazione coloniale ricavandone determinati benefici; le aree abitate da queste popolazioni inoltre costituirono un polo di attrazione per le più importanti società missionarie, che furono presto in grado di offrirvi migliori opportunità di scolarizzazione rispetto ad altre zone del paese. Col tempo, allorché venne aperta la Copperbelt e cominciò l'afflusso di manodopera africana, le paghe più alte e le mansioni più prestigiose divennero ovviamente appannaggio dei più istruiti (v. Epstein, 1978, pp. 132-136, e 1986, pp. 550-552).
Tale diseguaglianza di sviluppo, seppure in forme diverse, si ritrovava in tutto il mondo coloniale, e dappertutto vi era la chiara consapevolezza - soprattutto tra le élites emergenti - che questa situazione esacerbava le divisioni etniche e costituiva una minaccia per l'unità nazionale. Tuttavia, allorché i paesi colonizzati presero l'uno dopo l'altro la strada dell'indipendenza, prevalse un atteggiamento di fiducia nella possibilità di superare tali difficoltà, fiducia chiaramente riflessa in questa affermazione di uno dei più influenti portavoce del mondo africano, Amilcar Cabral: "Non appena abbiamo organizzato in modo adeguato la lotta di liberazione, i contrasti tra le tribù si sono dimostrati un problema secondario e di lieve entità" (v. Nnoli, 1978, p. 12). Ma in breve tempo l'ottimismo che aveva portato a considerare i vincoli etnici come mere vestigia del passato fu abbandonato e si cominciò a dubitare che le divisioni etniche fossero solo un anacronismo destinato presto a scomparire. Gli intellettuali africani divennero estremamente sensibili alla questione etnica. Secondo alcuni la discussione del problema contribuiva essa stessa ad alimentare le tensioni etniche, e andava pertanto scoraggiata; i più radicali disapprovavano l'attenzione per la questione etnica in quanto avrebbe impedito un'analisi di tipo marxista o neomarxista dei problemi della società africana (v. Magubane, 1969, p. 538). Altri ancora però, pur accettando quest'ultima posizione, avvertivano che il problema era talmente spinoso che non era possibile ignorarlo (v. Nnoli, 1978). Gli studiosi occidentali potevano permettersi di essere meno cauti, ma mentre negli anni cinquanta la ricerca in questo campo era stata condotta soprattutto dagli antropologi, nel decennio successivo furono gli studiosi di scienza politica a interessarsi del problema, trattandone i differenti aspetti e affrontandolo da prospettive alquanto diverse.
Il tema centrale divenne allora la politicizzazione dei legami etnici. Per i capi delle nuove nazioni uno dei compiti più impegnativi era quello di saldare le loro popolazioni spesso assai eterogenee in una collettività unificata di cittadini la cui fedeltà allo Stato postcoloniale e la cui adesione a una cultura politica dominante avrebbero sostituito vincoli di fedeltà e affiliazioni più particolaristici; in altre parole, i nuovi Stati si trovavano di fronte al problema di diventare 'nazioni'. Il raggiungimento di tale obiettivo si rivelò ben presto assai più difficile del previsto. Il fatto che i confini coloniali spesso non tenessero in alcun conto quelli precedenti di tipo etnico era fonte di instabilità, anche se va detto che nella maggior parte dei casi i politici africani non solo avevano accettato la legittimità di tali confini, ma avevano anche lottato per preservarli di fronte alle richieste di modifica avanzate dalle comunità etniche insoddisfatte perché inglobate in uno Stato o divise tra due Stati (v. Smith, 1981, p. 136). Più in generale, comunque, non è difficile vedere in che modo i rapporti conflittuali tra i gruppi etnici instauratisi nel contesto coloniale si siano perpetuati nel periodo postcoloniale. L'indipendenza di fatto acuì la conflittualità e le diede un nuovo centro focale. La costituzione in Stato nazionale infatti prometteva nuovi 'premi', non solo in termini di cariche all'interno del governo stesso o di posizioni di grado più elevato nella burocrazia, ma anche creando nuove opportunità di lavoro e di carriera sia nell'amministrazione che nell'industria e nel commercio. Il rovescio della medaglia, naturalmente, illustrato dall'esempio menzionato dello Zambia, era che non tutti i gruppi partivano da condizioni iniziali di parità. La popolazione di una determinata parte del paese avrebbe affrontato la nuova situazione in una posizione di solido vantaggio, che avrebbe cercato di sfruttare ulteriormente, mentre altri si sarebbero trovati in grave svantaggio. In queste circostanze il conflitto etnico, le minacce di secessione e separatismo, e persino di guerra civile, divennero sempre più i problemi dominanti nei nuovi Stati - una situazione che Horowitz (v., 1985, p. 12) sintetizza in modo assai pregnante affermando che "nelle società divise le affiliazioni etniche sono molto potenti, diffuse, fortemente sentite e pervasive". Sarebbe tuttavia un errore considerare la persistenza dei legami etnici come la semplice perpetuazione di un fenomeno che aveva le sue radici nel passato coloniale, come un prodotto, per così dire, inerziale. Gli sviluppi del periodo successivo all'indipendenza spesso hanno contribuito a rafforzare i legami etnici, ma hanno anche alterato il contesto in cui essi operano e di conseguenza il loro significato e la loro natura. Per illustrare questo punto può essere utile ricordare alcuni aspetti dell'esperienza nigeriana. Con il conseguimento dell'indipendenza la Nigeria ereditò una formazione politica che comprendeva tre grandi regioni, tutte assai diverse per quel che riguarda il livello e il tipo di sviluppo economico, e un modello di politica in cui i maggiori partiti si erano associati con i principali gruppi etnici di quelle regioni. Vi erano così tutte le condizioni perché si avesse una fase in cui la competizione per le risorse controllate dallo Stato avrebbe reso più aspro il conflitto politico tra i gruppi etnici. Un fattore che contribuì a complicare ulteriormente il processo politico del periodo successivo all'indipendenza fu l'introduzione del suffragio; poiché le popolazioni delle varie regioni erano di diverse dimensioni, si creò uno squilibrio che tendeva a conferire a una delle unità geografiche una sorta di potere di veto sulle questioni di interesse nazionale. Per alcuni osservatori alla radice del conflitto interetnico locale vi era la minaccia di un dominio permanente degli Haussa-Fulba sul resto della Nigeria. Senza dubbio questa situazione produsse effetti piuttosto curiosi, come ad esempio diversi tentativi tra gli anni sessanta e gli anni settanta di manipolare i dati del censimento a vantaggio di un determinato gruppo (v. Olugbemi, 1983, p. 271).
Per rimediare alle spaccature, alle divisioni e agli altri problemi che affliggevano i nuovi Stati si fece spesso ricorso al colpo di Stato militare e la Nigeria non fa eccezione. Il colpo di Stato del 1983, che mise fine alla II Repubblica, è particolarmente interessante a questo riguardo. La spiegazione ufficiale del golpe non menzionava la recrudescenza del conflitto etnico, ma di fatto in ogni spiegazione la lotta dei gruppi etnici per il potere costituiva un fattore fondamentale. L'affiliazione etnica nella II Repubblica doveva essere clandestina, perché la Costituzione vietava espressamente ogni richiamo ai legami di fedeltà etnici. Nonostante ciò le azioni dei Nigeriani continuarono a essere codificate in termini etnici e avevano significato solo se decodificate in tali termini (v. Ayoade, 1986, p. 105).
Tutto ciò indica senza dubbio la forza persistente dei legami etnici, e tuttavia si può dare un'altra lettura, più sottile, dei fatti, che mette in evidenza come il senso di appartenenza etnica si adatti al mutare delle circostanze sociali cambiando così i suoi caratteri. In epoca recente ciò è emerso in modo assai chiaro con la crisi economica vissuta da tante nazioni africane, crisi che destituisce di ogni validità la tesi secondo la quale la costituzione in Stato avrebbe avuto un ruolo fondamentale nel promuovere il senso di appartenenza etnica: l'importanza dei legami etnici sembra ora risiedere in sfere di rapporti più informali (v. Chazan, 1986). Affermare che la questione etnica ha dimostrato una notevole capacità di resistenza in molte aree sino a qualche tempo fa soggette al dominio coloniale non significa affermare che si tratta di un fenomeno statico o privo di flessibilità.
Negli anni cinquanta e sessanta gli sviluppi nel Terzo Mondo avevano costituito il principale stimolo per la ricerca sulla questione etnica. Nel decennio successivo l'attenzione di molti sociologi si spostò sulle vicende del più vicino mondo occidentale, e in particolare su due fenomeni. In primo luogo, alcuni paesi dell'Europa occidentale, un tempo relativamente omogenei dal punto di vista etnico, diventavano sempre più eterogenei a causa di massicce immigrazioni di lavoratori stranieri. Nella Germania occidentale alla metà degli anni settanta vi erano circa due milioni e mezzo di Gastarbeiter; anche in Gran Bretagna, in Francia e in Olanda si verificarono profondi cambiamenti nella struttura della popolazione allorché gli abitanti delle ex colonie si riversarono nella madrepatria. Gli antropologi britannici furono i primi a occuparsi del problema, in particolare del modo in cui il fattore etnico influenzava il processo di adattamento degli immigrati, analizzando la questione etnica in rapporto alla situazione lavorativa e abitativa, nonché l'esperienza di determinati gruppi o comunità etniche nel nuovo ambiente (v. Watson, 1975; v. Wallman, 1979). Questi studiosi seguivano il filone di ricerca iniziato molti anni prima dai colleghi americani, con la differenza che essi potevano ora basarsi sull'esperienza di questi ultimi sia nel campo dell'elaborazione teorica che nel campo della politica sociale (v. Banton, 1983).
Ma il fenomeno più stimolante sul piano teorico, e per certi versi il più preoccupante agli occhi di molti, era la rinascita di movimenti etnici in paesi dove le divisioni etniche erano considerate appartenenti al passato e del tutto irrilevanti nella situazione contemporanea. Tra gli Scozzesi, i Gallesi, i Bretoni e i Baschi, per non citare che pochi esempi, si manifestava una crescente adesione ai movimenti che reclamavano l'autonomia per comunità da tempo incorporate nei confini di Stati esistenti (v. Esman, 1977; v. Smith, 1981). In Gran Bretagna, ad esempio, il decentramento divenne un importante tema di dibattito politico, portando alcune regioni a considerare concretamente l'eventualità di un distacco dal Regno Unito. Quali sono le cause di questi fenomeni, e in particolare perché i legami etnici da tempo sopiti hanno acquistato tanta rilevanza sociale da esigere un esplicito riconoscimento politico? Nella misura in cui erano alimentati da forti sentimenti etnici, questi episodi erano una chiara espressione di una rinascita del senso di appartenenza etnica analoga per certi versi a quella sperimentata negli Stati Uniti e nel Terzo Mondo. Tuttavia vi erano anche delle differenze significative. La situazione statunitense era caratterizzata da una tendenza al compromesso; con la notevole eccezione dei Neri americani, tra i quali di tanto in tanto è emerso un orientamento separatista, i gruppi etnici insediati da più antica data negli Stati Uniti non avevano mai avanzato rivendicazioni territoriali in quanto miravano piuttosto a conservare la propria identità come gruppi autonomi (v. Glazer, 1983, p. 39). Poiché i gruppi etnici europei hanno anche una forte identità regionale, essi hanno seguito una strada diversa da quella tradizionale americana; come ha osservato Smith, la loro aspirazione all'autodeterminazione trova la sua naturale espressione in rivendicazioni territoriali. Sotto questo aspetto essi sono assai più simili ai gruppi etnici dei nuovi Stati africani e asiatici, differenziandosi da questi ultimi in quanto preferiscono un modello di autonomia locale al separatismo o alla secessione (v. Smith, 1981, pp. 164-165). Considerati in questa prospettiva, i movimenti europei appaiono espressione di un neonazionalismo o di un etnonazionalismo. Dato che questa ripresa delle rivendicazioni etniche contraddice tutte le opinioni convenzionali sul problema, non sorprende il fatto che essa abbia suscitato accesi dibattiti tra i sociologi di orientamento storico e abbia indotto a riconsiderare i concetti di nazione e di nazionalismo (v. Armstrong, 1982; v. Gellner, 1983; v. Grillo, 1980; v. Smith, 1987).
L'esistenza di gruppi etnici, come abbiamo accennato, è documentata in tutto il corso della storia scritta, ma solo in tempi recenti essi sono diventati oggetto di un interesse particolare da parte dei sociologi, per l'importanza, la complessità e la diffusione su scala mondiale della questione etnica. Data la sua pluralità di espressioni, la questione etnica è stata affrontata da varie prospettive da antropologi, sociologi, studiosi di scienza politica, linguisti e storici, i quali hanno applicato i diversi metodi delle loro discipline. Gli antropologi ad esempio, in linea con la loro tradizione di ricerca basata sull'osservazione partecipante, si sono orientati verso un approccio microanalitico; tale orientamento era inoltre coerente con un crescente interesse per le nozioni e le percezioni soggettive relative all'appartenenza etnica, in base alle idee degli attori stessi e alle loro spiegazioni del comportamento sociale (v. Okamura, 1981, p. 452; v. Mitchell, 1974). Molti sociologi e studiosi di scienza politica, per contro, hanno privilegiato l'approccio macroanalitico, incentrando l'analisi sulla società globale e sui suoi contesti più ampi. Nonostante la diversità di interessi, tuttavia, e in una prospettiva interdisciplinare, la maggior parte di questi studi adottano l'uno o l'altro di due approcci teorici fondamentali, comunemente noti oggi rispettivamente come 'primordialista' e 'circostanzialista' o 'strumentalista' (v. Bentley, 1987).
L'approccio strumentalista si incentra sul modo in cui le circostanze sociali influenzano l'intensità del sentimento di appartenenza etnica, la mobilitazione e il conflitto, ponendo l'accento sui gruppi etnici come 'gruppi di interesse' e sulla competizione come caratteristica fondamentale delle loro interrelazioni. In termini semplificati la tesi di fondo è che quando i membri di due o più gruppi si incontrano ciascun individuo si identifica con il proprio gruppo in quanto l'appartenenza a esso comporterà per lui importanti ricompense materiali (v. Cohen, 1969); in questo processo i confini tra i gruppi si rafforzano (v. Banton, 1983). Le teorie della modernizzazione e quelle materialistiche partono da premesse simili ma collocano gli interessi in questione in un contesto politico-economico più ampio, mettendo in risalto nello stesso tempo i processi di stratificazione sociale e il ruolo delle élites; le teorie materialistiche inoltre considerano gli interessi etnici come un mascheramento di interessi di classe. Una variante di queste tesi, che rientra anch'essa nell'ambito dell'approccio modernista-strumentalista, è la teoria del colonialismo interno. L'idea che il colonialismo non fosse circoscritto al dominio dei paesi d'oltremare non era affatto nuova, ma risaliva agli anni trenta, allorché il concetto di colonialismo interno fu utilizzato per definire i rapporti tra il Nord e il Sud negli Stati Uniti (v. Stone, 1979; v. Gramsci, 1920). Tale nozione venne ripresa e riapplicata nello stesso contesto alla metà degli anni sessanta, ma attualmente è associata principalmente alla notissima analisi di Hechter (v., 1974) sulla frangia celtica del Regno Unito. Secondo Hechter, in sostanza, l'etnonazionalismo ha conosciuto una rinascita nell'area periferica celtica principalmente come reazione al fallimento di uno sviluppo regionale. La sua tesi venne presto estesa ad altre società che sperimentavano analoghi conflitti etnici. Molto spesso infatti le comunità etniche risiedono in regioni svantaggiate rispetto alle aree centrali o ad altre parti del paese. Di conseguenza, in modo assai simile alle classi sfruttate della teoria marxiana, le comunità etniche di queste regioni cercano di migliorare la propria situazione attraverso l'organizzazione di movimenti politici.
Non v'è dubbio che l'interesse economico ha un'importanza fondamentale nel conflitto etnico, che sembra presentare anche una componente di classe. Tuttavia, ogni volta che il modello basato sulla nozione di 'interesse' viene verificato in una varietà di situazioni concrete, vengono alla luce i suoi difetti di ipersemplificazione. Se è vero che la competizione può essere una caratteristica endemica dei rapporti interetnici, tuttavia essa può assumere varie forme, e la lotta per il controllo delle risorse può non essere la fonte principale del conflitto etnico (v. Horowitz, 1985, p. 146). Inoltre non sempre l'adesione al gruppo etnico comporta vantaggi materiali; spesso, al contrario, richiede un certo sacrificio. È importante poi osservare che i movimenti etnici non sono iniziati soltanto nelle comunità delle regioni svantaggiate, come dimostra il caso delle Province Basche o della Catalogna, che pur essendo assai più ricche delle aree centrali della Spagna hanno conosciuto forti movimenti etnici. Tutti questi rilievi comunque non sono che diverse espressioni della obiezione di fondo che è stata mossa all'approccio basato sulla nozione di 'gruppo di interesse', e cioè che esso dà un peso eccessivo ai fattori economici trascurando di conseguenza le dimensioni simboliche, e principalmente quella affettiva, che caratterizzano l'identità etnica (v. Smith, 1981, p. 4; v. Horowitz, 1985, p. 140).
Quest'ultimo aspetto è invece al centro dell'interesse dei 'primordialisti', che affrontano il problema da un punto di vista assai diverso sostenendo che le trasformazioni del contesto sociale disgregano i modelli convenzionali di pensiero e di azione in tutte le aree del mondo. Disorientati dal cambiamento, gli individui cercano rifugio in quegli aspetti della loro esistenza sociale che definiscono per essi nel modo più fondamentale la loro identità. In questa prospettiva, un profondo bisogno di radici è all'origine dei sentimenti comunitari che generano i gruppi etnici (v. Bentley, 1987, p. 26; v. De Vos, 1975). In questo tipo di analisi il concetto di identità assume un ruolo più centrale, e rappresenta un correttivo assai salutare degli approcci puramente economicistici. L'esigenza di istituire un collegamento tra i due approcci, tuttavia, si fa sempre più sentita (v. Bentley, 1987), come attestano il lavoro di Smith, un sociologo che ha cercato di temperare l'impronta 'modernista' mettendo in rilievo la dimensione storica del problema, e quello di Horowitz, studioso di scienza politica, il quale propugna un approccio sociopsicologico che tenga nel debito conto la componente affettiva del legame etnico (v. Smith, 1981 e 1987; v. Horowitz, 1985; v. Epstein, 1978).
Dopo un lungo periodo caratterizzato da uno scarso interesse teorico, la problematica dei gruppi etnici si è imposta negli ultimi decenni come una delle più stimolanti per la scienza sociale contemporanea. Secondo le previsioni della prima teoria sociologica e secondo il dogma liberale, i gruppi etnici avrebbero presto cessato di avere un ruolo significativo nella vita sociale. Ciò però non si è verificato: lungi dallo scomparire, la questione etnica ha assunto anzi una grande rilevanza in quasi tutte le aree geografiche. L'analisi del problema è complicata dal fatto che spesso esso si presenta intrecciato ad altre questioni relative alla stratificazione sociale e alla divisione di classe, alla lingua e alla religione. Un altro aspetto sconcertante è che nonostante la sua apparente pervasività, la dimensione etnica non interviene in tutti i contesti sociali, mentre d'altro canto emerge spesso in primo piano in circostanze in cui la si sarebbe ritenuta del tutto irrilevante; in altre parole, si tratta di un fenomeno fortemente situazionale. A prescindere da queste difficoltà intrinseche, l'analisi non è certo resa più facile dal fatto che, proprio per il suo carattere sfaccettato e per la sua complessità, la questione etnica ha attirato l'attenzione degli studiosi di vari rami delle scienze sociali, che l'hanno affrontata applicando i propri metodi e privilegiando determinati aspetti spesso senza tener conto del lavoro degli altri. Gli approcci microanalitici e quelli macroanalitici di conseguenza vengono spesso presentati come opposti anziché come complementari; ognuno di essi focalizza l'attenzione su differenti livelli di organizzazione, i quali però possono essere adeguatamente compresi solo se vengono considerati nella loro interazione. Allo stesso modo gli aspetti cognitivi, affettivi e organizzativi del fenomeno sono considerati separatamente anziché come elementi di una totalità.
Il problema della persistenza dei legami etnici dovrebbe servire inoltre a rammentarci la dimensione storica del problema, come è stato già rilevato da Smith, il quale tuttavia era interessato alla storia 'di lunga durata', e di conseguenza metteva l'accento sulla continuità. Merita attenzione però anche il problema della dimensione storica 'di breve durata'. Esaminata nell'arco di varie generazioni, ad esempio, la situazione etnica americana non sembra andare in una direzione precisa o avere un particolare orientamento, ma è caratterizzata piuttosto da alti e bassi e da improvvisi cambiamenti. Senza dubbio il carattere dinamico dell'identità etnica, al pari dei fattori che contribuiscono alla sua persistenza, emergerebbe più chiaramente se si riconoscesse che la formazione dell'identità deve essere considerata nel contesto del ciclo evolutivo dei gruppi locali, dedicando così maggiore attenzione alla cornice temporale di tre o quattro generazioni. (V. anche Discriminazione razziale; Razzismo).
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