GRUPPI
di Ugo Fabietti
Nella letteratura antropologica il termine 'gruppo' compare all'interno di contesti assai vari, tanto a livello etnografico che a livello teorico. Il termine non possiede infatti precise caratteristiche connotative, e di conseguenza il suo uso, in antropologia, è quasi sempre accompagnato da specificazioni quali 'gruppo domestico', 'gruppo di discendenza', 'gruppo etnico', ecc. Per quel che riguarda il significato più generale e l'uso corrente del termine, l'antropologia fa tuttavia proprie le considerazioni della sociologia, qualificando come gruppo un insieme di individui interrelati sulla base di un progetto comune - o di una comune identità autopercepita - che è riconosciuto in quanto tale o dagli individui in questione o da un osservatore esterno.L'attenzione portata dall'antropologia alla tematica dei gruppi si inscrive all'interno di problematiche diverse per orientamento teorico e per interessi di ricerca. L'elemento che tuttavia accomuna queste problematiche è l'insistenza sul tema della coesione sociale, che percorre, in maniera più o meno dichiarata, l'opera degli studiosi sin dalla fine dell'Ottocento. Talvolta si trascura il fatto che in alcuni di questi autori, solitamente considerati esponenti dell'evoluzionismo antropologico, emergono problematiche come quella della coesione, della solidarietà e dell'integrazione sociale che sono invece attribuite all'indirizzo funzionalista. Infatti, lo studio di Henry S. Maine (v., 1871) sulla comunità di villaggio dell'India rurale, i lavori di Lewis H. Morgan (v., 1871) sui sistemi di parentela, quello di William G. Sumner (v., 1906) sui folkways ('costumi di gruppo'), e naturalmente quelli di Durkheim e dei suoi allievi antropologi sulla dimensione 'collettiva' dei fenomeni sociali, mettono in risalto l'integrazione sociale come elemento primario di costituzione della vita sociale e culturale e quindi come oggetto di riflessione privilegiato per l'antropologia.
L'esistenza di un gruppo considerato come insieme di individui (minimo due) associati in un progetto comune non implica necessariamente la presenza di una organizzazione formale, anche se tale caratteristica può costituire un criterio di classificazione dei gruppi. Altri criteri possono essere la continuità maggiore o minore del gruppo, le modalità di reclutamento e la presenza o l'assenza di interessi comuni, da parte dei membri del gruppo, nei confronti di qualche bene come la terra, il bestiame o determinate conoscenze esoteriche o rituali.
I gruppi sono finalizzati all'esecuzione di un progetto per il raggiungimento di uno scopo. Ciò equivale a dire che i gruppi esistono in quanto svolgono determinate 'funzioni'. Queste sono di tre generi e sono riscontrabili nella vita di tutti i gruppi. Si tratta della funzione esecutiva, della funzione di controllo e della funzione espressiva (v. Bock, 1974²). L'aspetto esecutivo risponde alla necessità del gruppo di adattarsi con successo all'ambiente naturale e sociale nel quale è inserito. Tale adattamento è ottenuto mediante il raggiungimento dello scopo in funzione del quale il gruppo esiste: la gestione di determinate risorse produttive, la conduzione di attività belliche, il compimento di riti particolari, ecc. La funzione di controllo consiste in primo luogo nell'attivazione dei meccanismi mediante i quali il gruppo mantiene le proprie caratteristiche, ossia la propria struttura e le proprie finalità. Questi obiettivi vengono raggiunti mediante l'imposizione esplicita, o anche implicita, di norme di comportamento, da un lato, e mediante l'attivazione di meccanismi di reclutamento, come patti, contratti, o pratiche rituali, dall'altro. La funzione espressiva, infine, consiste nel potere che il gruppo ha di gratificare, sul piano psicologico ed emotivo, coloro che ne fanno parte.In una prospettiva evolutiva queste tre funzioni potrebbero essere considerate ciascuna come caratteristica di un diverso tipo di gruppo, nel senso che nelle società stratificate e 'complesse' la specializzazione istituzionale è più marcata che nelle società 'semplici'. Si potrebbe ad esempio sostenere che nelle nostre società, come in molte altre in cui prevale una marcata divisione del lavoro e un apparato politico centralizzato, i gruppi occupazionali sono quelli in cui domina l'aspetto esecutivo, i gruppi repressivi (polizia, magistratura) sono quelli preposti al controllo, e i gruppi costituiti dagli 'specialisti del simbolico' come gli artisti, gli uomini di religione e gli intellettuali in genere, quelli al cui interno si realizza meglio l'aspetto espressivo. Questa prospettiva deve però tenere conto del fatto che ciascuno di questi gruppi, qualunque sia la sua specializzazione in uno dei tre aspetti funzionali, ha insiti in sé, in quanto gruppo, anche gli altri due; e inoltre che, anche nelle società dove la specializzazione istituzionale è particolarmente forte, ad esempio nelle società industriali e postindustriali, vi sono pur sempre gruppi come la famiglia i quali assolvono la propria funzione mantenendo tutti e tre gli aspetti tipici del gruppo.
Nella letteratura antropologica, come si è detto, il termine 'gruppo' è per lo più accompagnato da specificazioni, le quali contribuiscono a differenziarne sensibilmente il significato e pertanto il contesto di utilizzazione. Tali contesti rinviano a livelli diversi della organizzazione sociale o identitaria, quali ad esempio la residenza, la discendenza, l'età, il sesso, l'etnia, per cui si parlerà di gruppi di residenza, di gruppi di discendenza, di gruppi d'età, di gruppi di sesso, di gruppi etnici, ecc.
L'attenzione per le tematiche dell'integrazione e della coesione sociale è all'origine dell'interesse che l'antropologia, sin dall'epoca del suo consolidamento come disciplina accademica, ha mostrato per i gruppi definiti come 'primari'. Secondo Raymond Firth (v., 1961), i gruppi primari sarebbero delle unità di piccole dimensioni i cui componenti entrano in rapporto diretto quotidianamente. Tra gli altri, appartengono a questa categoria la famiglia, il vicinato e i gruppi di lavoro. Il carattere primario di queste unità sociali deriva dal fatto che esse vengono considerate i 'mattoni' con cui si costruisce l''edificio' della comunità; ma anche dal fatto che alcuni di questi gruppi, come ad esempio la famiglia, sono quelli al cui interno ha luogo il processo di inculturazione dell'individuo. I gruppi primari sono particolarmente orientati verso il soddisfacimento dei bisogni basilari della società, quali la riproduzione, la trasmissione delle norme fondamentali di comportamento, la sussistenza.
A un livello di complessità maggiore rispetto ai gruppi primari troviamo ciò che gli antropologi definiscono la 'piccola comunità', di solito intesa come unità sociale direttamente fondata, come dice esplicitamente Firth, sui gruppi primari. Nelle parole di Robert Redfield, autore di un celebre saggio su questo argomento, la piccola comunità è "una delle forme più diffuse ed evidenti in cui l'umanità si presenta con immediatezza alla nostra attenzione [...] la banda nomade di cacciatori nella foresta tropicale boliviana, il villaggio medievale inglese o svedese [...] il villaggio degli allevatori di bestiame sudanesi [...]le tribù di pastori persiani [...] la borgata o il villaggio della Provenza o del Missouri di oggi" (v. Redfield, 1956, p.5). La piccola comunità resta comunque, nel linguaggio degli antropologi, un'unità sociale o un gruppo non nettamente definito, del quale si può soprattutto dire che coincide con l'ambiente socioculturale entro il quale per molto tempo gli antropologi hanno prevalentemente condotto le proprie ricerche. Parlando di piccola comunità, gli antropologi hanno distinto tra le piccole comunità del mondo occidentale e quelle da loro abitualmente studiate al di fuori della cultura euroamericana. In entrambi i casi la piccola comunità è apparsa caratterizzata da una forte sovrapposizione, quando non addirittura da una vera e propria coincidenza, dei gruppi primari. Nell'Europa rurale i membri della stessa famiglia possono ad esempio ritrovarsi assieme in gruppi di cooperazione, ricreativi o scolari. Analogamente, nelle comunità dell'Oceania, dell'Africa o del Sudamerica i molteplici piani della vita sociale sono spesso strettamente intrecciati, sicché, come venne fatto notare tanto da Bronislaw Malinowski (v., 1922) quanto da Marcel Mauss (v., 1923-1924), non è sempre facile distinguere nettamente gli aspetti rituali da quelli economici inseriti in una serie di atti che fanno parte di una transazione o di una cerimonia. Questa analogia tra piccola comunità occidentale e piccola comunità 'primitiva' non deve farci perdere di vista il fatto che le differenze tra le due, tanto sul piano delle relazioni interpersonali quanto su quello della dinamica della stratificazione, sono spesso notevoli. Come ha sottolineato Firth, infatti, nelle società 'esotiche' studiate dagli antropologi, la "grande varietà di ordinamenti strutturali nei gruppi parentali, nei raggruppamenti per gradi d'età, sul piano della distinzione tra i sessi [...] e la formalizzazione di parecchie relazioni che in Occidente sono lasciate allo stato informale creano lo spazio per una differenza molto sottile nella posizione sociale dei membri della comunità" (v. Firth, 1961, p. 48).
Nella maggior parte dei casi i gruppi si caratterizzano per il fatto di essere localizzati in senso spaziale. Un aspetto della rilevanza sociale dei gruppi è infatti la residenza. La residenza, che per alcuni autori costituisce un aspetto dell'organizzazione sociale capace di influenzare l'evoluzione dell'organizzazione medesima, e quindi la struttura stessa della parentela (v. Murdock, 1949), può essere distinta in vari tipi e sottotipi, tendenzialmente prevalenti in alcune società piuttosto che in altre. I Tallensi del Ghana, ad esempio, presentano una forma di residenza di tipo marcatamente patrilocale. Presso di loro, infatti, la coppia che si forma con il nuovo matrimonio va a vivere con la famiglia dello sposo. Al contrario, presso gli indiani Hopi dell'Arizona, la coppia va ad abitare con la famiglia della sposa. Oppure, come accade tra i Trobriandesi (Melanesia), la coppia che si costituisce va a vivere con lo zio materno dello sposo (residenza avuncolocale). Questi tre modelli residenziali appartengono alla categoria più ampia della residenza unilocale. Alla residenza unilocale si oppone quella duolocale, per la verità riscontrabile piuttosto raramente a livello etnografico. Secondo questo modello i coniugi continuano a vivere ognuno presso il proprio gruppo familiare, come accade ad esempio presso gli Ashanti del Ghana. Il modello residenziale ambilocale prevede invece che la nuova coppia si stabilisca o con i genitori dello sposo o con quelli della sposa, come avviene per esempio tra i Lapponi o tra i Baluchi meridionali; mentre il modello neolocale, infine, prevale là dove i coniugi scelgono, come accade tra di noi, una residenza diversa da quella dei genitori di entrambi.
Nella realtà questi modelli, corrispondenti a un numero limitato di possibilità, non vengono mai rispettati in maniera rigida, ma riflettono le tendenze statistiche prevalenti all'interno delle diverse società.
I modelli residenziali influenzano direttamente la formazione del gruppo domestico, il quale costituisce uno dei gruppi primari di maggiore rilevanza sociale. Non esiste una definizione universalmente accettata di gruppo domestico. Con tale espressione si intende tuttavia indicare un insieme di individui, alcuni dei quali soltanto sono tra loro 'parenti', i quali risiedono nello stesso luogo e contribuiscono alla gestione delle risorse necessarie alla sopravvivenza fisica e alla soddisfazione morale dei suoi componenti. Diversamente che nelle nostre società industriali e postindustriali, dove il gruppo domestico risulta composto molto spesso dai membri della famiglia nucleare, talvolta da qualche 'parente' di uno dei due coniugi e più raramente da qualche loro amico - e ormai sempre più spesso da singoli individui -, nelle società 'tradizionali', e comunque in quelle abitualmente studiate dagli antropologi, tale gruppo appare come maggiormente esteso e, sovente, composto in modo radicalmente differente. In alcune aree dell'Europa contadina prevaleva, sino a pochi decenni or sono, un tipo di famiglia estesa, composta da padre, madre e dalle famiglie nucleari dei figli maschi, la quale veniva a coincidere quasi sempre con il gruppo domestico. Tendenzialmente i gruppi domestici che hanno come base la famiglia estesa si trovano ovunque sia presente una forma di cointeressenza duratura alle risorse gestite dal gruppo, e dove tali risorse necessitino, per poter essere sfruttate, della compresenza continuativa di un certo numero di individui. Gruppi domestici di questo tipo sono rintracciabili sia presso le società di agricoltori, sia presso quelle pastorali del Medio Oriente, dove l'interesse del gruppo si concentra sul possesso e lo sfruttamento di greggi. In questi contesti il gruppo domestico appare pertanto fondato sull'esistenza di una famiglia composta dai coniugi, dai loro figli (prevalentemente maschi) e dalle famiglie di questi. Ma il gruppo domestico può assumere configurazioni assai diverse, in cui la stabilità delle coppie, sia che si tratti della coppia 'fondatrice' della famiglia estesa, sia che si tratti di quelle dei discendenti di essa, appare inessenziale. È etnograficamente noto il caso degli indiani Hopi, presso i quali il gruppo domestico si presenta come avente a proprio fondamento non la famiglia nucleare o estesa, ma un gruppo di sorelle e le loro rispettive figlie, sia nubili che sposate (con la loro prole). In questa società matrilineare le coppie tendono ad assumere un modello di residenza matrilocale e questo fatto comporta una notevole marginalità degli uomini nella vita domestica. Provenendo da matrilignaggi diversi essi infatti non costituiscono un gruppo corporato (esercitante cioè diritti comuni su determinate risorse, v. § 3d), e rimangono legati alla famiglia della madre o, più spesso, al gruppo delle sorelle. Casi simili si riscontrano anche in quelle società amazzoniche in cui i villaggi sono divisi in due metà matrilineari, e in cui gli uomini vivono come 'ospiti' nella metà della moglie.
Gli studi sul gruppo domestico hanno risentito a lungo della prospettiva funzionalista. Ne è un esempio la ormai classica raccolta di saggi curata da Jack Goody alla fine degli anni cinquanta, dove il gruppo domestico veniva considerato come la sede di processi ciclici consistenti eminentemente nella successione degli individui componenti, processi capaci di garantire la continuità del gruppo stesso e della struttura sociale complessiva (v. Goody, 1958). Più recentemente ha assunto una certa rilevanza teorica la discussione sul cosiddetto 'modo di produzione domestico', forma di organizzazione produttiva prevalente nelle società in cui il gruppo domestico ricopre il ruolo di principale, quando non di esclusiva, unità di produzione e consumo. Tale discussione, avviata da Marshall Sahlins agli inizi degli anni settanta (v. Sahlins, 1972), muoveva dall'idea del carattere fondamentalmente sottoproduttivo del gruppo domestico, nel senso che la produzione sarebbe qui inferiore rispetto alle possibilità esistenti, poiché la manodopera rimarrebbe sottoutilizzata, la tecnologia non pienamente sfruttata e le risorse naturali lasciate, di conseguenza, largamente intatte. Alla base del ragionamento di Sahlins relativo alla sottoproduttività del gruppo domestico vi sono gli studi condotti negli anni venti da A.V. Čajanov (v., 1925) sulla comunità contadina della Russia presovietica. Il riferimento, anche in questo caso, è a una economia non orientata verso il mercato, nella quale inoltre gli scopi produttivi sono commisurati a bisogni limitati, per cui non vi è alcuna necessità di aumentare l'intensità dell'investimento lavorativo teoricamente disponibile. Nella prospettiva di Sahlins tutte le comunità agricole preindustriali presenterebbero caratteristiche di sottoproduttività. Bisogna tuttavia osservare che le comunità la cui economia è fondata sul modo di produzione domestico, e quindi sul gruppo domestico come unità esclusiva di produzione e consumo, non sono tutte le società agricole preindustriali presso le quali il gruppo domestico svolge un ruolo primario in tal senso. Vi sono società storiche - basti pensare alle antiche civiltà della Mezzaluna fertile (v. Liverani, 1988), o a quelle del mondo andino precolombiano (v. Murra, 1975) - in cui la comunità contadina risulta certamente fondata sul gruppo domestico produttore e consumatore, ma nelle quali la comunità stessa, e quindi le cellule di produzione e consumo che la costituiscono, sono controllate, in maniera più o meno continuativa e organica, da un potere politico capace di coordinare opere collettive o di fungere da accentratore e ridistributore delle risorse. Queste sono le condizioni per una intensificazione del lavoro nella stessa comunità contadina e quindi nei gruppi domestici che la costituiscono.
Contrariamente a Sahlins, che tende a generalizzare le proprie riflessioni sino al punto da estenderle a tutte le società preindustriali, vi è chi ha tentato di definire con più precisione il ruolo del gruppo domestico, studiandone la posizione di volta in volta strutturalmente diversa all'interno del contesto storico e socioculturale in cui tale gruppo opera come unità di produzione e consumo. Tale prospettiva ha condotto Claude Meillassoux (v., 1975) a estendere l'interesse per il gruppo domestico alla sua funzione riproduttiva. Non più, tuttavia, nella prospettiva del funzionalismo secondo il quale l'aspetto riproduttivo del gruppo domestico consiste nella funzione di rimpiazzo dei suoi componenti e quindi dell'intera società (v. sopra), bensì in una prospettiva - direttamente ricollegantesi a quella marxista - per cui la comunità domestica, in quanto 'luogo di produzione di produttori', diventa automaticamente luogo di riproduzione della stessa forza lavoro e, come tale, costituisce una variabile strutturale all'interno dei diversi modi storici di produzione.
Una parte assai cospicua della letteratura antropologica dedicata al tema della parentela concerne il significato e la funzione dei 'gruppi' che si costituiscono sulla base della discendenza. Quest'ultima infatti è, accanto alla residenza di cui abbiamo già detto (v. § 3b), uno dei due criteri fondamentali per l'attribuzione dei ruoli sociali. Secondo una tipologia per certi aspetti criticabile anche se ormai consolidata, i gruppi di parentela si presentano, proprio come i gruppi di residenza, in un numero limitato di forme, ciascuna delle quali è determinata dalla regola di reclutamento e dal criterio di appartenenza dei componenti il gruppo.
I gruppi di parentela possono essere divisi in tre grandi categorie, a seconda che la regola di reclutamento sia di tipo bilaterale, unilineare oppure ambilineare. Si hanno gruppi della prima categoria quando i loro membri sono affiliati attraverso entrambi i genitori e attraverso i parenti di entrambi i sessi. In tal modo si costituiscono i parentadi, ma anche i casati, a seconda che si consideri il gruppo dal punto di vista delle relazioni di un qualsiasi individuo, come nel primo caso, o che si consideri l'insieme degli individui consanguinei di una persona particolarmente importante, come nel secondo caso. Mentre il parentado è diverso per ogni individuo, il casato di una persona è identico per tutti coloro che ne fanno parte.
Fondati sulla regola unilineare sono invece i gruppi di discendenza, ossia i lignaggi (patri- o matrilignaggi), i clan, le fratrie, le metà. Appartengono a questa categoria anche i gruppi formati sulla base del criterio della 'discendenza doppia', cioè gruppi costituiti da individui che, tracciando la propria discendenza per via tanto patri- quanto matrilineare, appartengono sia al patri- sia al matrilignaggio.
Un caso diverso è quello dei gruppi che si costituiscono sulla base della regola di reclutamento ambilineare. Si tratta, come nel caso dei ramages polinesiani, di gruppi formati da individui che scelgono di affiliarsi alla linea (gruppo) di discendenza di uno o dell'altro genitore, o addirittura di uno dei genitori del coniuge.
Questi diversi gruppi di parentela presentano caratteristiche e criteri di formazione che sono spesso, ma non sempre, correlabili con altri aspetti dell'organizzazione sociale. Importante, in questo senso, è il tentativo compiuto a partire dagli anni sessanta di mettere in relazione i meccanismi di costituzione dei gruppi di parentela con le variabili ecologiche, demografiche, politiche ed economiche oltre che, come già Murdock aveva fatto negli anni quaranta, con quelle residenziali (v. Fox, 1967). Questa prospettiva, mirante a collegare l'esistenza e la caratterizzazione dei gruppi di parentela con gli altri fattori della vita sociale e culturale, ha contribuito ad attenuare la rigidità delle distinzioni tipologiche e a mostrare come siano molteplici i criteri di formazione di tali gruppi. Il caso che meglio di ogni altro illustra questo processo di revisione delle tipologie costruite su criteri rigidi ed esclusivi è rappresentato dalla discussione che ha riguardato i gruppi di discendenza, assunti già nell'Ottocento dall'antropologia come oggetto di riflessione. Questi verranno presi in considerazione più di altri in ragione del fatto che le società studiate dall'antropologia si caratterizzavano per l'assenza di istituzioni politiche centralizzate, di modo che la discendenza sembrava costituire il principio basilare di strutturazione dei rapporti sociali, politici ed economici. Alle riflessioni iniziali di Morgan (v., 1877) e poi di William H.R. Rivers (v., 1924), si aggiunsero quelle di Alfred Reginald Radcliffe-Brown (v., 1952) che conferì al gruppo di discendenza unilineare una forte connotazione giuridica qualificandolo come gruppo corporato. Con la qualifica di 'corporato' si voleva sottolineare la natura fortemente coesa di tali unità i cui membri risultano 'uguali' non solo in quanto in possesso degli stessi diritti nei confronti delle risorse materiali (complesso tecnico-produttivo) e simboliche (saperi specialistici e rituali) del gruppo e in quanto investiti degli stessi doveri nei riguardi degli altri membri; ma anche perché considerati giuridicamente equivalenti, e pertanto corresponsabili, agli occhi di un individuo esterno al gruppo, di una qualunque infrazione o offesa apportata da un qualunque membro del gruppo. Importanti sono le riflessioni sviluppate a partire da queste premesse da quanti hanno affrontato il tema dell'organizzazione politica nelle cosiddette società acefale e segmentarie, soprattutto in quelle dei pastori nordafricani (v. Peters, 1967). Mentre Evans-Pritchard propose una lettura dei gruppi di discendenza come unità politicamente rilevanti, Peters contribuì a sviluppare l'analisi che vedeva tali gruppi come il prodotto di un'attività eminentemente ideologico-rappresentazionale. È così che il principio della discendenza unilineare, ritenuto dapprima il riflesso di una realtà concreta, poi sovente considerato come un criterio-guida nella formazione dei gruppi, è venuto a rivestire, da ultimo, il carattere di un fattore ampiamente convenzionale. Da allora in avanti si è insistito sul fatto che l'idea della discendenza da un comune antenato non solo non è un principio che riflette la trama delle relazioni biologiche, cioè gli effettivi rapporti di consanguineità, ma non è nemmeno un criterio rigidamente rispettato, essendo piuttosto l'effetto dell'utilizzazione di una relazione dell'esperienza quotidiana (il rapporto genitori-figli) per esprimere in maniera immediatamente comprensibile e significativa certe forme di cooperazione e di contiguità sociale.
Numerosi sono gli autori che, a partire dal carattere ampiamente fittizio della discendenza, hanno prestato una maggiore attenzione alle dinamiche reali che ineriscono alla formazione di tali gruppi. Infatti, sulla base delle già ricordate indagini attorno al complesso dei fattori che presiedono alla loro formazione - fattori di tipo ambientale, economico, politico, ecc. - si è potuto procedere a una considerazione più sfumata delle regole e dei criteri di reclutamento dei gruppi. Si è così messo in evidenza come spesso l'affiliazione ad essi avvenga in maniera volontaristica e non automatica; o come l'esistenza di certi gruppi sia il risultato, più che della rigida applicazione del principio della discendenza, di scelte individuali, per cui lo stesso gruppo si presenta come il prodotto, sul piano statistico, della concomitanza e della combinazione di diversi fattori, tra cui la discendenza gioca solo in parte un ruolo reale, pur mantenendo un valore preminente sul piano rappresentazionale (v. Keesing, 1967 e 1975).
Un ulteriore contesto di utilizzazione del termine 'gruppo' in antropologia è rappresentato dallo studio delle forme associative che presso alcune culture corrispondono a istituzioni di importanza uguale a quella dei gruppi che si costituiscono sulla base della discendenza e della residenza. Tra queste forme associative, quelle prese maggiormente in considerazione dall'antropologia sono i cosiddetti gruppi di pari. Questi ultimi consistono per lo più di gruppi costituiti da persone che condividono gli stessi interessi o che hanno le medesime caratteristiche (biologiche o sociali), le quali hanno elaborato un forte sentimento di solidarietà accompagnato da precise aspettative reciproche. Tra questi gruppi sono senz'altro da segnalare le classi d'età, particolarmente significative per il ruolo da esse svolto nella vita sociale e rituale di molti popoli est-africani.
Le classi d'età sono costituite da individui che appartengono allo stesso sesso e che sono considerati come facenti parte di un gruppo (la classe) per il fatto di essere nati, ma più frequentemente per il fatto di essere stati 'iniziati', nello stesso periodo. Classi d'età si trovano un po' dovunque, ma esse rivestono, come dicevamo, un ruolo particolarmente significativo nell'Africa dell'Est. Qui gli individui, reclutati su base locale, vengono raggruppati in classi d'età in base all'epoca della loro prima iniziazione, la quale avviene in genere nel periodo immediatamente postpuberale e a una data stabilita. Coloro che sono stati iniziati nello stesso periodo a una prima classe verranno poi, dopo un certo numero di anni, iniziati a una classe successiva, fino a quando, dopo ulteriori 'passaggi' (il cui numero nelle società est-africane può andare da un minimo di quattro sino a più di dieci), essi raggiungeranno la classe più 'anziana', quella che detiene il privilegio di stabilire il momento delle iniziazioni delle classi 'inferiori' e di amministrare i riti a esse relativi. Le classi d'età hanno modalità di strutturazione assai variabili e tuttavia presentano spesso esiti simili sul piano dell'organizzazione sociale. Uno di questi è che le classi d'età possono fungere, successivamente, da modo di reclutamento dei guerrieri, dei guardiani di bestiame, degli allevatori e capifamiglia, dei responsabili dell'ordinamento politico e degli amministratori della religione, come avviene nel caso dei Masai del Kenya e della Tanzania (v. Bernardi, 1984). Le classi d'età, inoltre, in quanto costituite da individui appartenenti a gruppi residenziali e di parentela molto spesso diversi e tra loro 'distanti', sono un'istituzione che 'attraversa' la società collegando, con effetti coesivi o ammortizzatori di possibili tensioni e conflitti, gruppi che, essendo fondati su criteri diversi da quelli dell'età biologica o sociale, possono avere interessi diversi o conflittuali.
Si deve infine menzionare un altro ambito di utilizzazione del termine 'gruppo' in antropologia. Si tratta di quella categoria culturale che è l'etnicità. La nozione di gruppo etnico, o di etnia, è stata infatti sottoposta, negli ultimi decenni, a una severa critica da quanti hanno voluto vedere in essa il frutto di una concezione 'isolazionista' e 'discontinuista' del genere umano. Secondo i critici di questa prospettiva, quella di gruppo etnico, così come è stata a lungo impiegata, sarebbe infatti una nozione suscettibile di produrre un'immagine dell'umanità come costituita da 'isolati' di tipo razziale, linguistico, culturale e territoriale. L'etnia sarebbe così il termine che riassume tutte queste caratteristiche, offrendo tanto un appiglio ai teorici della razza, i quali vedono nell'etnia un dato 'sostantivo', quanto una giustificazione ai sostenitori del relativismo culturale nella sua forma estrema. Negli ultimi decenni, grazie agli studi di Fredrik Barth (v., 1969), la nozione di gruppo etnico è passata a indicare una categoria ascrittiva che, per poter assumere un carattere permanente, deve essere rinnovata attraverso reiterati processi di codificazione delle differenze sociali e culturali rispetto ad altri gruppi. In questa prospettiva il gruppo etnico non è più qualcosa di 'sostantivo', ma piuttosto un qualcosa che deve la propria esistenza alla creazione di 'confini' prodotti dall'attività simbolica degli attori sociali. In una prospettiva simile si muove anche chi considera il gruppo etnico come il frutto, se non altro parziale, di una dominazione a livello politico e culturale (v. Amselle, 1990); a riprova di questo fatto si cita il caso dei nomi delle etnie, che non sono quasi mai il prodotto di una autorappresentazione indigena, ma nomi imposti dall'esterno. In questo senso, la prospettiva 'isolazionista' avrebbe trovato conforto nella tendenza - tipica della ragione classificatrice e sistematizzante del sapere etnologico occidentale - a presentare l'esperienza umana come segnata più dalle differenze e dalle discontinuità tra gruppi che non dalle somiglianze e dalle connessioni reciproche. (V. anche Comunità; Famiglia; Parentela).
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di Franca Olivetti Manoukian
1. Introduzione
Con il termine 'gruppo' tradizionalmente si designa un insieme di individui tra i quali esistono delle interazioni sociali riconosciute come tali da essi stessi e da altri. Una definizione di questo genere (che riprende in modo sintetico molte delle definizioni in uso) risulta ben poco funzionale per distinguere e identificare chiaramente l'oggetto a cui ci si riferisce, ma indica i problemi esistenti nello studio dei gruppi e denota alcuni elementi strutturali che caratterizzano la realtà fenomenologica dei gruppi. 'Insiemi' di individui può significare: aggregazioni sociali assai ampie e disomogenee (anche un intero strato sociale); ampi sistemi organizzati (una multinazionale o un raggruppamento di industrie); categorie sociali aventi tratti distintivi comuni (gruppi di donne, di giovani, gruppi volontari, professionali); unità sociali di dimensioni limitate (come la famiglia o il gruppo dei pari); raggruppamenti costituiti con obiettivi specifici (gruppi di lavoro, gruppi di formazione); legami tra più individui sostenuti da affinità e interessi soggettivi (gruppi amicali, gruppi di auto-aiuto).L'indeterminatezza del termine (sottolineata anche da libere trasposizioni tra diverse lingue, come quella famosa che traduce il tedesco 'Massenpsychologie' nell'inglese 'group psychology') è riconducibile ai primi studi sociologici, considerati come le matrici della ricerca sui gruppi, che esploravano questa tematica a tutto campo. Per diversi studiosi considerati padri della sociologia (Cooley, Simmel, Tönnies, Durkheim, Mead) il gruppo è stato un punto di partenza necessario per sviluppare teorie generali sulla società (v. McGrath, 1978). È stato possibile elaborare diverse tipologie e interpretazioni delle varie forme di gruppi sociali, che hanno affinato le conoscenze, ma per altri versi accentuato le difficoltà di fissare la specificità del concetto, del quale tuttora si ricercano definizioni più precise e fondate (v. Freeman, 1992).
Delimitazioni di significato (sia nel linguaggio corrente che nella ricerca scientifica) sono state raggiunte attraverso riferimenti a specifiche realtà empiriche: da qui il consolidarsi di una considerazione dei gruppi, intesi come piccoli gruppi, in sociologia, in psicologia, in psicologia sociale e psicanalisi. La ricchissima letteratura sui gruppi prodotta negli Stati Uniti e nei paesi dell'Europa occidentale e gli stessi testi pubblicati in Italia negli ultimi trent'anni indicano tale restrizione di campo.
Ciò non riduce automaticamente la polivalenza e l'incertezza semantica del termine. Il gruppo come 'insieme' di individui richiama le origini etimologiche della parola, che sono piuttosto oscure (probabilmente da 'groppo', latino cruppa, 'grosso cavo') e rimandano all'esistenza di qualche cosa che lega. Sembra che il termine sia entrato in uso per indicare persone riunite ben visibili come tali, ad esempio in una composizione pittorica. Questa accezione neutra prende diverse colorazioni secondo la natura del legame: in particolare per i piccoli gruppi, gruppi 'faccia a faccia', in cui tutti i membri hanno o possono avere contatti e conoscenze dirette tra loro, nella rappresentazione collettiva e nelle descrizioni degli studiosi (anche aventi diversi orientamenti teorici e diversi obiettivi esplorativi) viene messo l'accento sulla presenza di contenuti accomunanti e unificanti. Ciò può venire anche considerato una sorta di elemento costitutivo del 'gruppo', un assunto che permette di distinguere che cosa è gruppo e che cosa non lo è. Si sottolinea ad esempio il senso di appartenenza a qualche cosa che supera i singoli, il percepirsi come un 'noi', che definisce i confini e i rapporti nel contesto sociale con altri individui e altri gruppi, ma anche la comunanza delle relazioni all'interno. Il presupposto aggregante è lo scopo comune del gruppo, purché si consideri che può essere il più vario: può essere incarnato da una persona, rappresentato da un'idea, dall'affermazione di un valore, da un compito o soltanto dall'interesse a stare insieme. Il fare proprio e sentire come proprio da parte di ciascuno l'obiettivo comune implica condivisione, comunicazione, accomunamento, unione. Nella nostra società a questa rappresentazione del gruppo spesso viene attribuita a priori una connotazione positiva, idealizzata; il gruppo diventa per antonomasia il luogo in cui attraverso comunicazioni intense e reciproche si realizza un'unità armonica, in cui ciascuno ha una collocazione paritaria, una partecipazione attiva e soddisfacente. I dati dell'esperienza non confermano l'immagine ottimistica e positiva del gruppo. Mettono piuttosto in luce dissimmetrie, divergenze, contrapposizioni e tensioni, anche aspre e dolorose. Ciascuno nei gruppi vive sentimenti ambivalenti polarizzati tra il desiderio di appartenere e darsi totalmente a un'entità superiore e rassicurante e la spinta ad affermare e imporre i propri bisogni, la propria identità individuale. Sono pertanto in gioco intense e violente emozioni e non è escluso che si ricorra alle rappresentazioni idealizzate per tenerle a bada: questo potrebbe essere uno dei fattori condizionanti lo sviluppo delle nostre conoscenze sui gruppi.
2. L'interesse per i gruppi nelle scienze sociali
Tra la fine del secolo scorso e gli inizi di questo secolo diversi studiosi dedicano particolare attenzione allo studio dei gruppi sociali e dei fenomeni che li caratterizzano per individuare le origini dei legami sociali, le basi della vita associata e i comportamenti individuali che essa richiede. Intorno all'esistenza e alla costituzione dei gruppi e alla loro influenza sugli individui si sviluppano alcune ipotesi teoriche che orientano per molti decenni il campo della ricerca e che costituiscono elementi centrali delle rappresentazioni dei gruppi diffuse nella nostra cultura. Secondo Cooley (v., 1909) esistono universalmente, in ogni tempo e in ogni stadio di sviluppo, dei gruppi 'primari', caratterizzati da intima associazione e cooperazione, che svolgono una funzione fondamentale nella formazione della natura sociale e degli ideali degli individui. La famiglia, il gruppo di gioco dei bambini, il vicinato, la comunità degli adulti danno all'individuo la sua prima e più completa esperienza dell'unità sociale e rimangono il riferimento più stabile e continuativo per relazioni più elaborate e differenziate. Durkheim (v., 1893) vede, nel ritrovarsi di individui che hanno in comune idee, sentimenti, interessi, occupazioni, il costituirsi di un'unione che oltrepassa i singoli e che dà vita, nella subordinazione degli interessi particolari all'interesse generale, al costituirsi di un corpo di regole morali. La società nel suo insieme è interessata alla formazione di gruppi capaci di regolare l'attività che si sviluppa in essi e l'individuo trova in questi gruppi un modo soddisfacente di sfuggire ai disordini dei rapporti non sottoposti a influenza regolatrice. "La vita comune è coercitiva e nello stesso tempo attraente [...]. Quando individui che si trovano ad avere degli interessi comuni si associano essi non lo fanno soltanto per difendere tali interessi ma per associarsi, per non sentirsi più perduti in mezzo a gente ostile, per avere il piacere di comunicare, di essere tutt'uno con molti altri e cioè in definitiva per condurre insieme una medesima vita morale" (v. Durkheim, 1893, p. 22). Simmel (v., 1908) considera l'individuo collocato in una rete di rapporti ascritti (affiliazione originaria) che progressivamente tende a scegliere e a costruire secondo criteri di vicinanza, di interesse, di somiglianza di inclinazioni, omogeneità di orientamenti o anche per contrapposizione e difesa da altri: gli individui si aggregano secondo criteri rispondenti a diverse razionalità, non sempre esplicite. Ciascuno appartiene pertanto a più gruppi e ciò favorisce e condiziona l'adattamento sociale del singolo, di cui egli non può fare a meno. È da questa complessa rete di rapporti che si sviluppa l'integrazione tra grandi gruppi sociali e della società nel suo insieme. Il contributo di questi autori allo studio dei gruppi è per lo più ricordato in relazione ad alcune classificazioni, fondate su variabili semplici, come la dimensione - da cui la distinzione di Simmel (v., 1908) in diade, triade, ecc. - o il contenuto prevalente dei rapporti interni - da cui la distinzione di Cooley (v., 1909) in gruppi primari e secondari. Di fatto queste prime teorizzazioni, come tali non esenti da assunti ideologici (come quello della filosofia organicistico-evoluzionistica che sostiene l'altruismo di Cooley, o quello della solidarietà professional-corporativista di Durkheim), mettono in luce che la formazione e l'esistenza dei gruppi tra gli uomini sono fondate sullo svilupparsi di legami che tengono insieme in modo positivo, che superano (anche nel senso che sono superiori) le passioni più primitive e permettono di controllarle per un bene che è individuale e insieme di tutti. La ricerca antropologica ritroverà questi aspetti nei gruppi familiari di popolazioni primitive (v. Lévi-Strauss, 1956).
Freud (v., 1921) affronta la questione dei gruppi sotto lo stimolo della lettura di un libro di Le Bon, Psychologie des foules (1895), sostenendo che dal punto di vista della vita psichica il fattore numerico non può avere un'importanza così determinante da far emergere fenomeni del tutto nuovi; nel piccolo gruppo o nella massa emergono pertanto pulsioni simili. E poiché in tali formazioni sociali gli individui vivono in modo straordinariamente esaltato le dimensioni affettive e al tempo stesso si trovano inibite le capacità di pensiero, si può ipotizzare che si sviluppino tra loro delle relazioni d'amore: nel singolo vi è un bisogno di concordare con altri, anziché di contrapporsi. Ma questo amore è possibile grazie all'inibizione degli impulsi sessuali e all'assumere a proprio ideale dell'io uno stesso oggetto. Il bambino piccolo non è spontaneamente rassicurato dalla presenza di altri bambini, anzi vorrebbe allontanare i fratelli per godere da solo dei genitori; ma poiché questi mostrano di amare tutti i figli allo stesso modo, è costretto ad abbandonare i sentimenti ostili e a identificarsi con gli altri bambini. "Il senso sociale poggia quindi sul volgersi di un sentimento inizialmente ostile in un attaccamento caratterizzato in senso positivo, la cui natura è quella di un'identificazione" (v. Freud, 1921; tr. it., p. 309).
A partire dagli anni 1920-1930 negli Stati Uniti si iniziano degli studi sui gruppi reali nel loro ambiente di vita 'naturale', come le gangs di minorenni nei quartieri malfamati di Chicago o i gruppi di ragazzi di strada della comunità italiana di Boston, utilizzando tecniche come quella dell'osservazione partecipante. Vengono così rilevati dati sulla struttura interna dei gruppi, apparentemente disorganizzati, sulle modalità seguite nel prendere le decisioni, sulle relazioni con i capi e sulle funzioni da essi esercitate, sui significati dell'appartenenza al gruppo per i singoli, sui valori e codici impliciti. Si tratta di studi di 'casi', che si collocano entro un approccio di tipo antropologico-sociale. È di quegli stessi anni (intorno al 1930) un'altra ricerca, divenuta in seguito famosa, svolta in tutt'altra prospettiva su gruppi di lavoro industriali, con l'intento di individuare le condizioni più favorevoli all'aumento della produttività, negli stabilimenti Hawthorne della Western Electric Company di Chicago. In queste indagini, condotte da studiosi dell'Università di Harvard (v. Olmsted, 1959), tra cui spicca il nome di Elton Mayo, si sottolinea con forza l'importanza dei gruppi, e più in generale del cosiddetto 'fattore umano' nelle organizzazioni di lavoro. In un contesto molto diverso, con intenti terapeutici, Moreno (v., 1934), psichiatra austriaco esule negli Stati Uniti, studia in gruppi spontanei di bambini la possibilità di misurare in modo sistematico la direzione e la qualità delle interazioni. Dalle sue elaborazioni si consoliderà quel particolare approccio allo studio dei gruppi che ha preso il nome di 'sociometria'. Queste diverse indagini, significative e feconde di importanti sviluppi futuri, rappresentano una parte numericamente limitata della ricerca sui gruppi. In quegli stessi anni (in corrispondenza con l'affermarsi di orientamenti positivisti nelle scienze sociali) vanno infatti piuttosto e prevalentemente realizzandosi ricerche sperimentali (laboratory studies), attraverso le quali si esplorano in condizioni controllate diversi fenomeni considerati caratteristici della situazione di gruppo. In particolare da parte degli psicologi sociali si studia, ad esempio, l'influenza esercitata sui comportamenti individuali (audience-effect) dalla presenza di altri, visibili o nascosti, attivi o passivi; la supposta maggiore efficacia del gruppo rispetto all'individuo nella soluzione di problemi complessi (performance); il conformismo suscitato dal gruppo nelle credenze (belief conformity) e nei comportamenti (behavioral conformity); gli effetti di diversi stili di leadership (v. Shotola, 1992). Ricerche di questo tipo vengono solitamente svolte in ambito accademico, con gruppi di studenti e procedure accuratamente messe a punto che permettono di ripetere gli esperimenti e verificare le ipotesi sulle causalità tra variabili. Negli anni dell'immediato dopoguerra, stimolate dai pressanti problemi e interrogativi sociali, esse hanno un'espansione notevole, potendosi anche avvalere di adeguate risorse economiche. In questo orizzonte risalta la figura di Kurt Lewin (1890-1947), psicologo tedesco emigrato negli Stati Uniti, che, a partire da elaborazioni sulla teoria del campo (field theory) in psicologia, propone una nuova concezione del gruppo come un tutto dinamico basato sull'interdipendenza tra i membri (parti del campo), differenti tra loro e aventi differenti funzioni, per cui il cambiamento di una parte implica il cambiamento delle altre. Nella sua opera sono strettamente collegate le riflessioni teoriche e le ricerche empiriche, anche costruite intorno a problemi sociali concreti (action-research). La 'dinamica di gruppo' diventa una metodologia per comprendere le forze che agiscono all'interno del gruppo al fine di individuarne le regolarità, le leggi generali. Il termine, coniato dallo stesso Lewin, entrerà nella denominazione di un centro (Research center for group dynamics) che, fondato nel 1945, avrà un ruolo cruciale nella diffusione di ricerche applicate sul funzionamento dei gruppi in tutto il mondo occidentale. L'influenza di Lewin è stata molto ampia. Dalle prime attività incentrate sulla dinamica di gruppo da lui stesso iniziate hanno origine non solo la costruzione di una serie di tecniche di conduzione dei gruppi, ma anche un movimento, assai fertile per molti anni, che mirava a introdurre e utilizzare i gruppi nei più diversi campi, dal lavoro industriale al management, alla scuola, alla psicoterapia, al lavoro sociale.
Tra il 1950 e il 1960, esplicitamente legittimato sul piano 'scientifico', il campo delle ricerche sui piccoli gruppi (small group research) si espande in modo eccezionale, nell'ambito sia della sociologia che della psicologia sociale: si calcola che arrivi a decuplicarsi. A fronte di tale grande massa di dati empirici le concettualizzazioni e le sistematizzazioni risultano meno sviluppate. Tra queste va ricordato l'importante contributo di Homans (v., 1950), secondo il quale la vita dei gruppi si muove tra le pressioni di un sistema esterno, sostanzialmente imposto e subito, e un sistema interno più direttamente dipendente dalle scelte autonome dei componenti il gruppo. Il sistema interno sarebbe una delle sorgenti dei cambiamenti che si possono verificare nel sistema esterno. Bales (v., 1950) negli stessi anni presenta una particolare metodologia messa a punto per studiare i processi di interazione nel gruppo (interaction process analysis) in riferimento ai problemi di raggiungimento del risultato (area funzionale, strumentale) e ai problemi socioaffettivi (area espressiva). Vengono osservate le interazioni attraverso gli scambi verbali che possono essere scomposti e classificati secondo tre dimensioni: dominanza-sottomissione, reazioni positive-negative, orientamento strumentale-espressivo. Questi schemi trovano larga utilizzazione e vengono applicati anche allo studio dell'evoluzione dei gruppi. Cartwright e Zander (v., 1953) raccolgono i contributi di ricerca più significativi apparsi in quegli anni, valorizzando gli scritti di Lewin sulle decisioni nel gruppo. Altri autori, come Festinger e altri (v., 1950) e Thibaut e Kelley (v., 1959), elaborano modelli teorici sulle interdipendenze tra comunicazione e atteggiamenti e sugli scambi interpersonali attivati da scelte in termini di costi-benefici.
Negli anni sessanta la produzione di ricerche sperimentali sui gruppi negli Stati Uniti comincia a diminuire. Diviene sempre più visibile la divaricazione tra i dati sui comportamenti di gruppo studiati in laboratorio e i problemi ricorrenti nei gruppi reali o 'naturali'; al tempo stesso un più esplicito e diffuso riconoscimento della presenza dell'osservatore/ricercatore come parte integrante del campo studiato sembra indebolire la scientificità degli esperimenti (v. Mills, 1984²). Alcuni studiosi costruiscono settings sperimentali più sofisticati, con maggior attenzione alle variabili di contesto (ad esempio status, sesso, età dei soggetti; attese dei ricercatori; reciproche influenze tra ricercatori e soggetti). Altri si impegnano in ulteriori tentativi di teorizzazione che, utilizzando la grande massa di dati disponibili, permettono di formulare nuove ipotesi da verificare sperimentalmente. Altri rivolgono il loro interesse a fenomeni meno esplorati, come i sentimenti e le emozioni delle persone, che vengono considerati fattori condizionanti per i risultati e il funzionamento dei gruppi: si tratta di ricercatori collocati per lo più al di fuori delle sedi accademiche, impegnati in attività professionali con gruppi, interessati a comprendere come realizzare cambiamenti nelle persone, nei gruppi, nelle organizzazioni. In questa direzione si sviluppa un'area di ricerca (denominata 'group dynamics' o 'experiential group psychology'), che immette negli studi sui gruppi riscoperte e ulteriori rielaborazioni degli orientamenti di Lewin, applicate a diversi tipi di gruppi (dai gruppi di formazione ai gruppi di lavoro nelle industrie, negli ospedali, nei servizi sociali), nonché un forte riferimento alla teoria psicanalitica, che offre spiegazioni e prospettive interpretative nuove intorno alle capacità dei gruppi di lavorare e produrre. Le ricerche sono condotte in un ambito disciplinare che si situa tra la psicologia sociale clinica e la psicanalisi (o psicosocioanalisi), e si ricollegano sul piano teorico in particolare ai contributi di alcuni psicanalisti inglesi.
In Gran Bretagna, infatti, già a partire dagli anni cinquanta vengono proposti i risultati di una famosa ricerca, condotta in una grande azienda industriale, sulle tensioni e i conflitti nei gruppi di lavoro (v. Jaques, 1951): il quadro di riferimento interpretativo è dominato dalle elaborazioni di Melanie Klein sui meccanismi inconsci di difesa dalle ansie depressive e persecutorie. Bion (v., 1961), psichiatra e psicanalista, a partire dalla sua attività terapeutica con gruppi di pazienti formula alcune ipotesi generali sui fenomeni ricorrenti nella vita dei gruppi, che trovano diffusione e ampia utilizzazione (cfr. la rivista "Human relations"). In Francia, a partire dalla fine degli anni cinquanta, e soprattutto negli anni 1969-1974, si ha un'esplosione di pubblicistica sui gruppi, in corrispondenza di spinte politiche e culturali verso cambiamenti importanti nelle organizzazioni e nelle istituzioni sociali e anche grazie all'acquisizione, da parte di psicologi e psicanalisti, delle ricerche di Lewin e soprattutto dei lavori degli studiosi inglesi. Il primo numero della rivista "Connexions" (1972) prospetta per lo studio dei fenomeni ricorrenti nei gruppi possibili confronti e integrazioni tra più discipline, un approccio che incrocia l'orientamento psicanalitico con la psicologia sociale applicata. Anzieu (v. Anzieu e altri, 1972) avanza l'idea dell'esistenza di organizzatori psichici inconsci originari che dominano il funzionamento psichico dei gruppi: vi sarebbe all'inizio una sorta d'indifferenziazione tra individuo e gruppo che porta a rappresentazioni immaginarie come quella dell''illusion groupale' (illusione di essere un gruppo armonico e coeso), rafforzata da sistematiche minimizzazioni di tutte le dimensioni aggressive nei rapporti tra i membri di un gruppo.
3. Gruppi e contesto sociale
Dagli anni sessanta nelle società occidentali si è venuta sviluppando in vari ambiti l'idea dei gruppi come microaggregazioni che permettono e promuovono tra i membri relazioni più simmetriche ed efficaci di quelle che tradizionalmente caratterizzano le strutture gerarchizzate dominanti nelle istituzioni sociali. Nelle rappresentazioni collettive il gruppo in quanto tale sembra poter garantire modificazioni nei rapporti di sovraordinazione-subordinazione tra gli individui, creazione di spazi di autodeterminazione e alternative ai meccanismi di formalizzazione e frammentazione dei rapporti sociali legati all'espansione del capitalismo e dei processi di modernizzazione. L'insorgere di questo fenomeno riscuote attenzione da parte di alcuni studiosi. Ne vengono proposte delle letture fortemente marcate da prese di posizione ideologiche: riprendendo delle elaborazioni utopiche di pensatori del secolo scorso (come Fourier) e criticando la burocratizzazione delle istituzioni industriali e pedagogiche si auspica lo sviluppo di una società fondata su una dialettica dei gruppi autogestiti (v. Lapassade, 1970). Altri vedono nei gruppi quelle 'strutture intermedie' in cui di fatto si sviluppano nella quotidianità le appartenenze fondanti dell'ordine sociale (v. Berger, 1977). Rare sono le indagini rivolte a descrivere sul piano fenomenologico la consistenza dei gruppi e la loro rilevanza sul piano sociopolitico (v. Rositi, 1970).
Dagli anni settanta (forse perché il diffondersi dei gruppi nella società in generale e nelle organizzazioni lavorative ed educative risulta più apertamente collegato all'affermarsi dei movimenti di contestazione) diverse analisi di tipo sociologico tendono a considerare sempre meno i gruppi come tema di ricerca a sé stante e li studiano piuttosto nell'ambito di trasformazioni sociali più generali.
Questa posizione trova anche una specifica argomentazione teorica: Collins (v., 1975), ad esempio, nel suo trattato di sociologia non dedica neppure un paragrafo ai gruppi, che ritiene debbano essere interpretati come una realizzazione empirica del concetto (fondamentale) di organizzazione. Anche Olson (v., 1965), che pure sottolinea ampiamente l'efficacia dei gruppi 'intermedi' (gruppi di dimensioni limitate che facilitano ai membri la difesa e il raggiungimento dei propri interessi e obiettivi), per molti aspetti utilizza la riflessione sui gruppi per proporre ipotesi che riguardano i rapporti tra razionalità e interessi individuali e interessi collettivi. In questa prospettiva la conoscenza specifica sui gruppi viene assorbita, per così dire, ma anche più ampiamente e puntualmente sviluppata e storicizzata in ricerche e teorizzazioni sui movimenti sociali (v. Touraine, 1980) e in particolare sui movimenti alternativi: movimenti giovanili, movimento delle donne, movimenti ecologici e neoreligiosi (v. Melucci, 1984). I gruppi costituiscono le forme entro le quali si rendono visibili i movimenti e attraverso le quali possono essere studiati.
La riflessione sui gruppi trova ulteriori rielaborazioni anche negli studi sociologici sulle organizzazioni (v. Perrow, 1972). In particolare l'analisi dei cambiamenti nell'organizzazione del lavoro industriale vede i gruppi sia come mezzi per migliorare le condizioni di lavoro e sviluppare la democrazia industriale, che come possibili soluzioni organizzative flessibili, atte a sostenere elevati gradi di incertezza e di complessità del lavoro. Sia a livello direttivo che a livello operativo i gruppi possono costituire sedi privilegiate per il coordinamento e il controllo dei processi produttivi. Butera, analizzando i mutamenti organizzativi e tecnologici in alcune grandi aziende italiane, rileva l'introduzione di diversi gruppi nel sistema di produzione ('isole', teams, unità operative), che costituiscono contemporaneamente delle unità organizzative e dei sottosistemi sociali, in quanto esprimono delle capacità di 'cooperazione intrinseca' (v. Butera, 1984, p. 158-159) su una pluralità di aspetti e contenuti del lavoro. Inoltre, nuovi orientamenti manageriali hanno portato nelle aziende i 'circoli di qualità' (quality-circle) che coinvolgono operai e impiegati nell'identificazione di disfunzioni e nella soluzione di problemi della propria sfera di lavoro (v. Merli, 1985): la valutazione di questi gruppi in termini tecnici e sociali è tuttora aperta.Nelle organizzazioni dei servizi sanitari e sociali i gruppi di lavoro tra professionisti (staffs, équipes) costituiscono una delle forme più raccomandate di ricomposizione dell'attività e insieme una delle modalità con cui all'interno di strutture gerarchiche vengono delegate, con diversi gradi di discrezionalità, le decisioni su compiti complessi (v. Garvin, 1987; v. Olivetti Manoukian, 1988).
Una specifica area di ricerca intitolata ai gruppi, con una propria visibilità e autodelimitazione disciplinare, si è mantenuta negli ultimi vent'anni negli Stati Uniti dove vengono pubblicate riviste specializzate come 'Small group behavior' e 'Small group research'. Dopo l'esplosione di interesse per il tema nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, negli anni sessanta e settanta si registra un calo di attenzione interpretato dagli studiosi come effetto della mancanza di una teoria di riferimento sufficientemente solida ed elaborata (v. McGrath, 1978), o del ripiegamento sullo studio di aspetti troppo specifici, non generalizzabili (v. Borgatta, 1981), o anche come riluttanza da parte degli psicologi sociali a impegnarsi in questo tipo di ricerche in presenza di gravi tensioni istituzionali e sociali (v. Steiner, 1983). Negli anni ottanta si consolida una produzione di studi relativamente ampia, anche se frammentata in diversi ambiti disciplinari e su diversi problemi. Si hanno alcuni tentativi di riprendere attraverso verifiche empiriche una modellizzazione teorica dei processi che fondano l'esistenza dei gruppi (v. Couch, 1992; v. Freeman, 1992). Nell'area del lavoro sociale si avverte la carenza di studi sul peso che le variabili dell'appartenenza etnica e della collocazione sociale, dell'età e del sesso hanno sui gruppi con cui i servizi sociali interagiscono. Levine e Moreland (v., 1990), elaborando un censimento delle ricerche pubblicate tra il 1980 e il 1990, rilevano delle convergenze su temi quali il rapporto dei piccoli gruppi con l'ambiente (fisico e sociale), la composizione, la struttura, i conflitti interni e il raggiungimento degli obiettivi. Essi sottolineano anche uno slittamento disciplinare dalla psicologia sociale tradizionale alla psicologia dell'organizzazione, che porta con sé anche una riduzione dell'utilizzo di sperimentazioni in laboratorio a favore di indagini sul campo, prevalentemente orientate ai problemi pratici connessi alla maggiore efficacia e produttività del lavoro di gruppo. In questa area di ricerca vengono messe a punto strumentazioni sempre più sofisticate per osservare e analizzare i comportamenti nei gruppi (come il famoso System for the Multiple Level Observation of Groups, SYMLOG, sviluppato da Bales: v. Polley e altri, 1988), per formulare delle generalizzazioni empiriche e per fornire indicazioni operative sulla costituzione e il funzionamento dei gruppi di lavoro (team building) (v. Hare, 1992). Più in generale viene ipotizzato che i gruppi possano essere sostenuti e assistiti nello svolgimento dell'attività e nel raggiungimento degli obiettivi da tecnologie informatiche (Group Support System, GSS), la cui efficacia non è tuttavia ancora verificata (v. Menneke e altri, 1992).
Su binari paralleli a quelli della small group research, quasi senza contatti e confronti, si sviluppa negli stessi anni l'area della group dynamics, nella quale l'analisi dei fenomeni di gruppo è parte integrante di una pratica professionale nella consulenza organizzativa, nella formazione, nell'insegnamento: in questo campo (confinante con quello dell'analisi di gruppo a scopi psicoterapeutici) si sono accumulate e si accumulano molte documentazioni di interventi sui gruppi e indagini che affrontano questioni di metodo (come ad esempio la composizione dei gruppi, il setting, il ruolo e gli atteggiamenti dello staff) o che illustrano specifici contenuti affettivi nelle interazioni tra i partecipanti (come ad esempio reazioni positive alla leadership, sentimenti ambivalenti alla fine di un'esperienza di gruppo; v. Gillette e McCollom, 1990). Si lamenta una carenza di teorie generali o una scissione tra teoria della pratica e teoria esplicativa più ampia (v. Bunker, 1992).
In Europa dagli anni settanta studi e ricerche specificamente dedicati ai gruppi hanno seguito un andamento analogo a quello registrato negli Stati Uniti, ma con una maggiore concentrazione nel filone della dinamica di gruppo, ovvero della lettura dei problemi del funzionamento dei gruppi in situazioni formative o nell'ambito di interventi in organizzazioni. In Gran Bretagna alcuni studiosi, ricollegandosi agli orientamenti psicanalitici kleiniani e valorizzando esperienze di consulenza e di formazione con vari tipi di gruppi, hanno messo a punto importanti contributi di tipo teorico-metodologico, che nel tempo sono stati verificati e consolidati (v. Bridger, 1981; v. Miller, 1989).In Francia (v. Maisonneuve, 1968) la riflessione sui gruppi ha contribuito a individuare un indirizzo disciplinare che è stato definito come 'psicosociologia', che con alterne vicende negli ultimi vent'anni ha affrontato le questioni del cambiamento microsociale e del rapporto tra agire individuale, immaginario e comportamenti organizzativi e di gruppo (v. Enriquez, 1983).
In Italia l'interesse delle scienze sociali per i gruppi si è sviluppato a partire dalla fine degli anni sessanta per importazione dagli Stati Uniti (direttamente, o indirettamente attraverso la mediazione di contatti con Gran Bretagna e Francia). Gli studiosi italiani si sono occupati sia di forme di organizzazione del lavoro, che di gruppi di formazione, che di orientamenti teorici e di ricerca. Alcuni studiosi, in particolare collocati nell'area della psicologia sociale e della psicologia clinica, hanno svolto un ruolo importante nella diffusione e nella promozione dell'utilizzazione dei gruppi in diversi settori e nell'approfondimento di modelli teorici e di tecniche (v. Spaltro, 1969): il dibattito si è sviluppato in particolare tra prospettive legate alla psicologia behavioristica o all'ottica cognitiva psicosociale e ipotesi radicate nella teoria psicanalitica (socioanalisi, psicosociologia; v. Trentini, 1987; v. Carli e altri, 1988). Dopo una fase di intensa attivazione di gruppi e di moltiplicazione di proposte di gruppi formativi, permeata da attese elevate e idealizzate di cambiamento personale e organizzativo, verso la fine degli anni settanta si è avuto un mutamento di quadro: è venuta meno la fiducia aprioristica sulle potenzialità positive dei gruppi e si è ridimensionato il ricorso alle tecniche psicologiche di conduzione; contemporaneamente i gruppi hanno consolidato la loro esistenza all'interno del mondo del lavoro (dalle aziende ai servizi sociali e sanitari), della scuola, della terapia e hanno assunto nuova importanza nel volontariato e nella mobilitazione di nuove associazioni intorno a nuovi valori di solidarietà sociale. Negli ultimi anni, con la riscoperta dei fenomeni culturali nelle organizzazioni e con l'importazione di tipi di gruppi finalizzati a miglioramenti nella produttività (circoli di qualità, task force, teamwork), si è avuto un risveglio di interesse per esperienze formative di gruppo che promuovano maggiori capacità di cooperazione (v. Quaglino e altri, 1993).
4. Questioni aperte
I gruppi, i piccoli gruppi, sono una realtà sociale, con una propria storia, proprie strutture e proprie autonome e imprevedibili fenomenologie evolutive nel tempo e nello spazio sociale: essi sono stati e sono considerati come oggetto di ricerca a sé stante. Al tempo stesso si collocano all'interno di configurazioni sociali più ampie, che ne marcano aspetti strutturali e culturali e che in essi rivelano specifiche caratteristiche. I gruppi rappresentano un luogo privilegiato per l'analisi delle relazioni tra individui e dei rapporti tra individuo e organizzazione: luogo che permette di comprendere lo svolgersi delle interazioni sociali nei loro aspetti più critici, ma è anche idoneo a influenzare i soggetti che ne fanno parte e il contesto in cui vivono. Il gruppo in quanto tale è anche un oggetto sociale plasmabile e costruibile, e diventa uno strumento attraverso il quale possono essere gestiti processi come l'apprendimento, l'acquisizione di nuovi modelli culturali, il lavoro tra più individui, la raccolta e la trasmissione delle informazioni, la produzione di decisioni, la soluzione di problemi, la terapia o il supporto psicologico.
Da ambedue i punti di vista i gruppi attirano i ricercatori come oggetto di studio immediatamente afferrabile attraverso la conoscenza diretta e dominabile con interventi sul funzionamento. Eppure intorno ai gruppi manchiamo tuttora di una teoria di ampio respiro. Si sono piuttosto condensate in quest'area in modo quasi esemplare le contraddizioni che si riscontrano ogni volta che le scienze sociali si misurano con applicazioni e azioni sul sociale: il rapporto tra osservatore e realtà osservata, la contrapposizione tra metodi sperimentali (quantitativi) e metodi clinici (qualitativi), la separazione tra aspetti strutturali (sociologia) e aspetti soggettivi (psicologia), la distanza tra studiosi (accademici) e operatori (professionisti impegnati sul campo). Si accumulano dati descrittivi da un lato e tentativi di concettualizzazioni su aspetti specifici dall'altro, senza che la comprensione dei fenomeni microsociali riesca a collegarsi attivamente a una prassi da sottoporre al vaglio della teoria in via di costruzione. (V. anche Associazione; Interazione sociale; Movimenti politici e sociali; Organizzazione).
Anzieu, D. e altri, Le travail psychanalitique dans les groupes, Paris 1972.
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