Interazione sociale
Il fatto ovvio che gli esseri umani agiscono orientandosi gli uni verso gli altri e insieme agli altri costituisce il punto di partenza comune della sociologia, della psicologia, dell'economia, dell'etnologia e di altre scienze sociali. Esse si definiscono tali proprio perché si propongono di descrivere, interpretare e/o spiegare l'agire umano. Per quanto strettamente legate da questo elemento comune, tuttavia, le varie scienze sociali differiscono notevolmente quando si tratta di precisare il particolare aspetto dell'agire umano di volta in volta scelto come oggetto d'indagine, nonché il tipo di interesse cognitivo a esso collegato. Anche all'interno delle singole scienze sociali non esiste unità di vedute sull'ambito dell'agire umano da considerare e ancor meno sul modo in cui questo andrebbe descritto, interpretato e/o spiegato. Ciò ha dato luogo a una quantità sterminata di concetti e approcci teorici che si differenziano anche perché ognuno di essi ha come presupposto una diversa concezione della natura umana.
La molteplicità dei concetti e delle teorie con cui si cerca di spiegare l'agire sociale dipende dalla complessità dei processi interattivi stessi. Per quanto possa apparire ovvio a prima vista che gli individui orientino il loro agire gli uni verso gli altri, l'azione si rivela estremamente complessa allorché se ne indagano più a fondo le motivazioni, lo svolgimento e le conseguenze sia per l'attore stesso che per gli altri soggetti. Più di ogni altra scienza sociale, è stata la sociologia a porsi il compito di risolvere sistematicamente questi problemi, collocandoli in un contesto teorico più ampio.
Il concetto di interazione sociale abbraccia un vasto campo di fenomeni empirici, e si riferisce sia ad azioni quotidiane di routine (lo scambio di un saluto) che a eventi eccezionali (il divorzio tra due coniugi), sia ad azioni moralmente condannabili (la menzogna o l'omicidio) che ad azioni moralmente encomiabili (donare il sangue). Nel concetto di azione sociale non rientrano solo quei fenomeni empirici in cui si manifesta la componente 'attivistica' del fare rivolto verso gli altri.
Si ha un'interazione anche quando si omettono azioni attese (ad esempio il mancato aiuto da parte di una nazione a minoranze etniche perseguitate), quando si tollerano o si subiscono azioni di altri individui (ad esempio nel caso degli elettori che tollerano una consorteria di politici corrotti), o quando si trae un piacere sensuale dalle azioni di altri individui (ad esempio l'entusiasmo dello spettatore di un concerto rock, il piacere dell'alta cucina, il piacere sessuale di un abbraccio). I fenomeni dell'agire sociale inoltre non si limitano a processi di lunga durata, ma comprendono anche contatti fuggevoli (ad esempio lo scambio di un'occhiata). Si può inoltre parlare di interazione sia quando singoli individui agiscono orientandosi gli uni verso gli altri, sia quando più individui agiscono come gruppo, classe o équipe di lavoro.
Infine, il concetto di interazione non si riferisce solo a fenomeni empirici che ricorrono con una certa regolarità (come ad esempio la congestione del traffico
automobilistico all'inizio delle ferie estive), ma si estende anche a fenomeni che interrompono abitudini e aspettative coltivate per lungo tempo (licenziamenti, divorzi, rivoluzioni) o introducono innovazioni radicali in determinati campi (creazioni artistiche, scoperte scientifiche). La definizione del concetto di interazione comprende quindi i seguenti elementi: 1) il tipo di attore (singolo o collettivo); 2) la frequenza dell'azione (quotidiana o eccezionale); 3) la sua durata (azione momentanea o di lunga durata); 4) il grado di attività che essa comporta (fare o omettere di fare, sopportare, godere); 5) il suo grado di prevedibilità (azione istituzionalizzata o non istituzionalizzata).
L'interazione sociale può quindi essere definita come un processo di durata più o meno lunga, tra due o più attori (singoli o collettivi), che orientano reciprocamente il proprio agire l'uno verso l'altro influenzando così le motivazioni e lo svolgimento di tale agire e producendo effetti di 'associazione' (Vergesellschaftung) più o meno intensi.
Se si definisce l'interazione sociale come processo di orientamento reciproco dell'azione e si considera proprio questa reciprocità come base per la determinazione dei motivi, dello svolgimento e delle conseguenze dell'azione stessa, ne consegue che non tutto l'agire umano è interazione sociale. I tentativi di delimitare il concetto di interazione e di distinguerlo da altri concetti si ricollegano per lo più alla distinzione operata da Max Weber (v., 1922, p. 1) fra comportamento, azione e azione sociale. Il termine più comprensivo, 'comportamento', indica ogni sorta di azioni e reazioni umane, consapevoli o inconsapevoli, progettate o meno. Ne consegue che nel concetto di comportamento vanno inclusi anche quei processi puramente fisiologici che seguono lo schema stimolo-reazione (ad esempio reagire con un grido al dolore inflitto). Secondo Weber il comportamento diventa 'azione' quando a esso viene associato un senso soggettivo (ad esempio quello di esprimere il dolore emettendo un grido). Infine, per 'azione sociale' si intendono i processi in cui gli individui attribuiscono un senso al proprio modo d'agire formulando reciproche congetture - attraverso anticipazioni, immedesimazioni o assunzioni di ruolo - sul senso che l'altro attore attribuirebbe a tale modo d'agire, e in base a tali congetture orientano la propria attribuzione di senso (così, per riprendere l'esempio precedente, si può gridare nell'aspettativa che ciò induca chi ci infligge il dolore a desistere dal tormentarci). Secondo tale criterio di reciprocità i processi dell'azione si differenziano da quelli dell'interazione sociale perché in questi ultimi il senso soggettivo diventa senso socialmente scambiato o concordato. Ciò non implica che questi processi di reciproca costituzione del senso sociale si svolgano sempre in modo manifesto, né che l'attribuzione di senso debba essere concordata ex novo a ogni azione: essa può avvenire in base a tradizioni culturali, tacite convenzioni o consuetudini. Mentre dunque comportamento e azione sono distinguibili concettualmente mediante il criterio del senso soggettivo, ciò che distingue l'azione sociale (interazione) dall'azione è l'attribuzione reciproca di senso - senso che si costituisce nel corso del processo stesso.
Sebbene né questa distinzione concettuale tra comportamento, azione e azione sociale (interazione), né il relativo concetto di senso si siano universalmente affermati, perlomeno la distinzione tra comportamento da un lato e azione sociale dall'altro è comunemente accettata. Si può quindi operare una prima distinzione generale tra teorie del comportamento e teorie dell'azione.
I sostenitori delle teorie del comportamento partono dal presupposto che il comportamento dell'uomo e degli altri esseri viventi segua lo schema stimolo-reazione. L'orientamento più diffuso e al tempo stesso più aspramente contestato nell'ambito di queste teorie è il behaviorismo, un indirizzo della ricerca psicologica e sociopsicologica, sviluppatosi negli Stati Uniti nei primi decenni del secolo, che si propone di indagare le modalità di comportamento osservabili e misurabili ('reazioni') degli esseri viventi, considerate come il risultato di influssi ambientali ('stimoli'). Lo schema stimolo-reazione è stato applicato specialmente allo studio dei processi di apprendimento, ed è stato ulteriormente sviluppato soprattutto da B. F. Skinner.
Verso la fine degli anni cinquanta George Caspar Homans ha elaborato una variante sociologica della teoria del comportamento, che si basa su due assunti fondamentali. Il primo è il cosiddetto assunto riduzionistico, secondo cui la spiegazione del comportamento umano si riduce a una serie di leggi psicologiche relative al comportamento dei singoli attori; il secondo, che si ricollega alla tradizione dell'utilitarismo e dell'economia politica classica, è il cosiddetto assunto antropologico, secondo il quale tutti gli esseri viventi tendono a minimizzare i costi e a massimizzare i benefici. Variando l'intensità e la frequenza delle ricompense e delle punizioni sarebbe possibile rafforzare o indebolire determinati comportamenti. Ispirandosi al modello ipotetico-deduttivo proprio delle scienze fisiche, Homans (v., 1961) ha formulato leggi e ipotesi sulle forme elementari del comportamento sociale. In base a una serie di ricerche sperimentali e di studi sul campo, egli ha applicato la sua teoria del comportamento ai processi di interazione nell'ambito dei piccoli gruppi - ad esempio i processi consultivi tra dirigenti, interpretati come processi di scambio in cui i partecipanti valutano i beni scambiati (la richiesta e l'elargizione di pareri) attraverso un calcolo dei costi e dei benefici. Homans peraltro va al di là della semplice analogia con la teoria dello scambio economico quando prende in considerazione variabili quali la valutazione soggettiva e la frequenza degli scambi; la conclusione cui perviene è che nei processi di scambio sociale si stabilisce un equilibrio tra i beni materiali e immateriali (simboli di riconoscimento) dati e quelli ricevuti. Con il principio della 'giustizia distributiva' Homans (v., 1958) ha formulato la tesi secondo cui i membri di un gruppo tendono non solo a massimizzare i propri vantaggi personali, ma anche a far sì che i benefici ottenuti dagli altri non siano superiori ai propri. Questo principio ha esercitato un influsso durevole sia sulle scienze sociali che sulla prassi politica, in particolare sulla politica sociale.
In merito all'assunto riduzionistico di Homans si è accesa tra i sociologi una controversia che ha portato a una scissione tra i sostenitori di una 'microteoria' e quelli di una 'macroteoria' dell'azione sociale. I primi, richiamandosi al cosiddetto individualismo metodologico, partono dal presupposto che l'azione sociale sia riducibile a quella individuale; i secondi affermano invece che l'azione sociale, a differenza di quella individuale, può essere spiegata esclusivamente sulla base di fatti sociali. Al pari di molti dibattiti scientifici, anche questo è fondato su una "opposizione superficiale e stereotipa" (v. Luckmann, 1992, p. 126) che ha provocato gravi fraintendimenti. Se si parte dal presupposto che uno dei caratteri distintivi dell'interazione sociale è la reciprocità degli orientamenti dell'azione (ipotesi della reciprocità), si arriva alla conclusione che i motivi, lo svolgimento e le conseguenze dell'interazione non sono da ricercare né in processi individuali né in processi extraindividuali o preindividuali, bensì nel corso stesso dell'interazione. Se inoltre si assume che il ripetersi e il succedersi dei processi di azione reciproca determinino il costituirsi di formazioni più o meno stabili, si deve considerare questo carattere costruttivo o produttivo un altro tratto distintivo dell'interazione sociale (ipotesi della costruzione e produzione). Per questo costituirsi della società all'interno e per mezzo dei processi di azione reciproca Georg Simmel (v., 1918) ha coniato il termine Vergesellschaftung.
Le teorie dell'azione vanno valutate in relazione alla loro capacità di tener conto di questi due caratteri fondamentali dell'interazione sociale: la reciprocità e la produttività. Di fatto però i teorici dell'azione preferiscono stabilire dei punti di riferimento dell'analisi, spiegando l'azione sociale a partire o dagli individui interagenti (teorie individualistiche dell'azione) oppure dalle strutture sociali prodotte dalle interazioni (teorie strutturali dell'azione); in quest'ultimo caso le strutture vengono analizzate come condizioni dell'azione sociale. A questi due tipi fondamentali di teorie dell'azione se ne può affiancare un terzo, nato dal tentativo di integrare in un'unica teoria i due diversi approcci. Le teorie sociologiche dell'azione possono inoltre essere classificate in base al loro status metodologico. Non tutti gli approcci pretendono infatti di spiegare l'azione sociale e di costruire una teoria; molti si limitano a interpretare l'azione sociale o a elaborare quadri di riferimento concettuali per una sua descrizione analitica.
Le principali teorie individualistiche dell'azione sono: a) la teoria delle alternative di scelta; b) l'analisi dei processi di interazione; c) la teoria della 'scelta razionale'; d) la teoria dello scambio; e) la fenomenologia; f) l'interazionismo simbolico.
Partendo dai noti tipi di azione sociale definiti da Max Weber (azione razionale rispetto allo scopo, razionale rispetto ai valori, determinata dall'affettività, determinata dalla tradizione), Talcott Parsons ha elaborato un quadro di riferimento concettuale per una descrizione analitica dell'azione. Mediante le cosiddette pattern variables ('variabili strutturali'), egli presenta l'azione come un atto di scelta in cui entrano tre componenti: la definizione cognitiva della situazione, la valutazione delle alternative che si aprono all'azione e delle conseguenze che ne derivano, la catessi, ossia l'investimento affettivo dell'attore per gli oggetti e i soggetti coinvolti nella situazione. Conoscenza, valutazione e catessi definiscono il tipo di orientamento dell'azione. L'atto di scelta non avviene secondo l'arbitrio personale, ma è socialmente canalizzato dall'orientamento verso norme e valori. Parsons rappresenta gli orientamenti dell'azione in forma dicotomica, come alternative che si escludono a vicenda: affettività versus neutralità affettiva, particolarismo versus universalismo, qualità ascritte versus qualità acquisite, diffusività versus specificità, interessi della collettività versus interessi dell'io. L'utilità di questo quadro di riferimento per fini euristici oltre che descrittivi si è manifestata soprattutto nella reinterpretazione delle alternative dell'azione come 'dilemmi d'azione' (v. Parsons e Shils, 1951). Lo stesso Parsons ne ha dato ripetutamente la prova, in particolare nell'analisi dell'agire professionale e nell'ambito della ricerca comparata sulla modernizzazione. I limiti di applicabilità sia della tipologia dell'azione weberiana sia delle variabili strutturali di Parsons sono legati da un lato al fatto che l'orientamento dell'azione viene concepito in termini di mezzi-fini (v. Gerhards, 1989), dall'altro all'attribuzione di un carattere monovalente all'azione sociale. Poiché l'azione sociale ambivalente non viene presa in considerazione né sul piano tipologico né su quello empirico, queste griglie concettuali consentono di cogliere solo un determinato aspetto dell'agire umano (v. Merton, 1976; v. Nedelmann, 1992).
Una versione particolarmente valida della teoria dei dilemmi dell'azione è quella formulata da Albert O. Hirschman (v., 1970). Secondo tale versione gli individui, nelle vesti di consumatori o di membri di organizzazioni, allorché avvertono un peggioramento della qualità di un bene acquistato o di una prestazione ricevuta sono posti di fronte a tre alternative d'azione: la 'defezione' (exit), la 'protesta' (voice) e la 'lealtà' (loyalty). Con la defezione l'attore manifesta la sua intenzione di volgere le spalle al proprio fornitore abituale o all'organizzazione di cui fa parte; con la protesta prende posizione contro di essi e con la lealtà afferma la sua volontà di non abbandonarli nonostante il peggioramento della qualità. Hirschman ha applicato questa teoria all'analisi di problemi attinenti a vari ambiti sociali, nonché a una indagine delle condizioni che hanno portato al crollo della Repubblica Democratica Tedesca (v. Hirschman, 1992).
Le teorie individualistiche dell'azione in genere vengono sviluppate sul modello dell'interazione tra due persone, Ego e Alter. L'aver limitato l'analisi alle cosiddette 'società a due' ha comportato una carenza soprattutto in quanto il problema della nascita di strutture e istituzioni dai processi di interazione tra due attori è stato trascurato nella ricerca sociologica.
Particolare attenzione merita pertanto la ricerca empirica sui piccoli gruppi che Robert F. Bales iniziò negli anni quaranta nel Laboratory of Social Relations di Harvard e sviluppò in seguito assieme a Parsons e Shils (v. Parsons e altri, 1953). L'approccio di Bales, noto come 'analisi del processo di interazione' (interaction process analysis), ha come oggetto i piccoli gruppi, ossia quei gruppi sociali le cui dimensioni ridotte consentono ai loro membri un rapporto faccia a faccia. Bales si è interessato in particolare ai gruppi che si trovano ad affrontare un compito specifico - ad esempio la formulazione di una decisione in un gruppo di lavoro, la risoluzione di conflitti in un gruppo di bambini che giocano, il conseguimento di un obiettivo della discussione in un gruppo terapeutico. In una serie di osservazioni di laboratorio, Bales studiò i processi di interazione nell'ambito dei piccoli gruppi dal punto di vista della loro funzionalità alla soluzione di problemi. Sono tre, secondo Bales, i problemi di ordine generale che i piccoli gruppi si trovano ad affrontare. Il primo è il cosiddetto problema dell'orientamento: i membri del gruppo devono arrivare a una definizione comune della situazione, in modo da essere in grado di coordinare le proprie attività in vista di un compito collettivo. Il secondo problema è quello della valutazione, ossia della risposta emotiva alla situazione; solo quando i membri del gruppo hanno risolto questo problema di valutazione emotiva possono fondare le loro attività nel processo di risoluzione dei problemi su orientamenti di valore comuni. Il terzo problema, definito da Bales 'problema del controllo', riguarda la capacità dei membri del gruppo di controllare le influenze dell'ambiente sul problema che di volta in volta si deve risolvere. Uno schema differenziato delle categorie dell'azione ha consentito a Bales e ai suoi collaboratori di fornire una valutazione obiettiva e quantitativa dei processi comunicativi che i piccoli gruppi sviluppano nella risoluzione di questi tre problemi generali.
I risultati ottenuti nelle osservazioni di laboratorio sono importanti prima di tutto dal punto di vista descrittivo. Bales ha stabilito che i processi di interazione sono caratterizzati da uno schema ben definito di tipi di azione regolari e qualitativamente simili, e che esiste un collegamento reciproco tra i singoli atti. Queste osservazioni hanno indotto Bales a parlare di sistema dell'azione; per classificare i risultati empirici ottenuti egli ha inoltre introdotto i tre concetti di profilo, di matrice e di movimenti di fase dell'interazione. Il profilo riguarda le uniformità qualitative osservate nei processi interattivi all'interno dei piccoli gruppi. La matrice si riferisce alla frequenza della comunicazione e alle tipiche reti di comunicazione che si stabiliscono in tali gruppi qualora siano impegnati nella soluzione di un problema. I dati osservativi consentono di affermare che il grado di partecipazione dei membri alla soluzione del problema dipende dalla struttura e dalle dimensioni del gruppo. Bales è riuscito a osservare empiricamente il processo di costituzione dei ruoli - ad esempio i ruoli di leader del gruppo, di 'armonizzatore' e di 'specialista' di una determinata mansione -, la nascita di una differenziazione basata sulla divisione del lavoro nonché la formazione di alleanze e di rivalità. Il terzo concetto, quello di movimenti di fase, si riferisce alla successione regolare di fasi nello svolgimento del processo interattivo. I gruppi tendono a risolvere innanzitutto il problema dell'orientamento, poi quello della valutazione e infine quello del controllo; in quest'ultima fase la frequenza delle reazioni emotive (sia positive che negative) aumenta (v. Bales, 1955).
I risultati di questo metodo di analisi, significativi sia sul piano empirico che su quello analitico, hanno però due limiti. In primo luogo Bales ha circoscritto le sue osservazioni a una interazione di tipo funzionale, ossia all'attività di risoluzione di problemi. In secondo luogo la complessità dello schema di categorie elaborato da Bales per l'osservazione empirica dello svolgimento dell'interazione lo ha indotto in seguito a sostituire i protocolli oggettivi con le valutazioni soggettive del processo di interazione espresse dai membri del gruppo. Di conseguenza i risultati empirici ottenuti da Bales non possono essere considerati "l'esito di una analisi sistematica dell'interazione" (v. Anger, 1966, p. 40).
La ricerca sui piccoli gruppi di Bales ha influenzato sotto molti aspetti Parsons. Da un lato questi ha esteso l'ambito empirico dell'analisi del processo di interazione e ha applicato tale metodo al processo di socializzazione (v. Parsons e altri, 1953). Dall'altro i due principali risultati teorici di Bales (il carattere di sistema e quello di processo delle interazioni) hanno indotto Parsons a riformulare in termini nuovi la propria teoria delle variabili strutturali. Per render conto della componente dinamica dei processi di interazione Parsons ha introdotto il concetto di fase; le fasi si distinguono a seconda della combinazione in cui di volta in volta ricorrono le quattro coppie di variabili strutturali. Le quattro fasi - adattamento, raggiungimento dello scopo, integrazione, latenza o mantenimento della struttura del sistema - sono intese da Parsons come 'imperativi funzionali' (v. Parsons e altri, 1953, pp. 179-190) e costituiscono uno sviluppo dei tre problemi generali dell'interazione definiti da Bales.Il carattere sistemico dell'interazione messo in luce dai risultati della ricerca sui piccoli gruppi di Bales ha indotto Parsons - a partire dai Working papers - a definire la propria teoria dell'azione come teoria sistemica. Nella prospettiva sistemica l'unità d'analisi non è più costituita dall'azione isolata tra individui concreti, bensì dalla struttura delle interdipendenze tra azioni regolari e relativamente prolungate, struttura che ha una propria vita relativamente stabile indipendentemente dai singoli individui. Con l'approccio sistemico Parsons ha introdotto una formulazione della teoria dell'azione in termini di strutture e di funzioni, di scambio e di azione reciproca tra diversi sistemi e tra questi e l'ambiente. Per designare il processo di compenetrazione reciproca tra i vari sistemi Parsons ha introdotto il concetto di interpenetrazione, che ha soppiantato quello di interazione soprattutto negli anni sessanta, allorché la teoria sistemica di Parsons era particolarmente in auge. Ora come in passato, tuttavia, molti mettono in dubbio che con la teoria sistemica dell'azione sociale Parsons sia riuscito a risolvere il problema di come i processi di interazione individuali possano dar luogo a strutture sociali e di come queste a loro volta influenzino l'agire individuale.
La teoria della 'scelta razionale' si riallaccia alla tradizione utilitaristica dell'economia politica classica. I suoi esponenti si richiamano inoltre ai fondamenti teorici dei classici della sociologia - ad esempio ai concetti di 'azione logica' di Vilfredo Pareto, di 'razionalità rispetto allo scopo' di Max Weber e di 'agire strumentale' di Talcott Parsons. Secondo la teoria della 'scelta razionale', gli individui percepiscono le situazioni dell'azione sociale come situazioni implicanti una scelta, agendo in esse secondo lo schema della razionalità dei mezzi rispetto ai fini. Per conseguire determinati scopi essi effettuano una valutazione soggettiva dei costi e dei benefici, in base alla quale cercano di far sì che i benefici attesi superino i costi previsti (criterio della massimizzazione). Il concetto di 'razionalità limitata' (bounded rationality) tiene conto degli ostacoli che l'applicazione di questa regola spesso incontra quando gli individui non dispongono di un'informazione completa sulle alternative d'azione, o quando non sono in grado di utilizzare le informazioni in loro possesso per valutare i costi e i benefici.
La teoria della 'scelta razionale' ha dato origine a un dibattito, sotto certi aspetti sterile, sulla contrapposizione tra agire razionale e agire irrazionale. Già i fondatori della sociologia si erano posti il problema di come sia possibile spiegare fenomeni che a un osservatore obiettivo appaiono irrazionali, come la credenza nei miti e nelle pratiche magiche. Ricollegandosi agli studi di sociologia della religione di Durkheim e di Weber, Raymond Boudon (v., 1993, pp. 28-37) ritiene che la funzione di queste credenze e di queste pratiche apparentemente irrazionali sia quella di fornire agli individui dei criteri di azione razionale, anche se tali criteri, valutati secondo parametri obiettivi, non corrispondono a una razionalità dei mezzi rispetto ai fini. La teoria dell'azione razionale si propone pertanto di spiegare anche l'agire irrazionale, ma resta esposta ad altre obiezioni. Anzitutto le è stato imputato di essere una teoria volontaristica, in quanto è fondata sull'assunto che gli individui sono in grado di valutare autonomamente le alternative d'azione. Niklas Luhmann (v., 1968), ad esempio, ha messo in luce i limiti di questo assunto volontaristico e teleologico allorché si tratta di spiegare l'azione all'interno delle organizzazioni. Dal canto suo Hans Joas (v., 1992, pp. 230-234) ha criticato lo schema mezzi-fini che è alla base delle teorie dell'azione razionale anche perché esso presuppone tacitamente una separazione tra conoscenza e azione e astrae dalla corporalità degli attori. Un'altra critica mossa alla teoria dell'azione razionale è che essa non tiene nel debito conto la situazione sociale in cui gli individui agiscono, prendendola in considerazione solo come fattore di impedimento o di aiuto nella realizzazione di un'azione prestabilita. I processi di 'definizione sociale della situazione', di 'interpretazione di senso' e di framing (Goffman) - ossia di applicazione di uno schema interpretativo - vengono trascurati al pari delle azioni abitudinarie o di mera routine. Quando si considera la situazione dell'azione solo come situazione di scelta, si ignorano quei casi empirici in cui la situazione dell'azione vieta normativamente agli individui una scelta razionale tra varie alternative. È questo il caso, ad esempio, dell'obbligo scolastico, che vieta normativamente di decidere se sia più proficuo studiare a casa o frequentare la scuola. Sebbene gli esponenti della teoria della scelta razionale abbiano recepito tali critiche ampliando il concetto di razionalità e introducendo quello di razionalità limitata (v. Esser, 1990), resta senza risposta l'obiezione principale secondo la quale tale teoria si basa su un'immagine dell'uomo come essere puramente razionale e calcolatore.
La teoria dello scambio colma per certi versi le lacune della teoria dell'azione razionale in quanto sottolinea sin dall'inizio le differenze di fondo tra le transazioni economiche e quelle sociali. Anzitutto essa tiene conto del carattere distintivo dell'interazione, cioè la reciprocità, in quanto parte dall'idea che ogni individuo si aspetta dagli altri la stessa tendenza a massimizzare le ricompense. Mentre nei processi di scambio economico le obbligazioni contratte dalle parti sono specificate, nei processi di scambio sociale esse non sono precisabili. Se una prestazione ottenuta sarà ricambiata, in quale momento e in quale forma ciò avverrà e di quale entità sarà l'eventuale contraccambio sono tutti interrogativi in via di principio aperti, ai quali i partners dell'interazione trovano risposta per approssimazione solo nel corso del processo stesso. In secondo luogo, la teoria dello scambio tiene conto delle cosiddette qualità emergenti, ossia del fatto che durante lo scambio possono nascere reciproci impegni sociali a proseguire l'interazione. A differenza delle transazioni economiche, che terminano quando si conclude l'atto di scambio, i processi di scambio sociale possono proseguire anche dopo la conclusione di tale atto, sia perché lo scambio effettuato ha suscitato l'aspettativa di ulteriori contraccambi (creazione di valori), sia perché i beni scambiati hanno lasciato una sorta di 'residuo sociale' di obbligazioni che possono essere estinte solo in interazioni future (nascita di norme). Almin W. Gouldner (v., 1960) ha parlato in proposito di 'norma di reciprocità'. Mediante la distinzione tra processi di scambio primari e secondari (v. Blau, 1968) è possibile tener conto del fatto che gli individui non sono solo creatori di valori e di norme, ma sono anche portatori di sistemi assiologici e normativi culturalmente predefiniti. Riferendosi a questi ultimi gli attori valutano i processi di scambio dal punto di vista della loro legittimità, correttezza e moralità, e possono essere indotti a modificare i processi di scambio primari anche quando hanno ottimizzato da un punto di vista razionale la ricerca di una contropartita. La validità di questo approccio è stata dimostrata - in particolare da Blau (v., 1964) - anche in quegli ambiti sociali in cui meno si sospetterebbe l'esistenza di simili processi di scambio, ad esempio nell'ambito del potere e in quello dell'amore.
Nell'introdurre il concetto di senso Max Weber intendeva ricollegare il problema del perché gli uomini interagiscono al modo in cui i soggetti dell'interazione definiscono l'azione. Alfred Schütz ha sviluppato questa idea weberiana indicando come compito di una scienza sociale fenomenologica quello di analizzare la costituzione del senso nel compimento di un'azione (v. Schütz, 1932; v. Schütz e Luckmann, 1979-1983). A differenza degli esponenti delle teorie del comportamento, dell'azione razionale e dello scambio sociale, i seguaci della fenomenologia e dell'etnometodologia concepiscono l'uomo soprattutto dal punto di vista della sua capacità di attuare interpretazioni soggettive di senso sullo sfondo di un mondo socialmente e culturalmente precostituito. Nel ricostruire e interpretare tali processi di costituzione del senso la fenomenologia si serve del metodo della 'messa fuori parentesi', che consiste in una progressiva 'riduzione' di ciò che si costituisce nella coscienza (v. Luckmann, 1992, p. 25). Sulla base di interpretazioni soggettive di senso così costituite l'attore 'progetta' l'azione e stabilisce un ordine preferenziale degli scopi secondo le cosiddette 'strutture di rilevanza'. Tra la progettazione e la realizzazione di un'azione possono frapporsi vari ostacoli, che inducono l'attore a modificare o a ridefinire ex novo il progetto originario. Uno dei più insigni esponenti dell'odierna teoria fenomenologica dell'azione, Thomas Luckmann, ha sviluppato gli elementi fondamentali dell'analisi di Schütz operando una distinzione tra azione diretta e azione indiretta, tra azione unilaterale e azione reciproca. Si possono così definire quattro tipi di azione che consentono un approccio differenziato all'analisi dell'agire umano, in quanto vengono presi in considerazione anche quei casi empirici visti finora come casi limite dell'agire sociale, ossia i processi mentali di anticipazione o di rappresentazione dell'altro o degli altri (ad esempio la prefigurazione delle reazioni dell'autorità fiscale quando si compila la dichiarazione dei redditi, o l'anticipazione del comportamento dei propri rappresentanti politici al momento del voto). Il tipo dell'azione indiretta-unilaterale comprende anche i casi di azione mediata dai mezzi tecnici (come per esempio il telefono o il fax), che hanno un ruolo sempre più importante nelle società avanzate.
L'interazionismo simbolico, o 'approccio drammaturgico', può essere incluso tra le teorie individualistiche dell'azione, in quanto pone esplicitamente al centro dell'analisi il problema della formazione della personalità individuale all'interno e per mezzo dell'interazione sociale. L'esponente più illustre dell'approccio drammaturgico, Erving Goffman, si riallaccia alla concezione elaborata da Durkheim sulla base dei suoi studi di sociologia della religione. Secondo tale concezione, l'uomo moderno non può sviluppare la coscienza della propria individualità a partire da se stesso, ma solo attraverso processi di interazione con altri individui. Alla formazione di questa "soggettività sociale" (Popitz) contribuiscono determinati tipi di interazione, quelli che Goffman (v., 1967) definisce rituali di 'deferenza' (deference) e di 'contegno' (demeanor). In questa prospettiva Goffman focalizza l'attenzione su modi d'agire quotidiani apparentemente insignificanti (cerimonie di saluto, gesti di cortesia, modi di rivolgersi, atteggiamenti del corpo), e individua proprio in questi atti i veicoli simbolici del reciproco apprezzamento. Alla base di queste azioni simboliche, dirette a sviluppare l'individualità, vi è un contrasto di fondo - già indicato da altri autori come Georg Simmel e Norbert Elias - tra i rituali di deferenza caratterizzati da un avvicinamento agli altri e quelli caratterizzati dalla presa di distanza da essi (v. Elias, 1983; v. Simmel, 1918, specialmente capp. V e IX). Alla luce di questo contrasto risulta difficile padroneggiare le azioni simboliche quotidiane, tanto più quando l'elaborazione di azioni simboliche non è culturalmente stimolata o imposta dal contesto sociale.
La seconda categoria di teorie dell'azione - entrate nel dibattito sociologico con la denominazione fuorviante di 'macroteorie' - pone al centro dell'analisi dell'interazione i prodotti sociali consolidati, o strutture, che da essa e in essa hanno avuto origine. Queste strutture sono viste come condizioni (positive o negative) sotto il cui influsso le motivazioni individuali dei soggetti agenti passano in seconda linea e i soggetti stessi si presentano direttamente nelle vesti di attori sociali. Marx ha espresso questa situazione nel seguente brano, spesso citato: "Gli uomini sono gli autori della propria storia, ma non la plasmano con materiali liberamente scelti, bensì nelle condizioni immediatamente presenti, determinate dai fatti e dalla tradizione" (v. Marx, 1852, p. 9). A seconda della loro natura, queste condizioni hanno una diversa capacità di influenzare il modo di agire degli individui. Distingueremo qui tre tipi di strutture - interessi, idee e istituzioni (v. Lepsius, 1990) - cui corrispondono tre diversi tipi di azione condizionata dalle strutture e tre diverse teorie strutturali dell'azione.
Le teorie dell'azione condizionata dagli interessi partono dal presupposto che l'agire degli individui dipenda dalla loro posizione nel mercato (Weber) o dal loro rapporto con i mezzi di produzione (Marx). Secondo tale teoria, gli individui agiscono come membri di una determinata classe economica, e la loro posizione di classe influisce non solo sul tipo di soggetti con cui essi interagiscono, ma anche sul modo in cui agiscono e sul carattere della loro coscienza sociale. Ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte Marx ha fornito, con la sua analisi dell'atteggiamento politico dei piccoli contadini francesi, il modello di questo tipo di teorie dell'azione, mostrando come il modo di produzione impronti il 'modo di scambio' e questo a sua volta influenzi le convinzioni e le illusioni politiche. L'analisi storica di Marx si basa sull'ipotesi che i modi di produzione isolati, non consentendo alcuna interazione sociale, portino gli individui a modi di agire che sono in contrasto con i loro interessi economici. Nelle analisi storiche marxiane il modo in cui la posizione di classe influisce sulla formazione degli interessi e della coscienza sociale, e questa a sua volta sulla logica delle azioni, costituisce un processo complesso, che può essere ricostruito solo sullo sfondo di uno specifico contesto storico. Una teoria dell'azione economica ispirata a un marxismo non scolastico non può limitarsi a stabilire un nesso causale tra la posizione dell'attore nel processo produttivo e il tipo di azione sociale, ma deve piuttosto individuare, in un dato contesto storico, quali siano le complesse interrelazioni tra appartenenza di classe, formazione degli interessi e formazione della coscienza sociale, nonché le possibilità di affermarsi degli orientamenti dell'azione che ne derivano.
"Non le idee, ma gli interessi (materiali e ideali) dominano direttamente l'agire umano; tuttavia molto spesso le 'immagini del mondo' plasmate dalle 'idee' hanno determinato su quali binari la dinamica degli interessi dovesse istradare l'azione". Questo noto brano di Max Weber (v., 1920, p. 252) mostra quanto sia complessa la sua concezione sociologica della cultura, che non può essere fraintesa come 'antitesi idealistica' della teoria marxiana dell'azione economica. Il nesso tra idee e interessi postulato da Weber nei suoi scritti di sociologia della religione è stato riformulato da M. Rainer Lepsius nei termini di una teoria dell'azione. Secondo Lepsius (v., 1990, pp. 31-43), una teoria socioculturale dell'azione deve rispondere ad almeno sei requisiti. Prima di tutto, essa non deve limitarsi ad affermare che l'azione sociale può essere guidata anche da idee e valori, ma deve precisare che solo le idee che si sono cristallizzate in 'immagini del mondo' e hanno assunto una forma dogmatica o giuridica ben definita (come i principî fondamentali della fede o del diritto) possono improntare l'azione sociale; questa viene pertanto ricollegata alla credenza in sistemi codificati di valori e di norme. In secondo luogo, le analisi socioculturali dell'azione devono dimostrare la rilevanza sociale dei sistemi di idee; di fronte a un agire riconoscibile e osservabile, ad esempio una condotta di vita ascetica, occorre dimostrare che esso può essere attribuito all'orientamento verso un determinato sistema di idee, come per esempio all'etica protestante (problematica dell'attribuzione). In terzo luogo, va messo in luce che questo tipo di azione condizionata dalle idee è distinguibile da altri tipi di azione; i vari sistemi di idee e i tipi di agire che ne derivano devono essere cognitivamente isolabili gli uni dagli altri. Il quarto requisito di una teoria socioculturale dell'azione consiste nell'identificare i gruppi guida che rappresentano e interpretano il sistema di idee e che puniscono o premiano l'azione dei seguaci orientata a esso (come nel caso del controllo dei capi di una setta sui suoi membri). I gruppi a capo di un sistema di idee hanno il compito di regolare normativamente la conformità del comportamento a tale sistema e di rafforzare l'adesione a esso tra i suoi seguaci. Si può affermare che un sistema di idee è rilevante per l'azione sociale solo quando le deviazioni vengono punite e la conformità premiata. Il quinto requisito consiste quindi nell'accertare la rilevanza di un'idea ai fini dell'azione. Infine, una teoria socioculturale dell'azione deve stabilire quali siano le conseguenze (primarie e secondarie) che un agire condizionato dalle idee ha sui singoli contesti d'azione, in quale rapporto esso sia con altri tipi d'azione e se venga in conflitto con essi, li rafforzi o li indebolisca. Ad esempio la nota tesi di Max Weber sull'affinità tra l'etica protestante e lo spirito del capitalismo afferma che la condotta di vita ascetica orientata verso l'etica protestante ha rafforzato lo 'spirito del capitalismo' indirizzando così l'agire economico verso i criteri di razionalità propri del capitalismo. L'agire condizionato dagli interessi e quello condizionato dalle idee possono dunque rafforzarsi a vicenda, ma possono anche ostacolarsi.
La teoria dell'azione istituzionalizzata è ancora agli inizi, ma il suo sviluppo è tanto più importante quanto più si va affermando l'idea - largamente diffusa anche se non del tutto corretta - che nelle società moderne l'agire individuale è sempre più limitato e compromesso dalle istituzioni. In realtà queste ultime, analogamente alle strutture sociali, vanno viste come il risultato di processi di interazione regolari e reiterati. Se in determinati ambiti sociali si sono formati criteri e regole d'azione prevedibili e affidabili, tali criteri e regole influenzano l'agire individuale non solo per limitarlo e comprimerlo, ma anche per stimolarlo e svilupparlo. Dire che le istituzioni stabiliscono i criteri di orientamento dell'azione in un dato ambito sociale equivale a dire, ad esempio, che nelle scienze si è affermato il criterio dell'obiettività, nell'economia quello della redditività e calcolabilità e nella politica quello dell'acquisizione del potere attraverso la volontà della maggioranza. 'Azione condizionata dalle istituzioni' significa pertanto azione orientata al criterio di razionalità proprio di ciascuna istituzione: orientamento che è 'razionale' in quanto l'inosservanza dei criteri istituzionalmente fissati implica dei costi, come avviene ad esempio quando nell'economia capitalistica si agisce secondo criteri caritativi anziché secondo il criterio della redditività.
Questa concezione dei criteri di razionalità differenziati a seconda delle varie istituzioni è collegabile al concetto di 'fatto sociale', introdotto da Durkheim per indicare che la realtà sociale può contrapporsi agli individui con tanta forza da indurli a sottomettersi a essa e a limitare la propria libertà d'azione. Nella storia delle scienze sociali questo aspetto coercitivo delle istituzioni è stato però indebitamente accentuato. Per correggere tale distorsione è importante ricordare che nei suoi scritti di sociologia della religione Durkheim ha messo in risalto il carattere socialmente produttivo dei fatti sociali. Nelle situazioni in cui le attività di gruppo sono particolarmente intense sul piano cognitivo e affettivo possono aprirsi nuovi spazi per l'azione e possono formarsi nuovi criteri d'orientamento, che gli individui da soli non avrebbero scoperto; in queste situazioni di 'effervescenza' si affermano nuove concezioni etiche, nascono nuovi ideali e desideri e nuovi impegni per il conseguimento di scopi comuni. Questa teoria durkheimiana che mette l'accento sulla nascita di obbligazioni spontanee e sulla creazione di valori morali è altrettanto importante per le teorie dell'azione condizionata dalle istituzioni quanto l'altra sua tesi, sinora assai più considerata, relativa al carattere restrittivo, se non coercitivo, delle norme e dei valori istituzionalizzati. In ogni caso l'agire orientato verso le istituzioni - sia che ampli i margini di manovra dell'azione individuale, sia che li riduca - libera l'azione sociale dall'arbitrio dei singoli e in tal senso libera anche questi ultimi dall'onere delle scelte e delle decisioni.
Un compito particolare delle teorie in questione è quello di analizzare i problemi sociali derivanti dalla differenziazione delle istituzioni, fenomeno che implica un analogo differenziarsi dei criteri di razionalità dell'agire. Aumenta allora la probabilità che questi criteri vengano in conflitto tra loro, e si crea un potenziale di dinamica sociale (v. Lepsius, 1990, pp. 53-62). Ad esempio è tipico delle società altamente differenziate l'insorgere di un conflitto tra l'agire economico - orientato al criterio della redditività - e l'agire politico - orientato al criterio dell'acquisizione e conservazione del potere, nonché tra quest'ultimo e l'agire scientifico, orientato al criterio dell'obiettività e a quello della neutralità. In questo contesto meritano una rinnovata attenzione i dilemmi d'azione di Parsons. Quanto più uno stesso attore è chiamato a risolvere i conflitti che si presentano, tanto più è importante che vengano istituzionalizzati dei metodi per risolvere i conflitti tra le diverse istituzioni. Queste soluzioni regolate rappresentano in definitiva uno sgravio sia per i singoli che per l'intera compagine sociale, perché in tal modo è possibile orientarsi, anziché su soluzioni trovate caso per caso, su metodi ben definiti di superamento dei conflitti (v. Luckmann, 1992, pp. 125-159).Infine, le teorie dell'azione condizionata dalle istituzioni non si occupano solo della regolarità e prevedibilità dell'azione sociale, ma anche della dinamica istituzionale. I conflitti tra istituzioni possono infatti essere regolati da procedure prestabilite solo entro certi limiti; la dinamica da essi originata può anche portare all'abbandono delle regole abituali e all'introduzione di nuove regole. Tra l'agire istituzionale e quello innovativo esiste un rapporto di continua tensione; l'analisi delle conseguenze che ne derivano per i singoli individui e per le istituzioni è uno dei principali oggetti d'indagine delle teorie dell'agire istituzionale.
La fuorviante controversia sui vantaggi e sugli svantaggi delle cosiddette 'microteorie' e 'macroteorie' dell'azione ha inciso notevolmente sul dibattito teorico degli anni ottanta e novanta, nel quale è emerso lo sforzo di trovare una 'terza via', ossia una teoria dell'azione capace di integrare i due approcci. Franco Crespi (v., 1989) ha proposto ad esempio una mediazione tra agire individuale e agire strutturale attraverso il concetto di potere. Un nuovo impulso al dibattito è stato dato da Jürgen Habermas (v., 1981), che con la sua teoria dell'agire comunicativo ha posto l'accento sulle capacità discorsive degli individui. Hans Joas (v., 1992) ha richiamato l'attenzione sulla dimensione creativa dell'azione sociale; tenendo conto di tale dimensione, a suo avviso, è possibile superare sia l'immagine dell'individuo come essere puramente razionale e calcolatore, sia quella di un essere che agisce 'sotto il controllo' di norme. Un contributo particolarmente importante ai recenti sviluppi teorici è stato dato dalla teoria delle strutturazioni di Anthony Giddens (v., 1979 e 1990), come emerge già dalla terminologia da lui introdotta per sottolineare la propria concezione dei processi d'azione. Egli propone ad esempio di parlare, anziché di individui o di persone che agiscono, di 'agenti', capaci di controllare riflessivamente i propri processi d'azione attraverso la 'conoscenza tecnica' delle regole delle azioni quotidiane. Per 'strutture' Giddens intende un siffatto patrimonio di conoscenze preesistenti, nonché le risorse materiali necessarie all'agire. Nell'azione e per mezzo di essa gli agenti produrrebbero e riprodurrebbero le condizioni strutturali in cui essi agiscono. Giddens introduce il concetto di 'strutturazione' per designare il processo reciproco attraverso il quale la vita sociale viene costantemente prodotta e riprodotta. Tale concetto è stato criticato da Margaret Archer (v., 1990, pp. 77-78) soprattutto perché esso cancellerebbe le differenze tra i vari livelli di determinazione dell'azione sociale e impedirebbe di stabilire quando e in quali condizioni l'azione è rigidamente determinata e quando invece può svolgersi secondo la volontà del soggetto agente. Fra coloro che hanno inteso superare la contrapposizione fuorviante tra approccio macroanalitico e microanalitico va menzionato infine Piotr Sztompka (v., 1990), il quale ha elaborato nell'ambito dell'analisi delle rivoluzioni sociali un modello di 'divenire sociale' (social becoming) con il quale ha cercato di cogliere il condizionamento reciproco tra individui agenti e strutture.
Il valore scientifico di queste recenti teorie dell'azione (e di altre che non sono state qui menzionate) è fuori discussione. Resta peraltro aperto il problema se esse siano in grado di porre fine all'infruttuosa controversia tra teorie dell'azione microanalitiche e macroanalitiche. Se il punto di partenza di tale controversia è fuorviante, altrettanto problematici sono i vari tentativi di trovare una 'terza via' integrando le teorie individualistiche e quelle strutturali dell'azione attraverso i vari concetti di potere, di comunicazione, di creatività, di strutturazione o di altri ancora. La validità delle teorie sociologiche dell'azione non può essere valutata in base alla loro capacità di integrare in un unico costrutto concettuale tutti i possibili aspetti sia teorici che empirici dell'interazione sociale, bensì in base alla capacità di tener conto dei caratteri specifici dell'interazione che sono, come si è visto, la reciprocità e la produttività sociale. Solo allora potrà porsi la questione dell'utilità di queste teorie, che dovrà essere comprovata dalla loro buona riuscita come strumenti per descrivere analiticamente, interpretare o spiegare determinati problemi empirici.
(V. anche Azione sociale; Comunicazione; Etnometodologia; Gruppi: sociologia; Gruppi, analisi dei; Identità personale e collettiva; Individualismo metodologico; Interazionismo simbolico; Scambio sociale).
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