Identita personale e collettiva
di Loredana Sciolla
Il termine 'identità', che deriva dal latino idem, lo stesso, è stato introdotto molto recentemente nelle scienze sociali. Dalle sue prime apparizioni, all'inizio degli anni cinquanta, esso ha però subito un processo rapido e ininterrotto di diffusione che, tuttavia, non è sempre andato di pari passo con l'approfondimento teorico e concettuale. Anche in ambito scientifico se ne è spesso fatto un uso generico o allusivo, come se il termine avesse un significato così evidente e ovvio da non richiedere ulteriori specificazioni. Ciò è vero soprattutto per la fase del suo primo emergere, quando viene impiegato nelle discussioni sull'immigrazione, sui problemi di sradicamento che questa comporta, o sulla problematicità dell'identità per l'individuo in una società in rapido mutamento come quella americana. In molti casi l'uso dei termini 'identità' o 'crisi di identità', mentre indubbiamente rivela un reale disagio del ricercatore di fronte a fenomeni percepiti come socialmente rilevanti, non apporta alcun contributo sul piano analitico, in quanto si limita a riproporre, in maniera più o meno consapevole, il significato che tali termini assumono nel linguaggio comune, dove l'identità è perlopiù intesa come unità della persona, come entità unica e peculiare, in questo senso intercambiabile con l'idea di individuo. In questa sede il termine sarà preso in considerazione come concetto analitico, per la sua capacità di suggerire nuove prospettive teoriche e di gettar luce su fatti e fenomeni in precedenza trascurati.
Una volta eliminato l'equivoco di un impiego generico del termine 'identità', ci si trova comunque di fronte a una pluralità assai articolata di prospettive e di approcci. Il tema dell'identità, infatti, si colloca non solo al crocevia delle scienze sociali, ma, si potrebbe dire con Claude Lévi-Strauss (v., 1977, p. 9), a più crocevia, in quanto interessa praticamente tutte le discipline. Al fine di orientarsi in quello che può apparire a prima vista come un labirinto, è necessario individuare a grandi linee ciò che accomuna gli approcci delle principali scienze sociali, rimandando alle pagine successive (v. capp. 4 e 5) le pur importanti differenze interpretative che sussistono al loro interno.
Il primo aspetto comune concerne il modo di concepire la natura dell'identità, ossia il significato da attribuire alla consapevolezza della propria esistenza continuativa nel tempo. Può risultare utile a questo riguardo riprendere la distinzione di Derek Parfit (v., 1984; tr. it., p. 271) tra concezioni non riduzionistiche o semplici, che intendono l'identità come un'entità o sostanza spirituale non scomponibile, e concezioni riduzionistiche o complesse, che invece attribuiscono la continuità temporale dell'identità a collegamenti tra 'eventi' fisici e mentali, in particolare alla memoria. Le scienze sociali adottano quest'ultima concezione, perlomeno in quanto rifiutano un'impostazione dell'identità come unità-totalità indifferenziata.
Il secondo aspetto riguarda il processo attraverso cui si forma tale autoconsapevolezza di integrazione temporale. Le scienze sociali, nel loro complesso, si focalizzano sul carattere relazionale, intersoggettivo, dell'identità e analizzano i fattori sociali e le dinamiche interattive che sono alla base della sua genesi e del suo mantenimento. Questo secondo aspetto distingue l'approccio all'identità di scienze sociali come la sociologia, l'antropologia, la psicologia sociale dall'uso sempre più diffuso della nozione di identità da parte della psicanalisi. Se Sigmund Freud aveva usato il termine identità una sola volta e in maniera del tutto casuale a proposito dell''identità ebraica' (v. Erikson, 1968; tr. it., p. 22), la letteratura psicanalitica di matrice freudiana, soprattutto dalla fine degli anni cinquanta, ha mostrato un crescente interesse analitico per l'identità, dovuto principalmente alla necessità di affrontare le sempre più numerose patologie caratterizzate dall'indebolimento o dalla perdita del senso di integrità e di coesione del Sé. L'approccio clinico (v. Jacobson, 1964) rimane centrato sull'individuo e intende la formazione dell'identità (concepita come un'entità altamente differenziata, ma permanente e coerente) come un processo intrapsichico. Alcuni psicanalisti, tuttavia, tra cui si segnala Erik Erikson, hanno rifiutato un approccio focalizzato solo sui fattori psichici e hanno insistito sull'interdipendenza tra organizzazione psichica interna e struttura sociale, tra psicologia e storia, spostando il centro di interesse teorico di psicanalisi e psichiatria dall'Es all'Ego, dai meccanismi istintuali di difesa ai meccanismi di adattamento, dallo stadio infantile a quelli successivi, in particolare l'adolescenza e la giovinezza.
L'insistenza da parte delle scienze sociali sulla variabilità storica e sociale dell'identità solleva due questioni. La prima riguarda la specificità della categoria 'identità' rispetto ad altre categorie affini sul piano semantico, in particolare i concetti di 'carattere sociale' e di 'personalità di base' che, elaborati negli anni trenta in un contesto interdisciplinare da psicanalisti come Erich Fromm e Abram Kardiner, e antropologi come Ralph Linton, Ruth Benedict e Margaret Mead, ebbero una notevole influenza, negli anni successivi, su sociologi come David Riesman e, in parte, H. Gerth e C. Wright Mills, e furono inoltre all'origine della successiva e controversa formulazione della nozione di 'carattere nazionale'. Anche se con leggere differenze di accento nei diversi autori, che possono essere tralasciate in questa sede, tali concetti mettono in rilievo l'esistenza di tratti psicologici tipici dei membri di differenti società, dovuti all'influenza che queste esercitano nel plasmare e condizionare la personalità dei singoli individui che ne fanno parte.
Sul piano teorico sia le nozioni di carattere sociale e di personalità di base sia quella di identità affrontano lo stesso problema classico del rapporto tra individuo e società, tra personalità individuale e struttura sociale. Diversa è tuttavia la soluzione che a questo problema cercano di offrire. I primi due concetti propongono una concezione disgiuntiva dei due termini e una soluzione deterministica del problema del loro rapporto (la società modella secondo le proprie esigenze le strutture psichiche e disposizionali dei suoi membri). Con l'introduzione del termine identità le scienze sociali intendono stabilire un nuovo nesso concettuale tra i due elementi del problema, capace di mettere a fuoco l'interdipendenza tra la dimensione soggettiva dell'azione sociale e quella oggettiva (struttura sociale e culturale), cercando di superare la visione tradizionalmente antinomica del rapporto individuo-società. Il concetto di identità, in altri termini, è perlopiù usato per descrivere il legame esistente tra problematica macro, che riguarda il livello di complessità del sistema sociale, e problematica micro, che riguarda il livello di complessità dell'attore sociale e del processo decisionale.
Concepire l'identità come una costruzione sociale e un prodotto storico pone anche un secondo problema di tipo epistemologico, che emerge con forza da studi antropologici recenti (v. Lévi-Strauss, 1977; v. Heelas e Lock, 1981; v. La Fontaine, 1991⁵). Alcuni di essi, che hanno un precedente illustre nello studio compiuto da Marcel Mauss alla fine degli anni trenta sull'evoluzione storica della categoria di persona (v. Mauss, 1938), mettono in risalto la grande eterogeneità che contraddistingue le rappresentazioni dell'identità presso società non occidentali. In alcune società africane, ad esempio, la nozione di persona sembra avere un carattere composito, frammentato in una molteplicità di elementi, difficilmente riconducibili a una sintesi.
Il problema epistemologico riguarda la possibilità di considerare la nozione di identità come una categoria fondamentale, capace di mettere a fuoco processi transculturali, presenti in ogni comunità e società umana, o di considerarla viceversa un costrutto storicamente variabile, irriducibile a elementi comuni. Nonostante i pareri, a questo proposito, siano tutt'altro che omogenei, credo non sia contraddittorio riconoscere il carattere storico-culturale della nozione di identità e nello stesso tempo affermare la sua vocazione universale. Ciò è possibile se si sostiene che il concetto di identità mette a fuoco un nucleo invariante, costitutivo dell'esistenza sociale in quanto tale, che tuttavia viene declinato in maniera diversa dalle diverse società e culture. Ad esempio, per quanto alcune culture concepiscano l'identità personale come costituita da una molteplicità di elementi eterogenei, non arrivano a dissolverla, ma si avvalgono di interpretazioni diverse del principio di integrazione temporale. Tutte le società, inoltre, stabiliscono diversi livelli di identificazione-contrapposizione tra 'noi' e 'gli altri', anche se non necessariamente negli stessi termini o in termini affini.
Quando le scienze sociali, in particolare la sociologia e la psicologia sociale, hanno rivolto l'attenzione alla problematica dell'identità si sono ricollegate a quelle teorie che per prime avevano cercato di ricondurre fenomeni tipicamente individuali, come la concezione di sé e la mente, a processi di tipo sociale, contribuendo così ad avviare su basi scientifiche un approccio psicosociologico integrato. Sono stati due studiosi americani a elaborare, all'inizio del XX secolo, un approccio sociale a quella specifica capacità di autoriflessione che essi non chiamano identità, ma 'Sé'. Si tratta di Charles Horton Cooley (v., 1902) e George Herbert Mead (v., 1934), entrambi vicini al pragmatismo filosofico e annoverati tra i predecessori di quel programma teorico e di ricerca denominato 'interazionismo simbolico'.
Fin dal 1902 Cooley sembra aver già ben chiaro che una teoria sociale del Sé comporta un nuovo modo di guardare al rapporto tra l'individuale e il sociale, che non li consideri come 'entità' distinte, ma come due 'facce' dello stesso processo. Questa prospettiva intende evitare i rischi di due forme opposte di determinismo: il determinismo biologico, secondo cui l'individuo è spinto da forze disposizionali interne, e il determinismo culturale, secondo cui risulta plasmato da forze esterne. Cooley utilizza l'immagine del "looking-glass self" ("Sé specchio") per richiamare l'attenzione sul fatto che l'individuo non può concepire un'idea di sé senza fare implicitamente riferimento ad altri. L'immagine del "Sé specchio" è suggestiva, ma in parte fuorviante anche rispetto agli stessi processi studiati da Cooley. Il modo in cui il soggetto forma la propria autorappresentazione non è da intendersi come un mero riflesso dell'opinione dei gruppi sociali con cui egli entra successivamente in contatto: vi concorrono infatti diversi meccanismi, come il modo in cui l'individuo immagina di apparire al gruppo, la percezione del giudizio sulla propria apparenza, la reazione in termini di rafforzamento o di indebolimento della stima di sé.
Cooley, tuttavia, non esplora a fondo i processi specifici attraverso cui il Sé si forma, né ricorre a descrizioni analitiche di quest'ultimo. La svolta decisiva in direzione di una teoria integralmente sociale del Sé si ha con Mead nello studio pubblicato postumo Mind, self and society. L'aspetto innovativo dell'approccio di Mead non va cercato solo nella definizione del Sé, la cui caratteristica distintiva rispetto all'organismo biologico consiste nella riflessività, ossia nella possibilità di "essere al contempo soggetto e oggetto" (v. Mead, 1934; tr. it., p. 154), ma risulta anche in altri due punti. Il primo consiste nella sua peculiare concezione della natura di tale capacità autoriflessiva, tradizionalmente definita come 'coscienza': essa non è più intesa come una sorta di sostanza spirituale o di 'anima', di cui l'essere umano sarebbe misteriosamente dotato a differenza degli animali inferiori, ma come un prodotto sociale ed evolutivo. Non si tratta solo di una critica all'idea metafisica dell'autocoscienza, ma anche di un superamento di quelle concezioni filosofiche idealistiche che, pur mettendo in risalto i condizionamenti sociali del Sé, continuano a considerarlo pre-esistente rispetto a questi. Per Mead, invece, il Sé è integralmente e costitutivamente sociale, nel senso che nelle molteplici relazioni sociali in cui l'individuo è coinvolto si costituisce interamente la sua capacità di autorappresentarsi come centro di elaborazione autonoma.
Il secondo aspetto innovativo riguarda l'individuazione del meccanismo specifico che rende possibile il costituirsi di questa capacità. Non è attraverso il ripiegamento soggettivo su se stessi che si 'accede' a una supposta interiorità, ma attraverso l'interazione mediata linguisticamente. È dunque in 'modo indiretto' che l'individuo può diventare oggetto a se stesso, partecipando alle esperienze dei propri simili, "assumendo gli atteggiamenti che nei suoi confronti tengono gli altri individui che con lui convivono all'interno di uno stesso ambiente sociale, o nell'ambito di uno stesso contesto di esperienza e comportamento" (v. Mead, 1934; tr. it., p. 156). Quando l'individuo è in grado di assumere il ruolo degli altri diventa anche capace di guardare a se stesso dal loro punto di vista, di iniziare così una conversazione 'interiore'. L'importanza cruciale della comunicazione linguistica risiede nel fatto che essa veicola 'simboli significativi'.
A differenza dei gesti o segni naturali, come il richiamo della chioccia o l'ululare del lupo, che evocano invariabilmente la stessa risposta sia in chi stimola sia in chi osserva, i simboli significativi implicano un elemento interpretativo: per rispondere a un simbolo bisogna aver imparato a evocare in se stessi il significato che esso assume per l'altro con cui si comunica. La concezione del Sé proposta da Mead, se per un verso segna una svolta rispetto al pensiero metafisico, alle filosofie del soggetto e alla psicologia introspezionista, in una direzione da Mead stesso definita "comportamentista", per un altro verso si distingue dal comportamentismo classico elaborato da J.B. Watson e da B.F. Skinner proprio per l'importanza attribuita ai processi interni all'attore sociale nello svolgimento dell'interazione e nella costruzione attiva del mondo sociale.Sul piano teorico il suo distacco dal comportamentismo, ma anche da autori come Cooley, che avevano precedentemente focalizzato l'attenzione sul Sé, si evidenzia nello sforzo di dare una descrizione analitica di tali processi interni attraverso la scomposizione del Sé in due elementi principali: l''io' e il 'me'.
La concezione dell'attore di Mead si differenzia, inoltre, dall'approccio utilitarista all'azione sociale per il ruolo centrale attribuito alla ricostruzione dei processi di socializzazione e all'analisi della temporalità della coscienza. Per quanto riguarda la descrizione analitica del Sé, che risulterà molto importante ancorché spesso fraintesa dalla successiva analisi dell'identità, le due componenti sono da intendersi in primo luogo nel loro comune uso grammaticale, secondo cui il termine 'io' si riferisce al soggetto di un enunciato mentre il termine 'me' al complemento oggetto. Sarebbe tuttavia errato pensare al me come a ciò che appare all'io quando si autoesamina. Conformemente alla sua impostazione integralmente sociale del Sé, l'io - definito in maniera ambivalente a volte come coscienza, a volte come spontaneità istintuale - non è mai considerato come un dato immediato e interiore ma sempre come reazione al me, che rappresenta l'assunzione da parte dell'individuo degli atteggiamenti degli altri. È chiaro, da questo punto di vista, che l'io di Mead non ha nulla a che vedere con l'Ego freudiano. Questa distinzione, inoltre, ha un carattere solo concettuale perché, come precisa Mead, l'io e il me sono, nell'esperienza dell'individuo, strettamente interrelati, indicano le fasi di uno stesso processo in cui egli continuamente adatta in anticipo se stesso alla situazione e al contesto sociale di appartenenza (il me), reagendo tuttavia a essi in maniera critica o di adesione (in base all'io). Mead (v., 1934; tr. it., p. 188) definisce l'io una "figura storica" perché viene esperito solo nella memoria.
La possibilità che il Sé diventi un centro di autoregolazione del comportamento, in grado di integrare le diverse componenti, dipende però dall'introduzione di un ulteriore concetto: quello di "altro generalizzato", che è definito da Mead come l'assunzione dell'atteggiamento dell'intera comunità. Se con il me l'individuo assume semplicemente l'atteggiamento che gli altri, entro situazioni specifiche, tengono nei suoi confronti, con l'altro generalizzato egli diventa capace di integrare i diversi me entro un Sé unitario. Con l'elaborazione di questo concetto fondamentale Mead sembra introdurre un'ulteriore dimensione: le aspettative normative più generalizzanti che solo la partecipazione a un gruppo sociale organizzato (non necessariamente la società nel suo insieme) può suscitare. Le componenti del Sé, che sono state descritte analiticamente, vengono illustrate da Mead anche sul piano genetico, come esito del processo di socializzazione, studiato soprattutto nella fase dell'infanzia e con particolare riferimento alla differenza tra il 'gioco puro e semplice' e il 'gioco organizzato'.
I percorsi che, dalla metà degli anni cinquanta, configurano la 'mappa' del concetto di identità nelle scienze sociali sono, come già si è detto, molteplici in quanto coinvolgono la psicanalisi neofreudiana, la psicologia sociale, l'antropologia, la sociologia, e il loro intreccio e reciproco rimando sono tali da renderne ardua una ricostruzione storica (v. Gleason, 1983). Esiste però una figura chiave nella storia del concetto di identità nelle scienze sociali, che detiene una sorta di primogenitura e ha contribuito in maniera fondamentale alla sua elaborazione e diffusione, anche se dalla fine degli anni sessanta ha perso molto della originaria influenza. Si tratta di Erik Erikson, psicanalista neofreudiano, che ha per primo richiamato l'attenzione sul concetto di identità dell'io (v. Erikson, 1950).
La notevole forza di attrazione nei confronti delle discipline sociologiche, antropologiche e psicosociologiche posseduta da questo concetto dipende dalla netta impostazione storica e sociale che Erikson gli ha conferito. Approfondendo un'idea solo abbozzata dalla teoria freudiana, Erikson mette in luce che lo sviluppo del senso soggettivo di continuità personale dipende in larga misura dalle possibilità dell'individuo di trovare riconoscimento in comunità e gruppi sociali più estesi.
La valutazione e l'identificazione da parte degli altri sono dunque alla base dell'autoriconoscimento e della capacità di integrare e ordinare gerarchicamente la molteplicità dei ruoli. Le novità che il concetto di identità introduce, rispetto alla prospettiva freudiana, sono numerose. Tre sono particolarmente importanti. La prima segnala l'insufficienza del concetto freudiano di identificazione, che in Freud si limita a designare i processi inconsci di assimilazione di oggetti e persone durante l'infanzia. L'identità "comincia dove termina l'utilità dell'identificazione e nasce dal ripudio selettivo e dalla reciproca assimilazione delle identificazioni infantili e del loro assorbimento in una nuova configurazione. Questa, a sua volta, dipende dal processo con il quale una società (spesso attraverso vari gruppi sociali) identifica il giovane individuo" (v. Erikson, 1968; tr. it., p. 188).
La seconda novità consiste nel considerare il processo di categorizzazione sociale sotto un duplice profilo: come definizione oggettiva, esterna e vincolante per l'individuo, e come autopercezione, soggettiva e modificabile nel corso dell'interazione sociale. La terza novità infine deriva direttamente dalle prime due e riguarda le situazioni e i fenomeni sociali che il concetto di identità contribuisce a chiarire. L'interesse della ricerca si estende a un più ampio arco del ciclo di vita dell'individuo, in particolare all'adolescenza, di cui si mettono in risalto le discontinuità rispetto alle identificazioni precedenti. Inoltre l'analisi di Erikson rileva la complementarità dello studio del ciclo di vita individuale e di quello della collocazione storica di ogni configurazione di identità. Troviamo un esempio dell'efficacia euristica di questa prospettiva nell'analisi che Erikson compie della gioventù nelle società occidentali contemporanee: essa viene intesa come una nuova fase della vita, contrassegnata da una 'moratoria psicosociale', un periodo 'istituzionalizzato' di esplorazione e sperimentazione personale di ruoli e stili di vita, privo di punti di riferimento precisi, e proprio per questo contrassegnato da sentimenti di incertezza, da forte ambivalenza e dai conseguenti rischi di confusione e di crisi di identità (v. Erikson, 1968).
Con queste premesse non è affatto sorprendente che il concetto di identità elaborato da Erikson in ambito clinico abbia costituito un canale importante attraverso cui esso è stato introdotto sul terreno sociologico e psicosociologico. Nell'ambito della Scuola di Chicago, all'interno della tradizione interazionista, il termine 'identità' è stato subito recepito e ricollegato, con alcune significative modificazioni e anche con una certa disinvoltura non priva di ambiguità teoriche, alla teoria sociale del Sé di Cooley e, soprattutto, di Mead. La categoria di identità nella versione di Erikson aveva il merito, vista dall'ottica della scuola interazionista, di offrire un'alternativa all'approccio deterministico e statico alla teoria del ruolo, che era prevalente nell'opera pionieristica dell'antropologo culturale Ralph Linton e, più in generale, nello strutturalfunzionalismo, dove si finiva per stabilire una tendenziale congruenza tra aspettative di ruolo e comportamenti effettivi di ruolo. D'altro canto la teoria del Sé sociale di Mead, che dava spazio agli aspetti interpretativi del processo di assunzione dei ruoli sociali, presentava una lacuna connessa alla sua peculiare impostazione comportamentista. In particolare, non riusciva a render conto di tutti quei casi, sempre più frequenti nelle società complesse, in cui un individuo si trova di fronte ad alternative e deve scegliere tra definizioni contrastanti del comportamento appropriato, né spiegava perché tra tutti i ruoli appresi nel corso della socializzazione l'attore sociale ne selezioni solo alcuni.
L'influenza implicita della prospettiva di Erikson sulla scuola interazionista in sociologia è già chiara in un importante articolo di Nelson Foote, in cui l'autore sostiene che per colmare questa lacuna della teoria del ruolo è necessario prestare maggiore attenzione agli aspetti motivazionali. Egli considera centrale a questo fine il concetto di identificazione che singolarmente usa al posto di quello di identità, ma con un intento critico nei confronti di Freud analogo a quello espresso da Erikson. Con il termine identificazione intende, infatti, "l'approvazione di e il coinvolgimento in una particolare identità o serie di identità" da parte dell'individuo (v. Foote, 1951, p. 17). Viene messo in risalto, come già in Erikson, il ruolo che il riconoscimento e la ratifica da parte di altri significativi assumono nello sviluppo della concezione di sé. Tuttavia il concetto di identificazione, in questa accezione, si distingue dalla prospettiva di Freud e da quella dello stesso Erikson per l'importanza attribuita al linguaggio. Interessato a elaborare una teoria sociologica della motivazione e a evitare il ricorso a spiegazioni in termini di 'predisposizioni' e tratti di personalità, Foote è portato ad accentuare, sulla scorta di alcuni contributi decisamente innovativi di K. Burke (v., 1945) e di C.W. Mills (v., 1940), il potere insito nel meccanismo sociale di "dare nomi", di attribuire le persone a categorie.
L'accettazione del nome, ossia l'assegnazione a una determinata categoria da parte degli altri, trasforma la mera appartenenza a gruppi sociali e l'assunzione di ruolo in elementi della concezione di sé, che non è dunque intesa staticamente ma come un processo di costruzione e realizzazione.
Se l'influenza del concetto di identità coniato da Erikson diventa esplicita e generalizzata tra i numerosi sociologi e psicologi sociali che, negli anni cinquanta e nei primi anni sessanta, hanno contribuito a creare quel variegato programma teorico e di ricerca definito 'interazionismo simbolico', è proprio perché esso consente di risolvere il problema della motivazione dell'azione senza ricorrere al concetto di predisposizione. La valorizzazione cognitiva e affettiva della collocazione entro categorie sociali, nella duplice dimensione di definizione esterna al soggetto e di autopercezione, conferisce secondo Gregory P. Stone (v., 1962, p. 93) specificità al concetto di identità rispetto a quello di self. Senza dubbio il concetto di identità, così inteso, riusciva a gettare nuova luce sui problemi dell'etnicità e dei pregiudizi razziali, in quanto riconduceva fenomeni come la chiusura e la discriminazione non tanto a conflitti intrapsichici o a disturbi di personalità, quanto a processi di definizione di confini e ad appartenenza di gruppo.
D'altro canto la recezione del concetto eriksoniano di identità nell'ambito della scuola interazionista non era priva di ambiguità ed era stata attuata con una certa disinvoltura teorica. L'ambiguità risiede nella distanza che separa un modello come quello di Erikson che, nonostante le aperture sociopsicologiche, resta un modello di tipo strutturale, legato cioè all'idea di una struttura psichica profonda, interna e permanente, e quello avanzato dalla teoria interazionista che, pur nelle sue molteplici varianti, accentua l'aspetto processuale e situazionale dell'identità, per cui quest'ultima non deve solo essere conferita socialmente, ma anche continuamente sostenuta e resa plausibile in base al riconoscimento sociale.
La diversità degli approcci emerge con forza fin dall'inizio da uno studio di Anselm Strauss, l'autore che per primo ha riconosciuto l'importanza del concetto di identità elaborato da Erikson, innestandolo direttamente nell'alveo della Scuola classica di Chicago: ciò appare evidente già dal titolo, Mirrors and masks, che fa riferimento agli "specchi" di C.H. Cooley e alle "maschere" di R.E. Park. Strauss (v., 1959) intende la propria indagine sulle trasformazioni dell'identità come un semplice spostamento di 'fuoco' dell'interesse dagli stadi infantili, analizzati dalla teoria psicanalitica di Freud, e da quelli adolescenziali, analizzati da Erikson, alla vita adulta. Anche se propone di utilizzare il termine 'trasformazione' piuttosto che 'sviluppo', in quanto quest'ultimo è più compromesso con l'idea di una serie di stadi prefissati lungo un continuum, Strauss non appare del tutto consapevole della profonda differenza di presupposti teorici che caratterizza la sua acuta e pionieristica indagine sulle sfide che i passaggi istituzionalizzati di status e i cosiddetti 'punti di svolta' (turning points) rappresentano per l'identità.Forse per questa ragione, negli anni sessanta e settanta - tra gli autori che si rifanno all'interazionismo simbolico o a posizioni che stanno a cavallo tra quest'ultimo e l'etnometodologia, come nel caso di Erving Goffman - il riferimento a Erikson scompare quasi del tutto.
Il concetto eriksoniano di identità dell'io non ha più un ruolo centrale nemmeno nell'altro filone di studi sull'identità che si afferma in America a partire dalla seconda metà degli anni sessanta per opera soprattutto di due studiosi di origine austriaca, Peter L. Berger e Thomas Luckmann (v., 1966), i quali compiono un'ulteriore operazione di 'innesto' sull'originario 'tronco' pragmatista e interazionista americano, collegandolo, sulla scorta dell'opera di Alfred Schutz, alla fenomenologia di matrice husserliana. L'impostazione sociocognitiva di questi autori - che ha notevoli affinità, sul versante della psicologia sociale, con la prospettiva di studiosi come H. Tajfel e J. Turner - ha dato nuovo vigore agli studi sull'identità, mettendo in risalto le implicazioni cognitive del processo di socializzazione e dando quindi una portata più ampia alla teoria meadiana del Sé sociale.
Applicando il concetto di "definizione della situazione" di W.I. Thomas e quello di "profezia che si autoadempie" di R.K. Merton allo studio del processo di costruzione dell'identità, Berger ritorna con forza sull'idea, già espressa nell'articolo di Foote, del potere costitutivo delle definizioni sociali. La società, in altri termini, crea la stessa realtà psicologica nel senso che offre all'individuo dei modelli psicologici in cui riconoscersi (v. Berger, 1966). Come aveva già notato Marcel Mauss, la categoria 'persona' non è una struttura psichica innata, ma una struttura di credenze sociali che l'individuo impara ad apprendere. Tale prospettiva dà l'avvio a una letteratura assai vasta, che si è andata ampliando e articolando in questi ultimi anni anche attraverso l'apporto di prospettive teoriche assai diverse: ad esempio quella di Michel Foucault, che intende studiare i meccanismi o 'tecnologie' attraverso cui la modernità avrebbe plasmato e trasformato la soggettività e il modo di guardare a essa.
Non a caso, invece, il riferimento a Erikson e, più in generale, alla tendenza psicanalitica neofreudiana ridiventa attuale quando il concetto di identità viene assimilato da Parsons e inglobato nello strutturalfunzionalismo, giungendo a occupare un ruolo centrale entro la teoria dell'azione (v. Parsons, 1968). Qui, infatti, l'identità torna a essere intesa come una componente essenziale della struttura psichica, nettamente separata dal sistema sociale e culturale: la sua funzione innovativa sarebbe proprio quella di collegare quest'ultimo alla personalità individuale complessiva. In questa prospettiva permane una certa ambiguità teorica, già riscontrata in alcuni autori appartenenti al filone interazionista, dovuta al collegamento un po' eclettico tra Freud e Mead. Mentre, tuttavia, questi autori tendevano a leggere Freud attraverso Mead, nel caso di Parsons avviene il contrario.
Del concetto di identità sono state rilevate tre dimensioni o componenti teoriche, presenti, anche se in modi e con accentuazioni diverse, nei vari apporti disciplinari che hanno contribuito alla sua elaborazione e diffusione. Possiamo convenzionalmente definirle come dimensione locativa, integrativa e selettiva (v. Sciolla, Identità..., 1983). In base alla dimensione locativa l'attore sociale concepisce se stesso all'interno di un campo, entro confini che lo rendono affine ad altri che con lui li condividono. Tale dimensione rimanda ai processi della categorizzazione e dell'identificazione. La psicologia sociale ha spesso preferito indicarla con il termine 'identità sociale', in quanto "parte della concezione di sé di un individuo, che gli deriva dalla conoscenza della propria appartenenza a uno o più gruppi sociali" (v. Tajfel, 1974, p. 69). L'identificazione, come aveva già intuito chiaramente Foote nel suo lavoro anticipatore (v. Foote, 1951), non indica la mera appartenenza oggettiva a una categoria sociale, ma è espressione, allo stesso tempo, dell'autopercezione e del riconoscimento da parte degli altri (v. Melucci, 1982). L'individuo, soprattutto in una società complessa, può appartenere a più gruppi sociali (ad esempio a un movimento politico e a una associazione professionale) e svolgere molteplici ruoli (di genitore, figlio, lavoratore, ecc.) che implicano delle aspettative sociali, ma sviluppare sentimenti di attaccamento nei confronti di uno o alcuni di essi.
Parlare di ruoli e status come categorie sociali costitutive dell'identità ha spesso creato dei malintesi, dovuti in gran parte alla disinvoltura con cui il termine 'identità' è stato usato in maniera intercambiabile con il termine 'Sé' (self in inglese, tradotto in italiano ora con il pronome riflessivo 'sé' ora con quello di prima persona 'io'). Quando si dice che l'individuo ha molti Sé perché è capace di ricoprire simultaneamente più ruoli e di passare, nel corso di una giornata o nel breve arco di tempo di un'interazione 'situata', da un ruolo a un altro presentando svariate immagini di sé, non vuol dire che si stia parlando di una pluralità di identità, anche se la gestione di più ruoli e le aspettative contraddittorie a questi collegate possono creare problemi di coordinamento cognitivo e conflitti motivazionali. La dimensione locativa del concetto di identità indica che per definire se stessi in quanto individualità è necessario riconoscersi in un insieme più ampio. Essa rinvia dunque alla presenza di valori - e non solo ad aspetti di ordine cognitivo - che consentono di stabilire dei confini tra la categoria 'noi' e la categoria 'altri'. Tali confini non coincidono necessariamente con quelli di un gruppo particolare (ad esempio un gruppo etnico), in quanto possono riguardare categorie più ampie (ad esempio il genere) ed estendersi fino a comprendere la comunità astratta degli esseri umani (come avviene nei modelli di valore universalistici). Il termine "altro generalizzato" coniato da Mead rappresenta questa dimensione, mentre Parsons ne ha sottolineato con forza il carattere duplice, cognitivo e affettivo-valutativo.
Se la dimensione locativa suggerisce che l'identità non si costituisce in un'arena interiore ma presuppone sempre un uditorio, ossia il riconoscimento in altri e da parte di altri, la dimensione integrativa rimanda a un principio di integrazione simbolico e temporale dell'esperienza. Si tratta di un principio di consistenza interna che riguarda la necessità sia di collegare le esperienze passate e presenti e le prospettive future in un insieme dotato di senso, sia di coordinare motivazioni e credenze eterogenee, legate alla molteplicità dei ruoli o, per usare la terminologia di Mead, ai diversi 'me'. Mentre vi è un certo accordo nel rilevare l'importanza di questa dimensione, non si può dire altrettanto per quanto riguarda il grado di integrazione né il suo modo di operare. Un criterio per classificare i vari approcci in sociologia (v. cap. 4) è proprio quello di considerare le diverse strategie concettuali a cui si è fatto ricorso per dare significato a questa dimensione.
La terza dimensione portante del concetto di identità riguarda l'orientamento all'azione e può essere chiamata selettiva. Questa dimensione, presente in gran parte della letteratura che ha approfondito gli aspetti teorici del concetto di identità, è stata rilevata con chiarezza da quegli autori che - come Parsons e, in anni più recenti, Pizzorno - pur a partire da prospettive diverse si sono confrontati direttamente con il paradigma utilitarista di spiegazione dell'azione sociale. Essa rimanda a quei meccanismi stabilizzatori delle preferenze, in grado di risolvere il problema dell'incertezza di lungo periodo, che sono alla base della possibilità stessa del calcolo razionale. Pizzorno (v., 1983 e 1986) osserva che, per poter valutare il proprio interesse e calcolare i costi e i benefici, il soggetto agente deve assumere che i suoi criteri di valutazione siano identici quando valuta i costi e quando fruisce dei benefici, deve cioè assumere la propria continuità nel tempo, che è impossibile sulla base dei soli dati individuali e comporta il riconoscimento intersoggettivo. Il concetto di identità finisce dunque per acquistare una portata teorica e metodologica generale, in quanto contribuisce all'elaborazione di un modello di attore sociale più comprensivo di quello utilitarista neoclassico che prevale nell'economia ed è largamente presente nella scienza politica.
Nella breve storia sopra delineata del concetto di identità nelle scienze sociali questo concetto è stato perlopiù utilizzato in riferimento al problema del rapporto tra individuo e società. L'identità era quindi riferita alla persona e l'attenzione era focalizzata sui processi di formazione dell'individualità, anche se le dimensioni teoriche del concetto non solo non precludono la sua applicabilità ad attori collettivi, ma lo hanno reso particolarmente utile quando, in anni recenti, è stato utilizzato per spiegare dinamiche intergruppo e descrivere diverse forme di comunità e organizzazione sociale (v. cap. 5).
In sociologia il problema del rapporto tra individuo e società si è posto, fin dagli esordi, come rapporto tra gradi di libertà dell'azione individuale e coesione del sistema sociale. Durkheim, osservando per primo che l'aumento della differenziazione sociale - nel duplice significato di aumento di volume della società e di aumento del numero delle relazioni tra le sue componenti - andava di pari passo con la crescita dell'autonomia e della personalità individuale, ne aveva offerto una spiegazione ingegnosa ma un po' paradossale. In De la division du travail social aveva scritto: "Nessuno contesta al giorno d'oggi il carattere vincolante della regola che ci ordina di essere, e di essere sempre di più, una persona" (v. Durkheim, 1893; tr. it., p. 394). L'apparente paradosso sta nel fatto di descrivere in modo deterministico l'ampliamento dei gradi di libertà; la libertà è, secondo le parole di Durkheim, essa stessa prescritta da una norma sociale, quindi effetto di una costrizione. La riflessione sociologica sull'identità personale può essere vista come il tentativo di trovare un concetto capace di evitare questa rappresentazione paradossale del problema, in grado di descrivere analiticamente i meccanismi specifici che legano la differenziazione del sistema sociale ai processi di individuazione.
La diversità degli approcci al concetto di identità nel campo della sociologia, come si è visto, non riguarda il suo carattere sociale e intersoggettivo; da questo punto di vista non ha senso distinguere tra identità personale e identità sociale, come si usa spesso fare in psicologia, perché l'identità è personale solo in quanto 'localizzata' nell'individuo, ma è sociale nel suo processo di costituzione (implica cioè il riconoscimento di altri). Si possono invece riscontrare sensibili differenze nel modo in cui viene rappresentata la dimensione integrativa dell'identità personale, sia per quanto riguarda il principio o criterio attraverso cui l'integrazione si realizza, sia per quanto riguarda il grado di coordinazione presupposto. È questa dimensione, che rimanda alla continuità e alla permanenza del soggetto, ossia alla sua individualità e particolarità, che crea il problema. Si tratta, infatti, di evitare la rappresentazione paradossale di Durkheim e di render conto dei meccanismi complessi attraverso cui la libertà e la soggettività dell'attore sociale emergono dalle articolazioni della società.
In base al grado di integrazione o consistenza interna considerato necessario per poter parlare di identità personale, le teorie sociologiche possono essere classificate in due grandi categorie: quelle che postulano il massimo di integrazione e consistenza e quelle che richiedono solo un debole livello di coordinamento. Chiamerò le prime identità integrate e le seconde identità debolmente integrate. Esse possono essere suddivise ulteriormente al loro interno in base al criterio che rende possibile l'integrazione.
L'integrazione del soggetto agente è intesa come massima coerenza e unità in primo luogo da quegli autori che intendono l'identità come struttura della personalità individuale. Questa posizione, largamente presente in psicologia e diffusa soprattutto attraverso i lavori di Erikson, è rappresentata in sociologia da Parsons, che definisce l'identità come una "struttura di codici" e "il sistema centrale dei significati di una personalità individuale" (v. Parsons, 1968; tr. it., p. 70). Reinterpretando l'eredità freudiana in modo da renderla compatibile con la propria teoria dell'azione sociale, Parsons aggiunge alle componenti individuate da Freud - Es, Ego e Super-Ego - la nuova componente dell'identità, che svolge all'interno della personalità il ruolo più importante e stabile (in quanto sovraordinato a quello degli altri sottosistemi) di dare significato ai processi coordinativi e realizzativi dell'attore individuale.
L'identità propriamente non 'agisce', ma controlla i processi di azione.
Nella complessa prospettiva sistemica elaborata da Parsons l'identità mette in relazione il sistema della personalità con il sistema dei codici e dei valori condivisi dalla società. Se l'individuo tipico di una società che ha raggiunto un alto grado di differenziazione strutturale riesce ad affrontare i complessi problemi decisionali, le tensioni e i conflitti derivanti dalla pluralizzazione dei coinvolgimenti di ruolo, è perché ha interiorizzato codici culturali, sia cognitivi sia valutativi, altamente generalizzati e indipendenti dalla specificità delle singole aspettative di ruolo. Questa capacità non è, secondo Parsons, innata ma è appresa nel corso del processo di socializzazione, in particolare negli stadi successivi all'infanzia quando l'individuo entra a far parte di cerchie sociali via via più ampie di quelle familiari (scuola, gruppi generazionali, cittadinanza).
L'identità, alla fine del processo di socializzazione, si presenta come una struttura stabile e internamente coerente. L'unitarietà e la consistenza interna vengono dunque fatte derivare dalla congruenza con un sistema unitario e condiviso di valori. È significativo, da questo punto di vista, che Parsons arrivi a sostenere che l'identità rappresenta il punto in cui l''io' e il 'me' della teoria meadiana coincidono. La coerenza interna dell'identità individuale e la conformità sociale sembra non possano essere pensate separatamente senza dar luogo a forme patologiche o riconducibili alla categoria della devianza. Ritorna, nella formulazione più sofisticata dell''individualismo istituzionalizzato', l'idea durkheimiana che l'autonomia dell'individuo e i gradi di libertà delle sue decisioni siano prescritti dal sistema, prerequisiti funzionali di una struttura sociale altamente differenziata. L'assunto dell'interiorizzazione ne dissolve però l'apparenza paradossale, in quanto la prescrizione non è più vista come un fatto costrittivo esterno agli individui, ma coinvolge le loro motivazioni e la loro adesione consapevole.Un altro modo di intendere l'unità dell'identità, non contraddittorio con quello sopra delineato ma più dinamico, proviene dalla prospettiva teorica dell'interazionismo simbolico, solitamente vista in contrapposizione allo struttural-funzionalismo parsonsiano.
Ralph H. Turner parte dalla distinzione tra 'immagine di sé' e 'concezione di sé' o identità. Mentre la prima è legata alla situazione ed è quindi effimera e instabile, la seconda "muta più lentamente, mostra una tendenza alla coerenza ed è percepita dall'individuo come un qualcosa di ineliminabile" (v. Turner, 1968; tr. it., p. 91). Anche per Turner il principio organizzatore e integratore dell'identità sono i valori, considerati però non come fonte di coesione sociale, ma come base della prevedibilità del comportamento nell'interazione sociale. Criticando la possibilità di rilevare empiricamente tale dimensione attraverso il cosiddetto 'Who am I?', test elaborato da M. Kuhn e dai suoi allievi dell'Università dello Iowa, Turner ritiene che l'identità possa essere osservata solo attraverso l'esame delle reazioni ai mutamenti dell'immagine di sé in situazioni controllate.
Detto in termini diversi, l'identità dell'individuo diventa visibile e operante quando è minacciata da immagini di sé incongruenti che gli altri gli rimandano nel corso dell'interazione sociale. In questi casi, attraverso una dinamica affine a quella descritta da L. Festinger (v., 1957) con la teoria della dissonanza cognitiva, l'individuo cercherà di eliminare l'incoerenza mediante azioni orientate all'affermazione dell'identità attraverso la produzione di immagini di sé che la confermino. La coerenza dell'identità, diversamente che nella prospettiva parsonsiana, è sia un fattore determinante sia un prodotto dell'interazione.
L'identità è pensata da alcuni autori come molteplice. Il principio di integrazione non significa necessariamente unità o perfetta coerenza, ma può anche indicare che la connessione sincronica (tra diversi sé compresenti) e diacronica (tra sé successivi) è debole e non elimina le incongruenze, ma si realizza sulla base di diverse strategie interpretative. Anselm Strauss (v., 1959), ad esempio, sottolinea la funzione di ordinamento simbolico svolta dalla memoria. Il senso di continuità non si basa sul numero e sull'intensità dei cambiamenti nel comportamento del soggetto, ma sul quadro simbolico entro il quale elementi altrimenti discordanti possono essere riconciliati e messi in relazione. Il caso paradigmatico, riportato da Strauss, è quello del convertito a una setta religiosa la cui biografia appare caratterizzata dall'assoluta discontinuità tra il Sé precedente e il Sé successivo alla conversione. Eppure anche in questo caso la continuità può essere più profonda della discontinuità qualora il convertito, nonostante la frattura, concepisca la vita passata come necessaria preparazione a quella futura. Tutta una serie di eventi devianti possono così essere spiegati e reinterpretati come tentazioni, prove, ripensamenti dell'ultimo minuto, segni di un più profondo destino che si deve realizzare. Strauss sottolinea dunque che la continuità temporale è opera della memoria, che seleziona e 'ricuce' gli eventi passati sulla base di un disegno temporalmente più ampio, rivolto al presente e al futuro.
La sociologia fenomenologica contemporanea fa ricorso a strategie concettuali analoghe, ma non identiche, a quelle elaborate da Strauss nell'ambito dell'interazionismo simbolico. Innanzitutto la necessità di pensare all'identità come debolmente integrata, oltreché altamente instabile, deriva direttamente da un modo di intendere il processo di differenziazione sociale che ne mette in risalto gli aspetti dissociativi, di segmentazione istituzionale e di pluralizzazione culturale (v. Berger e altri, 1973). In sintonia con altri approcci di diversa matrice intellettuale (da Arnold Gehlen a Daniel Bell, a Niklas Luhmann), essa mette in luce che il processo di differenziazione sociale produce il passaggio da un sistema sociale centrato, le cui varie istanze sono organizzate da un unico principio di sviluppo (sia esso individuato dalla durkheimiana logica della divisione del lavoro o dalla parsonsiana logica dell'integrazione sociale), a un sistema sociale acentrato nel quale convivono più principî organizzativi (v. Negri e altri, 1983).
La pluralizzazione simbolica, che pone non solo il problema dell'ampliamento delle scelte possibili ma anche quello più difficile da risolvere della loro incommensurabilità, mette in discussione la possibilità di trovare il criterio integratore dell'identità individuale, come pensava Parsons, in un sistema unitario e condiviso di codici culturali (v. Sciolla, Differenziazione..., 1983). L'identità viene rappresentata come un 'Sé componenziale', una sorta di puzzle costituito da una pluralità di elementi che si incastrano, a cui nemmeno la socializzazione primaria può più garantire un centro fortemente unificante. Anche questo modello, nonostante sembri dissolvere l'idea stessa di consistenza e di continuità, pur in maniera debole e scarsamente approfondita sul piano teorico fornisce un criterio di integrazione. Peter Berger (v., 1965) individua delle 'tecniche' di gestione dei diversi Sé, che funzionano sulla base di modelli preconfezionati di ricostruzione biografica; tra esse riveste una particolare importanza la psicoterapia, intesa come costruzione di modelli psicologici operanti nella società come 'profezie autorealizzantisi'. La distanza rispetto alla teoria parsonsiana della interiorizzazione non potrebbe essere più grande.
Un altro modo, anch'esso radicalmente antipsicologico, di pensare a un'identità debolmente integrata è quello presentato da Erving Goffman col suo 'modello drammaturgico' dell'interazione sociale. Questo autore, in realtà, più che al tema dell'identità sembra interessato all'analisi dei diversi Sé che l'individuo presenta negli incontri fuggevoli della vita quotidiana, definiti "sistemi situati di attività" (v. Goffman, 1961; tr. it., p. 94). Nonostante ciò, nella maniera suggestiva ma poco sistematica che gli è congeniale, Goffman individua con il concetto di "distanza dal ruolo" una sorta di strategia per gestire e coordinare la "molteplicità simultanea di Sé" (ibid., p. 134) legata all'esecuzione dei singoli ruoli. Non atteggiamento radicato nella struttura psichica del soggetto, ma comportamento comunicativo con l'altro nei rapporti faccia a faccia, la "distanza dal ruolo" segnala l'esistenza di confini al di là della singola situazione, indica che il soggetto agente non è interamente deducibile dalla presentazione ufficiale del Sé. Non bisogna pensare che l'identità venga, in questo modo, 'svelata'; essa è, invece, nell'ottica goffmaniana, letteralmente costruita attraverso questo sofisticato meccanismo di identificazione e distacco.
È solo in anni assai recenti che il concetto di identità è stato applicato ad attori collettivi. L'introduzione dell'espressione 'identità collettiva' si deve soprattutto agli studi sociologici, antropologici e storici sull'etnicità e sui movimenti sociali. Come è stato sottolineato (v. Epstein, 1978; v. Pistoi, 1983), il riemergere di conflitti etnici in molte società occidentali, tra gli anni sessanta e settanta, insieme all'ingresso sulla scena sociale di movimenti che hanno una base diversa dalla classe sociale (differenze generazionali o sessuali) richiedeva nuovi approcci al problema dell'etnicità e dell'azione collettiva, approcci che fossero in grado di spiegare la persistenza e l'intensità dei vincoli di appartenenza nel cuore del mondo sviluppato. Il concetto di identità collettiva sembrava possedere questo valore euristico.
Tuttavia l'applicazione del concetto di identità alle collettività ha sollevato problemi di ordine teorico e metodologico.
L'obiezione principale è venuta dalla sociologia fenomenologica che vi ha colto il rischio di cadere in ipostatizzazioni del genere di quelle fatte dalla scuola di Durkheim con il concetto di 'coscienza collettiva' o dalla sociologia tedesca 'hegeliana' degli anni venti e trenta (v. Berger e Luckmann, 1966; tr. it., p. 235). A questa obiezione si può rispondere che il rischio sarebbe reale solo se si intendesse l'identità collettiva come un'entità unitaria, una totalità, del tutto esterna e costrittiva rispetto agli individui. Vi è anche la possibilità di concepire l'identità collettiva come la risultante di processi complessi, costituita da un'autonoma delimitazione di confini e costruzione di simboli, che interagisce tuttavia con le aspettative dei singoli individui che in essa si riconoscono, ma con essa possono entrare in contrasto, in una sorta di equilibrio instabile i cui esiti possono essere sia la modificazione dell'identità dei singoli (nel caso estremo l'uscita dal gruppo), sia la modificazione dell'identità del gruppo stesso (nel caso estremo la dissoluzione dell'identità collettiva) (v. Sciolla, Identità..., 1983, p. 14).
L'utilità euristica dell'applicazione del concetto di identità ad attori collettivi (gruppi etnici, movimenti sociali, ecc.), a meno di usarlo in maniera del tutto aspecifica, è proprio quella di sottolineare che l'appartenenza (etnica, nazionale, ecc.) ha un aspetto soggettivo e uno oggettivo, rimanda cioè sia a categorie sociali esterne sia all'autopercezione (v. Epstein, 1978; tr. it., p. 40), e di concepirla quindi non in maniera statica, come dato o legame primordiale immodificabile, ma in maniera dinamica, come processo di costruzione e di modificazione di confini.
La riflessione contemporanea sull'identità nelle scienze sociali, anche quando viene riferita alla persona, tende d'altro canto a evitare concezioni sostanzialistiche e a cogliere analiticamente le sue molteplici componenti. Come ha sottolineato Melucci (v. 1982, p. 68), la distinzione tra identità individuale e identità collettiva non riguarda la struttura analitica. Le diverse dimensioni (v. § 3b) possono essere applicate altrettanto efficacemente a gruppi sociali, senza che ciò comporti necessariamente l'adozione di un paradigma di tipo olistico. La definizione di confini (dimensione locativa) è ritenuta una componente fondamentale per caratterizzare l'identità collettiva dei gruppi etnici e delle nazioni. Mentre per queste ultime i confini assumono un carattere territoriale e giuridico (v. Smith, 1991, p. 14), per i primi possono anche essere sociali in senso lato (v. Barth, 1969).
L'accento posto sui confini significa che le identità collettive si basano su processi di inclusione e di esclusione, che distinguono 'noi' da 'loro'. Anche il senso di continuità e di permanenza nel tempo (dimensione integrativa) rappresenta una caratteristica rilevante; essa fa riferimento alla costruzione di una memoria storica, basata sull'elaborazione di miti e di simboli comuni, rivitalizzata attraverso riti celebrativi e commemorativi (v. Smith, 1991, p. 14). L'aspetto selettivo e interpretativo della memoria di un gruppo (ad esempio una nazione) non ha nulla a che vedere con l'idea di una mente collettiva, ma fa invece riferimento al ruolo cruciale svolto dall'élite intellettuale e politica. La dimensione che rimanda a meccanismi di stabilizzazione delle preferenze e di orientamento all'azione acquista senso solo se riferita a gruppi che possiedono precisi centri decisionali e organismi dirigenti.
Gli interessi intellettuali che oggi spingono un gran numero di scienziati sociali a utilizzare la nozione di identità collettiva, per quanto numerosi ed eterogenei, sono classificabili in due tipi. Il primo, che muove soprattutto sociologi e psicologi sociali, è l'interesse teorico per la comprensione dell'azione sociale, dei meccanismi generali che spingono gli individui, in certe condizioni sociali, ad agire collettivamente. L'identità collettiva è utilizzata, in questi casi, come modello interpretativo alternativo ad altri modelli, in particolare quelli riconducibili a paradigmi economicisti. Il secondo tipo di interesse, che si riscontra soprattutto tra storici e antropologi, è prevalentemente descrittivo: la categoria 'identità collettiva' serve a descrivere i processi di formazione, di persistenza e di trasformazione di alcuni gruppi e organizzazioni sociali.
Nel primo caso l'identità collettiva spiega la logica dell'azione sociale, nel secondo caso sintetizza gli elementi caratteristici di una forma di raggruppamento sociale.
Le ricerche di psicologia sociale sulle relazioni intergruppo partono dalla considerazione che "la definizione di un gruppo (nazionale, razziale o d'altro genere) acquista un senso solo in presenza di altri gruppi" (v. Tajfel e Frazer, 1978; tr. it., p. 377). Esse mostrano che non è il contenuto intrinseco dei gruppi (linguaggi, culture, ecc.) che costituisce l'identità collettiva e la fonte di identificazione motivazionale per i singoli, ma la valutazione positiva che deriva dal confronto con altri gruppi rispetto a cui ci si differenzia. Quando, attraverso questo confronto, l'individuo avverte una minaccia allo status del proprio gruppo, tende a mettere in atto delle strategie che gli consentano di modificare la situazione.
Riprendendo la distinzione di A.O. Hirschman (v., 1970) tra "exit" e "voice", H. Tajfel rileva che quando non è possibile adottare strategie di exit, ossia abbandonare il gruppo per un altro che rappresenti un referente positivo, l'individuo cerca di modificare gli aspetti negativi del gruppo operando in diversi modi, che vanno dall'assimilazione culturale alla reinterpretazione delle caratteristiche del proprio gruppo, fino alla creazione di nuove 'ideologie'. In tutti questi casi l'identità è concepita come un 'meccanismo causale' dell'azione collettiva rivolta al cambiamento sociale. Gran parte dei movimenti etnici ed etnonazionalisti che sono apparsi sulla scena politico-sociale delle società occidentali avrebbe origine non tanto in conflitti di interesse quanto in conflitti di identità (v. Tajfel e Frazer, 1978; tr. it., p. 380).
In ambito sociologico il concetto di identità collettiva è alla base di un modello generale che spiega la partecipazione politica tentando di rispondere a una serie di problemi posti da questa partecipazione, che non sono risolti in maniera esaustiva dai modelli di tipo utilitarista, basati sull'idea che l'individuo agisce perseguendo il proprio interesse. Alessandro Pizzorno (v., 1983 e 1986) ha cercato di rispondere al problema centrale dello studio dell'azione collettiva, quello che nel linguaggio corrente delle scienze sociali viene denominato 'paradosso del free rider' (libero battitore). Il paradosso consiste nel fatto che, se l'individuo persegue il proprio interesse, non si spiega come mai partecipi ad azioni collettive (dal voto ai movimenti sociali) i cui benefici potrebbe ottenere comunque senza sobbarcarsi i costi dell'informazione e della partecipazione.
Il problema è complesso ed è stato trattato in una letteratura assai ampia. Qui è sufficiente osservare come la tesi di Pizzorno tenda a spostare l'attenzione sul fatto che i meccanismi di esclusione generati dal sistema della rappresentanza politica rendono indispensabile la formazione di nuove identità collettive, in grado di assicurare quel riconoscimento intersoggettivo su cui si basa la valutazione dell'interesse individuale. In altri termini, se l'obiettivo dell'azione collettiva è la formazione di una collettività identificante, la partecipazione non va vista come un costo perché senza partecipazione non si può ricevere riconoscimento.Per antropologi e storici il concetto di identità collettiva rappresenta una chiave di lettura adatta a descrivere fenomeni quali la persistenza e la trasformazione dei gruppi etnici in contesti industrializzati, il sorgere di nuove nazioni da un passato di tipo coloniale, il riacutizzarsi di conflitti su base etnica e nazionalistica nel mondo sviluppato.
Gli studi empirici su singoli casi e in contesti specifici sono ormai molto numerosi. L'importante è chiedersi che cosa aggiunga l'ottica dell'identità collettiva all'analisi di fenomeni già ampiamente studiati in passato. Come ha sottolineato A.L. Epstein nel suo studio comparativo di tre diversi contesti etnografici, il concetto di identità consente di vedere l'etnicità in una maniera dinamica, non come legame primordiale e come contenuto culturale stabilito una volta per tutte, ma come dialettica tra i processi di categorizzazione sociale esterni al gruppo e quelli interni di autocategorizzazione (v. Epstein, 1978). Diventa così possibile comprendere perché e come i confini etnici continuino a operare anche in situazioni caratterizzate da un alto grado di erosione culturale: l'identità etnica, in questi casi, può fornire il mezzo per riorganizzare il comportamento e le relazioni sociali, come è avvenuto per il 'tribalismo' della Copperbelt nello Zambia (ibid., p. 187), ma può anche gettare luce sui meccanismi da cui si genera in un contesto sociale non etnico una nuova categoria sociale dotata di uno status ascritto, come nel caso degli hibakusha, le vittime sopravvissute di Hiroshima.
In secondo luogo, pensare in termini di identità collettiva significa superare concezioni ipersemplificate dei gruppi etnici intesi come 'gruppi di interesse', in competizione per l'ottenimento di risorse scarse, concezioni che non spiegano i molti casi, come quelli dei Paesi Baschi e della Catalogna in Spagna o dei Fiamminghi in Belgio, in cui aspirazioni separatiste e rivendicazioni etniche sorgono proprio nelle zone più prospere ed economicamente avanzate. Infine, l'analisi in termini di identità - che ovviamente non è l'unica possibile - mettendo in luce l'esistenza di nuclei intoccabili e non negoziabili, come l'autoattribuzione vera o immaginaria di origini comuni e di un comune destino, aiuta a comprendere l'intensità e l'esplosività con cui si presentano i conflitti di questo tipo, e anche le difficoltà di una loro risoluzione.
(V. anche Gruppi; Integrazione sociale; Interazione sociale; Interazionismo simbolico; Movimenti politici e sociali).
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