Brienne, Gualtieri di
Nato a Brienne, feudo nella Champagne, nel 1304 o 1305, conte di Brienne, conservò il titolo di duca d’Atene, benché il ducato, perso dal padre, non fosse stato mai più riguadagnato; divenne principe-consorte angioino per aver sposato Beatrice, nipote del re Roberto. Morì nel 1356 nella battaglia di Poitiers. L’interesse machiavelliano per B. si lega all’esperienza della breve signoria che egli instaurò a Firenze, con un colpo di mano, dal settembre del 1342 all’agosto dell’anno successivo. M. dedica un notevole rilievo alla narrazione della tirannide del duca d’Atene, nei capp. xxxiii-xxxvii del II libro delle Istorie fiorentine. A M. interessa presentare la signoria di B. come il risultato ineluttabile delle laceranti divisioni interne alla città che compromisero il regime repubblicano. Tre sono le fonti seguite per la stesura di queste pagine, come del resto per l’intero II libro: la Cronica di Giovanni Villani (X cccli, XII cxxxvi, cxliii, XIII i-iv, viii, xv-xvii; da qui in poi Villani), la Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani (rubriche 414, 550-85; da qui in poi Stefani), e le Historiae Florentini populi di Leonardo Bruni (da qui in poi Bruni), nel volgarizzamento di Donato Acciaiuoli pubblicato (dopo la princeps veneziana del 1476) a Firenze nel 1492 per i tipi di Bartolomeo de’ Libri (su B. cfr. le ultime quattro cc. del VI libro). In linea generale, se le opere di Villani e Stefani fungono da ampi serbatoi cui attingere le notizie, l’opera di Bruni si offre prevalentemente come modello per l’organizzazione dei materiali. Rispetto alle fonti, nella scrittura storiografica di M., come ben risulta anche dai capitoli dedicati alla parabola del duca d’Atene, predomina un’ottica politica che presiede alla selezione e sintesi dei materiali disponibili. M., cioè, sembra procedere concentrandosi prevalentemente sui dati che più gli interessano, in definitiva su quegli aspetti che mettono a fuoco i meccanismi e le dinamiche che nella storia fiorentina hanno determinato la degenerazione del conflitto sociale, con la conseguente sconfitta della nobiltà e con l’acutizzarsi delle divisioni interne al popolo.
B. fa la sua comparsa nel cap. xxx delle Istorie, dove M., sintetizzando la narrazione della Cronica di Villani (X cccli), allude a un primo breve periodo in cui egli governò Firenze (dove giunse nel maggio del 1326), come vicario di Carlo d’Angiò, duca di Calabria, chiamato in soccorso dai fiorentini sconfitti da Castruccio Castracani. Subito dopo, M. inserisce un incisivo commento (§§ 4-5) che tratteggia il comportamento del duca appena insediatosi: senza alcun indugio B. comincia a mostrare i primi segnali della sua natura autoritaria nominando a suo arbitrio i priori, stando attento, tuttavia, a mascherare la sua vera indole con comportamenti improntati a moderazione che gli permettono di guadagnarsi il generale consenso e di lasciare ai fiorentini un ricordo positivo del suo breve governo.
Con il cap. xxxiii prende avvio la narrazione delle vicende del 1342, anno che vede a Firenze l’istaurazione del governo tirannico del duca d’Atene. M., con un approfondimento teorico sconosciuto alle fonti, si sofferma sulla genesi della signoria di B., mettendo in evidenza – dietro l’occasione fornita dall’indignazione popolare nei confronti dei responsabili dell’insuccesso nella guerra con Pisa per il possesso di Lucca – gli insanabili contrasti tra la nobiltà, esasperata dal regime fazioso dei popolani grassi, e questi ultimi, interessati a rafforzare il proprio potere a discapito dei «grandi». B. era stato mandato a Firenze, secondo il racconto di M., da Roberto d’Angiò, a conclusione della guerra (era presente già nelle fasi finali dello scontro, secondo le fonti). Gli uomini del governo pensano di nominarlo capitano di guerra, vedendo in lui uno strumento di difesa del proprio potere oltre che un mezzo atto a placare lo sdegno del popolo per la sconfitta; dall’altra parte i nobili, ravvisandovi l’occasione tanto agognata per tentare un colpo di Stato contro il regime popolare, ne favoriscono l’ascesa con l’intenzione di instaurare un governo aristocratico. M., dopo aver presentato le motivazioni di parte che muovono le scelte di «grandi» e popolo, nella conclusione del capitolo si sofferma con incisività sull’«ambizioso animo» del duca che, acceso dal desiderio di dominare, comincia a mettere in atto le sue strategie di conquista del potere, punendo (finanche con la condanna a morte) i responsabili del disastro militare per accattivarsi le simpatie della «plebe».
Nei capitoli xxxiv-xxxv si narrano le successive tappe dell’ascesa di Gualtieri. Questi, dopo le esecuzioni capitali – le quali, acclamate dal popolo minuto e dai nobili, producono grande timore nel popolo grasso –, pronto a sfruttare il momento favorevole e attentissimo a non trascurare nulla che potesse far crescere la sua reputazione (da notare l’espressione cui ricorre M. per commentare la scelta di B. di prendere a sua dimora il convento di S. Croce: «per dare di sé maggior segno di religione e di umanità», II xxxiv 6), opera un primo strappo istituzionale, richiedendo di essere eletto signore assoluto della città. A differenza delle fonti, M. mette in rilievo il tentativo da parte di B. di ottenere l’investitura ufficiale dalla suprema magistratura, che avrebbe dovuto assecondare la sua svolta in senso autoritario per il bene della città (Villani XIII iii accenna rapidamente alla richiesta ai priori da parte di B., su consiglio di alcuni «grandi», di conferirgli la signoria di Firenze; in Bruni compare un veloce riferimento agli amici del duca che provarono a convincere i priori; cfr. c. m10 r). A nulla vale l’opposizione dei priori alle mire assolutistiche del duca, neanche il discorso pronunciato da uno di loro come estremo tentativo di dissuaderlo dal suo proposito tirannico. La lungimirante orazione (di cui ci è giunto un frammento autografo) è invenzione interamente machiavelliana. Essa inaugura la serie dei discorsi diretti che costellano le Istorie: intessuta del lessico e dei temi delle opere politiche machiavelliane, è incentrata sul mito umanistico della Florentina libertas e sul motivo della straordinaria difficoltà di assoggettare una città abituata al vivere libero. La solennità della retorica dei più alti e autorevoli apparati politico-istituzionali fa d’altro canto risaltare ancora di più la recisa condanna che M., poco prima, aveva inflitto alla classe dominante per l’inadeguatezza della sua amministrazione, causa della rovina di Firenze. Anche il discorso (in forma indiretta) fatto pronunciare in risposta dal duca è un’invenzione machiavelliana: B. si presenta come il benefattore di Firenze, l’unico in grado di restituire alla città l’unità, la quiete e la concordia di cui ha bisogno, nobilitando la sua impresa come espressione della volontà popolare e non certo delle sue ambizioni personali. Di fronte all’ostinazione del duca, M. sottolinea, in accordo con le fonti (Villani XIII iii, Stefani 555 e Bruni m10 v), come i priori cerchino, invano, di mitigare l’anomalia istituzionale riportandola in qualche modo all’interno di un processo ordinario e legale. Infatti assecondano la volontà del duca di convocare il popolo a «parlamento» per il mattino seguente e si illudono di contenere i danni con il conferire loro stessi una signoria condizionata e limitata a un anno. Si sarebbe riprodotta così la situazione del mandato concesso anni addietro a Carlo d’Angiò, che veniva a porsi, dunque, come importante precedente. Il tentativo tuttavia fallisce travolto dagli eventi concitati del «parlamento», che si conclude con l’acclamazione popolare del duca a signore perpetuo della città (8 sett. 1342). Per enfatizzare la gravità dell’episodio, M., oltre che riportare, sulla scorta dei cronisti, alcuni dettagli di forte impatto simbolico (il gonfalone del popolo viene stracciato mentre vengono innalzate le insegne del duca: Villani XIII iii, Stefani 556), inserisce autonomamente il riferimento al saccheggio da parte degli uomini del duca del Palazzo della Signoria, simbolo della tradizione repubblicana. Da notare che, se nei capitoli precedenti era emersa con maggiore chiarezza la distinzione tra le diverse anime popolari, in questa pagina dedicata all’acclamazione del duca M. parla genericamente di «popolo» e non di «plebe», mentre Villani, Stefani e Bruni precisano che la folla esultante è composta dal popolo minuto (Villani XIII iii, Stefani 556, Bruni m10 v).
Nel cap. xxxvi, M. si sofferma sui provvedimenti presi dal duca una volta conquistata la signoria, evidenziando l’opera di sistematico smantellamento delle tradizionali istituzioni repubblicane e di azzeramento del precedente regime. Nella fase iniziale, B. adotta una politica favorevole agli ottimati, che l’avevano appoggiato, procedendo all’abolizione degli Ordinamenti di giustizia del 1293, diretti contro i magnati (con ogni probabilità, più che revocati gli Ordinamenti vennero resi inoperanti). Quanto alle scelte in materia di politica estera, il duca si impegna subito a stipulare la pace con i pisani e non esita ad allearsi con le città sottoposte a Firenze per rafforzarsi rispetto a eventuali nemici interni. In accordo con le fonti (Villani XIII viii, Stefani 567, Bruni c. n r-v) – che sembrano però fornire una versione esagerata – M. mette in rilievo l’eccessivo inasprimento della pressione fiscale, con l’istituzione di nuove imposte e l’innalzamento di quelle già esistenti. L’esautorazione delle magistrature procede di pari passo con la nomina di tre «rettori», suoi consiglieri e uomini di fiducia, che contribuisce a conferire al suo potere un forte carattere personalistico.
In questa pagina, forse anche per l’influenza diretta delle fonti, la rappresentazione del regime tirannico viene condotta secondo lo schema tradizionale: del tiranno, oltre al potere assoluto, sciolto da limiti e condizioni, e connotato dalla discrezionalità nella distribuzione delle cariche pubbliche, si mettono in evidenza i tipici tratti della deviazione morale e la «figura strutturalmente solitaria» (C. Varotti, Cittadini, principe e tiranni, tra vecchi e nuovi Medici, «Studi (e testi) italiani», 2012, 29, p. 204). B. è presentato al lettore in tutta la sua negatività di tiranno ingiusto, superbo, crudele, violento, sanguinario, che vessa e defrauda il popolo, che rimpiazza la civile modestia con la regale pompa, che genera odio e un clima di terrore e sospetto. Sempre secondo lo schema classico e poi umanistico del tiranno che vive nel terrore perché odiato dal popolo (essendo l’amore del popolo la maggiore garanzia di sicurezza), il duca d’Atene non solo semina paura, ma ha paura, in primo luogo dei «grandi», pericolosi – come più volte ribadito da M. – per la loro costitutiva inclinazione al dominio. Pieno di sospetti nei confronti degli aristocratici, B. si volge a «benificare la plebe», mettendole a disposizione grandi somme di denaro per l’organizzazione dei pubblici festeggiamenti di Calendimaggio (Villani XIII viii fa riferimento alla nomina di priori tra gli «artefici minuti»; e cfr. anche Stefani 564). Dopo aver riferito dell’arrivo alla corte di B. di molti francesi, suoi connazionali, che contribuirono alla corruzione dei costumi, e dopo avere stigmatizzato (e anche questo è un topos) l’abitudine del duca e dei suoi di abusare delle donne, nei §§ 10-15 la rappresentazione della natura violenta del regime raggiunge il suo acme con il racconto delle spietate esecuzioni di Matteo Morozzo – ucciso per aver rivelato al duca le trame di una congiura contro di lui, mentre B. «voleva mostrare a ciascuno di credere di essere amato» (l’efficace esempio dei danni procurati da una simulazione irrazionale torna in Discorsi III vi 197) – e di Bettone Cini, a cui fece tagliare la lingua «per avere biasimate le taglie» (altro tratto emblematico, questo della negazione della libere loquendi facultas, del regime tirannico). M., tuttavia, anziché indugiare, come Villani, da cui ricava le notizie (XIII viii), sui particolari macabri dei supplizi, preferisce sottolineare – anche attraverso la concentrazione di termini connotanti il regime tirannico, come «odio», «sdegno», «paura» – l’esasperazione indignata dei cittadini, da cui ha origine la «rovina» del duca. Questi è incorso proprio nel vizio che causa inesorabilmente la perdita del potere, ossia il suscitare odio tra i sudditi (come ribadito in Principe xix e in altri luoghi del trattato).
Il resto del capitolo, come quello successivo, sono dedicati alla narrazione delle diverse congiure ordite contro il duca che terminarono con la sua cacciata, avvenuta il 6 agosto 1342. M. chiude la narrazione con un ritratto morale e fisico di B., secondo i moduli del genere biografico (xxxvii 24-25). Anche qui, indipendentemente dal ritratto offerto da Villani (XIII viii), M. insiste sulla natura «odiosa» del duca – trasparente non solo dai comportamenti ma anche dall’aspetto – proiettando sul testo delle Istorie e sulla vicenda concreta di B. i principi della riflessione politica sul nesso rovina-odio affidata al Principe (cfr. M.C. Figorilli, Machiavelli moralista, 2006, p. 106). Così come a Principe xvii e precisamente alla disputa sull’essere amato o temuto, rimanda un’altra tessera del ritratto («e per questo più di essere temuto che amato desiderava») che, rispetto al frammento autografo (Frammento V ii, p. 824), si presenta come aggiunta della stesura definitiva. L’odioso duca esce, così, dalla scena delle Istorie e il suo nome ritornerà nei discorsi diretti dell’anonimo buon cittadino e del gonfaloniere Luigi Guicciardini (III v 15, 17 e xi 13) come esempio del male che le lacerazioni interne possono provocare.
Bibliografia: Fonti: Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, a cura di N. Rodolico, RIS2, 30.1, Città di Castello 1903 (rist. anast. Firenze 2008); L. Bruni, P. Bracciolini, Storie fiorentine, presentazione di E. Garin, Arezzo 1984 (rist. anast. dell’ed. Venezia 1476); G. Villani, Nuova Cronica, ed. critica a cura di G. Porta, 3 voll., Parma 1990-1991.
Per gli studi critici si vedano: E. Sestan, Brienne Gualtieri di, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 14° vol., Roma 1972, ad vocem; A.M. Cabrini, Per una valutazione delle Istorie fiorentine del Machiavelli. Note sulle fonti del Secondo Libro, Firenze 1985; G. Sasso, La «tirannide» del duca d’Atene (Istorie fiorentine, II 33-37), in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 491-510.