GUARINI, Guarino
Figlio di Raimondo ed Eugenia Marescotti, nacque a Modena il 17 genn. 1624. La casa paterna, sul corso Canal Grande di Modena, sorgeva in adiacenza alla casa dei chierici regolari teatini, dove il G. e i suoi cinque fratelli compirono il primo ciclo di studi. Gli allievi dei nuovi ordini religiosi impegnati nella vita sociale, stimolati ad approfondire lo studio di materie scientifico-applicative diventavano di frequente architetti, soprintendenti alle fabbriche e autori di trattati architettonici (Klaiber, in Modena 1598, p. 220). Non ne fu immune il G., che, nel settembre 1639, seguendo l'esempio del fratello maggiore Eugenio, chiese di essere accolto nell'Ordine teatino. Il 22 ott. 1639, il G. partì per Roma, dove trascorse i sei anni di noviziato nel monastero teatino di S. Silvestro al Quirinale. L'11 apr. 1641, dopo la morte del padre (14 nov. 1640), il G. celebrò il proprio addio "al mondo per ritirarsi nella religione" (Sandonnini, p. 488). Gli anni della permanenza a Roma del G. sono caratterizzati dall'attività architettonica di Pietro Berrettini da Cortona, G.L. Bernini e F. Borromini. Quest'ultimo sembra influire più di tutti nella formazione architettonica del G., che, pur non dichiarando il suo tributo alle stravaganze borrominiane, ebbe modo di osservarne i cantieri di S. Carlino alle Quattro Fontane, da poco ultimata, dell'oratorio dei Filippini e di S. Ivo alla Sapienza (Roca De Amicis, in F. Borromini, p. 451).
Se è vero che l'opera dei grandi maestri del barocco romano non costituisce l'unica chiave interpretativa dell'architettura guariniana (Meek, 1991, p. 9), strutturata sull'assoluta padronanza della geometria e della matematica, è altrettanto indiscutibile che molto deve al fermento artistico della città papale. Questa si configura come autentico laboratorio sperimentale che mette a punto una tecnica costruttiva impeccabile, con cui si coniuga il graduale perfezionamento di un metodo operativo efficace e affidabile, per quanto ancora fondato su approcci eminentemente empirici, che il G. ebbe modo di apprezzare, pur sostenendo il ruolo intellettuale dell'architetto. Al contempo, la severa regola dell'Ordine teatino plasmò il carattere del giovane G., indirizzandolo a un'ascesi rigorosa e a una profonda interiorità (Carboneri, in G. Guarini, Architettura civile, 1968 [successive citazioni: Carboneri, 1968] p. XI). La perfetta combinazione di teoria e prassi consente al G. di superare le mode architettoniche del tempo, per rivolgersi a modelli selezionati tra opere classiche, gotiche, islamiche, rinascimentali e barocche, nella codificazione di un personalissimo linguaggio architettonico, volutamente autonomo e criticamente distante da ogni espressione artistica contemporanea, tanto da "sfuggire a ogni tentativo di classificazione" (Meek, 1991, p. 9). Esso si fonda sulla parziale alienazione dalla tradizione classica, sulla profonda padronanza della tecnica costruttiva, mutuata in parte dalla tradizione gotica (P. Marconi, in G. G. e l'internazionalità del barocco, I, pp. 613-631).
Nel febbraio 1645 il G. era a Venezia, ospite del convento teatino di S. Nicolò dei Tolentini, dove approfondì gli studi teologici e fu nominato suddiacono (Klaiber, in Modena 1598, p. 221). Nel 1647 fece ritorno a Modena; il 17 gennaio dell'anno seguente fu ordinato sacerdote. Nel 1648 fu nominato anche revisore dei conti della casa teatina, incarico che con tutta probabilità gli valse, il 13 ott. 1649, quello di sovrintendente alla fabbrica della chiesa di S. Vincenzo, la cui costruzione avviata nel 1617 su disegno di Paolo Reggiani, si avviava alla conclusione (Bettini, in La chiesa di S. Vincenzo, p. 41).
Il G. affiancò l'architetto teatino Bernardo Castagnini e l'architetto ufficiale del duca Francesco I d'Este, Bartolomeo Avanzini, autore di un progetto per la cupola. L'inaffidabilità statica del progetto di Avanzini e problemi legati a presunti ammanchi di denaro, di cui il G., cassiere dell'Ordine dal 1650, fu accusato con il fratello Eugenio, causarono la sospensione dei lavori per circa quattro anni, durante i quali fu nominato lettore di filosofia alla scuola teatina di Modena. Nel 1653, presentò un progetto per la cupola in modello di cartone, il quale, considerando i limiti della struttura portante già edificata, adottò un'ossatura lignea coperta da lastre di piombo, di matrice veneziana, che non verrà realizzata (Roca de Amicis, in F. Borromini, p. 451; Klaiber, 2002, p. 5).
Nel capitolo generale teatino, svoltosi a Roma tra il 20 novembre e il 6 dic. 1655, il G. fu nominato preposto della casa teatina modenese (Roca de Amicis, 1994, p. 72). Tale decisione trovò la ferma opposizione della corte estense, che i teatini assecondarono revocando la nomina alla fine dello stesso anno e costringendo il G. a un sofferto allontanamento dalla città. Il 9 sett. del 1656 il G. fu aggregato al titolo teatino di Parma, mentre il 3 dicembre dello stesso anno una lettera indirizzata ad Alfonso d'Este (futuro duca Alfonso IV) provava la sua presenza a Guastalla (Carboneri, 1968, p. XI). Nel 1657, il G. rientrò per un breve periodo a Modena, dove il 5 luglio era nominato "scrutatore" per i novizi (Klaiber, in Modena 1598, p. 225) e dove pubblicò la Pietà trionfante, tragicommedia morale, compilata per gli studenti del seminario. Se appare infondata l'ipotesi di un soggiorno guariniano nella penisola iberica tra il 1657 e il 1660, è certa invece la presenza del G. a Messina nel biennio 1660-62, chiamato dai teatini a realizzare la facciata e il convento della chiesa dell'Annunziata.
Nella facciata, principiata nel 1660 e raffigurata nell'Architetturacivile, l'impaginato, scandito da colonne e lesene, è la "versione appiattita di uno spazio tridimensionale sviluppato telescopicamente" (Meek, 1991, p. 27), plasmato in una morbida concavità, sommessamente contraddetta fino alla cornice del primo ordine dalla convessità del portale, che richiama il borrominiano oratorio dei Filippini a Roma, citato anche in taluni dettagli decorativi. Esaltato dai marmorari messinesi con la sapiente lavorazione della pietra (Borsi, in G. G. e l'internazionalità del barocco, I, p. 74), il motivo è replicato dalla convessità di un'edicola dorica, sorprendentemente incastonata nell'ordine corinzio. Il prospetto del convento (non realizzato), che segue lo schema planimetrico del collegio messinese dei gesuiti costruito intorno al 1630 da Natale Masuccio (Meek, 1991, p. 31), è ripartito in cinque campate da lesene in laterizio a vista, che inquadrano finestre disassate tra primo e secondo ordine. Danneggiata dai terremoti del 1783 e del 1894, l'Annunziata fu distrutta da quello violentissimo del 1908, che cancellò anche altre due opere di incerta attribuzione guariniana: l'altare di S. Antonio da Padova nella stessa Annunziata e la chiesa di S. Filippo, complesso basilicale con annesso oratorio, iniziato nel 1618 (Sandonnini, p. 497; Meek, 1991, pp. 27, 31).
Risale forse a una fase successiva, intorno agli anni del soggiorno parigino (1662-66), il progetto per la chiesa dei padri somaschi a Messina, inserito tra le tavole dei Dissegni d'architettura civile et ecclesiastica (1686) e poi allegato all'Architettura civile come esempio di tempio a pianta centrale.
La chiesa, mai ultimata, e per alcuni mai iniziata (Portoghesi, 1956, p. 3), è elaborata sul modello del mausoleo di S. Costanza a Roma, dei progetti michelangioleschi per S. Giovanni dei Fiorentini a Roma e di Baldassarre Longhena per S. Maria della Salute a Venezia. Il corpo superiore, al contempo tamburo e cupola, si innesta sul corpo basamentale con pennacchi ai vertici dell'esagono. L'organizzazione spaziale dell'edificio in tre volumi sovrapposti apparentemente autonomi, si conclude con una grande lanterna finestrata, coperta da una cupoletta rialzata, scandita da un doppio ordine di nervature murarie a vista. L'impianto centrico della chiesa genera una facies esterna a sei prospetti identici con portali centinati, rilegata dal movimento sinuoso della linea dei piedistalli curvilinei e degli acroteri, che ribattono esternamente lo spazio interno (Meek, 1991, p. 34).
Nel giugno del 1662 il G. rientrò a Modena per far visita alla madre gravemente ammalata. Il 3 luglio gli vennero commissionate, forse dagli Este, alcune tombe per la chiesa di S. Vincenzo, mai realizzate (Klaiber, in La chiesa di S. Vincenzo, p. 74). Contemporaneamente il G. elaborò un disegno per la facciata della stessa chiesa, informato da quattro registri sovrapposti, saldati tra loro da volute e timpani spezzati, nei quali il ritmo serrato degli ordini è placato da due attici a diversa altezza. La facciata si conclude in un arco a sesto ribassato su cui troneggia l'emblema teatino (Roca de Amicis, 1995, p. 89). L'assenza del tradizionale timpano terminale di derivazione palladiana diviene motivo ricorrente nel linguaggio architettonico guariniano, ove il tetto della navata è spesso occultato dall'estensione dello stesso corpo murario, plasmato in ordini decrescenti o cartigli che rafforzano la preminenza del prospetto sugli edifici adiacenti. Disegni autografi ascrivono al G. anche la paternità del progetto per la casa di S. Vincenzo a Modena, elaborato nel 1662, ma realizzato solo a partire dal 1675.
Questo, costretto al rispetto della struttura fissata da Castagnini in una serie di piante "inalterabili", si focalizza sul disegno della facciata verso il corso Canal Grande e di alcuni corridoi, sulla regolarizzazione di talune parti della fabbrica preesistente e sulla definizione dell'apparato decorativo (Klaiber, in Modena 1598, p. 229). La facciata, tessuta in una raffinata opera laterizia, si sviluppa su due piani con rispettivi mezzanini, scandita dall'orditura di una griglia modulare, mutuata dal modello del palazzo della Pilotta a Parma e definita nell'Architettura civile "opera a fasce, le quali in vari campi spartiscono tutto il sito" (trattato III, cap. XV). Il primo registro e il suo mezzanino sono sovrastati da una trabeazione che funge anche da base per le paraste ioniche giganti del piano superiore; queste scandiscono ritmicamente i partiti delle finestre centinate, leggermente arretrate, e dei mezzanini. Una cornice scultorea serra lo sviluppo verticale della superficie, concludendola, mentre l'apparato decorativo, eseguito in stucco e terracotta, ben rappresenta "l'atteggiamento in bilico tra povertà e ostentazione proprio degli ordini religiosi" (Klaiber, in Modena 1598, p. 234). All'interno, la medesima organizzazione è dichiarata da due spettacolari corridoi a doppia altezza; quello superiore era in origine illuminato nelle sezioni terminali da serliane ornate con le tipiche volute guariniane.
Nell'autunno 1662, il G. partì per Parigi, dove rimase fino al 1666. Vi era stato inviato dal padre generale dei teatini a dirigere i lavori di costruzione della chiesa di Ste-Anne-la-Royale, fondata dal cardinale Giulio Mazzarino, che assegnò all'Ordine un'area sulla sponda sinistra della Senna, di fronte alla galleria del Louvre. Tra le disposizioni testamentarie del cardinale figura un lascito di circa 100.000 scudi per l'edificazione della chiesa su progetto dell'ingegnere piemontese Antonio Maurizio Valperga, che aveva elaborato un impianto ovale, con volte a crociera e ampia cupola, "molto scomoda, scura e stretta, e quasi divisa in tre corpi separati" secondo l'opinione del G. (Lange, in G. G. e l'internazionalità del barocco, I, pp. 108-110; Klaiber, in Sperimentare l'architettura, p. 18).
Il progetto del G. fu approvato dagli esecutori testamentari di Mazzarino e dal capitolo teatino il 3 nov. 1663; il 22 novembre venne posta la prima pietra, ma il cantiere diventò operativo solo l'anno successivo. Il disegno della chiesa è organizzato su uno schema a croce greca, dilatato da un presbiterio che si salda all'estremità del braccio orientale. I pilastri della crociera, ruotati di 45° secondo i modelli del gotico francese, anticipano l'orientamento degli spazi voltati a crociera dei bracci della croce, con gli adiacenti ambienti ellittici. Gli studi sulle tecniche costruttive gotiche e sulla stereotomia consentirono al G. di modellare l'alzato della chiesa di Ste-Anne con una intelaiatura a scheletro, capace di catturare la luce e di imprimere un sorprendente movimento ascensionale all'intero impalcato, ove predomina il motivo delle volte a fasce intrecciate. La sezione prospettica della chiesa, inserita nei Dissegni, mostra infatti una successione verticale di spazi che, drammaticamente compressi nel primo registro, si dilatano improvvisamente alla quota del tamburo per poi ridursi nuovamente nella sequenza cupole-lanterna che ne riduce la percezione prospettica. La "struttura a traliccio", che allude a sequenze di spazi successivi, percepibili oltre le volte aperte, è adottata anche nella cupola con un intreccio di costole a fascia doppia (Meek, 1991, p. 37). Queste richiamano il soffitto borrominiano della cappella dei re magi nel collegio di Propaganda Fide, ma anche motivi decorativi di cupole islamiche, con le quali mostrano analogie sorprendenti, come rivela l'intradosso dell'iraniana moschea del Venerdì a Isfahan, datata al 1088 (Galdieri, in Lo specchio del cielo, p. 55). Nella sovrapposizione di cupole tronche e lanterna, con cui il G. conclude lo sviluppo ascensionale di Ste-Anne, è invece ravvisabile il suo tributo all'architettura francese seicentesca e in particolare alle sperimentazioni di F. Mansart nella chiesa della Visitation (1633) e a Blois (1635), ma anche alla tradizione costruttiva del gotico-francese. La composizione piramidale delle forze, che dalla lanterna terminale sono veicolate a terra da costole, lesene e colonne, è esplicitata dal risalto dato agli elementi portanti della struttura, trasformati in motivo decorativo. L'intento compositivo guariniano di sovrapporre volumi autonomi lungo un asse verticale, genera quella che Wittkower definisce "una pagoda a cinque piani" (1958-93, p. 355), in cui il G. giustappone al tamburo ottagonale l'estradosso della cupola nana, trattato esternamente come un secondo tamburo, preludio alla curvatura della calotta superiore e alla lanterna spiraliforme, che ricorda il S. Ivo romano. La costruzione eccessivamente gravosa per le finanze teatine, prostrate nel 1666 da una grave crisi finanziaria che sfociò nello scambio reciproco di accuse tra il G. e gli amministratori riguardo la cattiva gestione del cantiere, portò alla sospensione dei lavori dal 1668 al 1714. Il G. abbandonò il cantiere e Parigi nell'ottobre 1666. La chiesa, ultimata intorno al 1720, venne demolita nel 1823.
Negli anni del soggiorno parigino il G. affiancò il lavoro di architetto all'insegnamento della teologia e alla stesura del monumentale Placita philosofica physicis rationibus experientiis, matemathicisque ostensa, compendio delle sue ricerche in campo fisico, astronomico, filosofico e metafisico, pubblicato a Parigi nel 1665, in cui dichiara sorprendentemente la sua adesione all'universo geocentrico e il rifiuto della cosmologia di Copernico e Galileo.
A Parigi il G. elaborò anche il progetto per un grande palazzo, raffigurato nell'Architettura civile. L'impianto quadrato con facciate allungate alle estremità da appartamenti indipendenti e quattro scale agli angoli del cortile, due a pianta ovale e due a mandorla, ha dimensioni eccezionali, tanto da far avanzare l'ipotesi di un progetto per il Louvre. Questa è avvalorata dai contatti che il G. ebbe con Bernini, incaricato dello stesso progetto, che il 14 giugno 1665 fece visita al cantiere di Ste-Anne (Klaiber, in Sperimentare l'architettura, p. 25).
La permanenza a Parigi del G. si concluse nell'ottobre 1666, in seguito a una lite con il confratello Camillo Sanseverino per motivi economici. Una lacuna documentaria nei capitoli parigini tra il novembre 1665 e l'aprile 1666 ha indotto taluni a ipotizzare un viaggio a Nizza o a Lisbona, preliminare alla stesura di altrettanti progetti, non avallato però dalla storiografia ufficiale (Lange, in G. G. e l'internazionalità del barocco, I, p. 115). Il G. giunse a Torino il 4 nov. 1666, incaricato dai teatini dell'esecuzione della chiesa di S. Lorenzo, ma la sua presenza in questa città era stata sollecitata fin dall'anno precedente. Un denso carteggio tra il padre Maraviglia, generale dei teatini di Venezia e il duca di Savoia, Carlo Emanuele II, datato al dicembre dello stesso anno e finalizzato a svincolare il G. dagli impegni assunti con il re di Francia, svela l'intenzione sabauda di trattenere a lungo il G., forse per affidargli il cantiere della cappella ducale della Sindone. Il contenzioso tra Torino e Parigi si prolungò almeno fino al gennaio 1667, quando il G. lavorava già al modello della Sindone, assumendone la direzione del cantiere nel maggio 1668. Due anni più tardi venne ratificato anche il suo ruolo di progettista della chiesa di S. Lorenzo in piazza Castello, al contempo cappella ducale e chiesa titolare dei teatini, ai quali era stata assegnata nel 1634 dal duca Vittorio Amedeo I (Dardanello, in Torino 1675-1699, p. 43).
Alla metà del XVII secolo, Torino, rimasta a lungo fedele al suo tradizionale impianto medievale e rinascimentale, era stata plasmata dagli interventi urbanistici di Ascanio Vitozzi nell'area di Castello e nel nuovo quartiere realizzato nell'area sudest della città (Chierici, in G. G. e l'internazionalità del barocco, I, p. 360) e caratterizzata dalle architetture di Carlo e Amedeo di Castellamonte. L'esperienza che il G. apportò all'architettura torinese è densa di spunti eterogenei, acquisiti, assimilati e perfettamente integrati dalle esperienze romane, emiliane e siciliane, filtrate dall'ars aedificandi gotico-francese e arabo-ispanica. L'istanza innovatrice del pensiero guariniano è dichiarata dal progetto della chiesa di S. Lorenzo, la cui sofferta costruzione procedeva fin dal 1634 su impianto a croce latina variamente attribuito a Vitozzi, Carlo Morello e Carlo di Castellamonte (Meek, 1991, p. 55). Il G. elaborò la strabiliante deformazione elastica di una pianta a croce greca con bracci molto corti (Passanti, p. 128), connessa a una originalissima interpretazione dello spazio centrico, informato dalla rigorosa sequenza di figure concentriche. Tale strumento di controllo progettuale, ampiamente diffuso nel Rinascimento e nel Barocco romano, come testimoniano opere costruite e trattati di architettura, fu sottoposto dal G. alla intersecazione con i prodigi strutturali del gotico e delle architetture islamiche. L'icnografia del S. Lorenzo guariniano prevede infatti un grande spazio circolare centrale, idealmente inscritto in un ottagono a lati curvilinei, a sua volta racchiuso in un involucro quadrato di circa 24 m di lato. A quest'ultimo si salda lo spazio rettangolare del presbiterio, che inscrive la doppia ellisse del retroaltare. Lo spazio centrale è compresso e dinamizzato dalle otto superfici convesse di serliane su sedici colonne di marmo rosso. Nelle quattro cappelle diagonali, alla convessità del motivo a serliana, che è stato raffrontato con quello adottato da Bernini nella cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria a Roma (Meek, 1991, p. 55), si contrappone il taglio concavo che svuota e dissimula i piloni di sostegno alla cupola, alludendo alla sequenza spaziale dei coretti per funzioni private. La serliana posta in asse con l'ingresso, nell'annunciare la posizione del presbiterio dona un inaspettato afflato vitale allo spazio ellittico dell'altare coperto da una cupola circolare, creando al contempo l'illusione di una conformazione anulare del coro retrostante. In alzato, il dinamismo delle curve convesse trapassa nelle modanature concave dei pennacchi e da questi alla struttura della doppia cupola, che con i sostegni occultati e assicurati da catene, tiranti metallici e un'incastellatura di travi lignee poste sotto ogni arcone, sembra fluttuare nel vuoto. Per impedirne la flessione, le nervature sono frazionate in segmenti di arco a luce ridotta come nella cupola della moschea di Cordova del X secolo (Giedion, pp. 58 s.); esse si intersecano nella sezione centrale della calotta formando una stella a otto punte, che inscrive il perimetro ottagonale della grande lanterna, doppia e percorribile. L'arditezza statica della cupola di S. Lorenzo è resa possibile dalla straordinaria capacità guariniana di rappresentare lo spazio e di modellarlo in terza dimensione, che si coniuga magistralmente alla perizia dei lapicidi francesi e ticinesi, nonché dei muratori piemontesi e lombardi, abilissimi nel plasmare intricate membrature di pietre cotte (Chierici, in G. G. e l'internazionalità del barocco, I, p. 361). La cupola fu ultimata il 27 ott. 1679, quando venne messa in opera la croce della lanterna. Il 12 maggio dell'anno successivo il G. vi celebrò la messa inaugurale.
Il 19 maggio 1668 il duca Carlo Emanuele II conferì al G. la patente di "Ingegnere per la Fabbrica della Cappella del Santissimo Sudario con tutti gli onori […] e con lo stipendio di lire mille d'argento a soldi venti cadaun anno da cominciarsi a principio di gennaro dell'anno corrente" (Tiraboschi, p. 37).
Già dal secolo precedente erano stati redatti progetti per una cappella per la custodia e l'ostensione della Sacra Sindone da Pellegrino Pellegrini e Carlo di Castellamonte, fino all'assegnazione del progetto nel 1657 al ticinese Bernardino Quadri, affiancato dall'ingegnere e architetto ducale Amedeo di Castellamonte (Meek, 1991, p. 79).
La cappella è allogata al piano nobile del palazzo ducale ed è raggiungibile dal duomo di S. Giovanni attraverso due ripide scale fiancheggianti il presbiterio (Dardanello, in Torino 1675-1699, p. 43). Nel 1666 l'esecuzione del progetto di Quadri fu sospesa per difficoltà tecniche connesse alla realizzazione della cupola di grande luce e spinta difficilmente controllabile. Il G. elaborò in pochi mesi il modello ligneo del nuovo progetto (Borgonio, Theatrum Sabaudiae, Torino 1682, tav. 19). I vincoli imposti dalle preesistenze suggerirono al G. la trasformazione della cappella in una sequenza turrita, ottenuta dallo sconcertante sollevamento del tamburo su tre archi piegati verso l'interno e altrettanti pennacchi cassettonati, che ne riducono la luce di circa un quarto rispetto alla cupola (Meek, 1991, p. 88). Il tamburo svuotato da sei grandi finestre arcuate e contraffortato da una galleria anulare, sostiene la cupola scaricandone il peso sulle murature esterne. L'intradosso della calotta, dimensionalmente contenuto, simula sviluppo e profondità smisurati, grazie all'intreccio di dodici costole murarie, serrate in chiave da una stella a dodici punte che inscrive l'imposta della lanterna con terminazione cuspidata come il S. Ivo borrominiano. Le costole ricurve, che incorniciano sottili aperture finestrate, sono fissate da una doppia cerchiatura di incatenature metalliche, a costituire una "struttura reticolare in muratura pietra e ferro, alleggerita da una miriade di finestrini e quasi priva di spinte orizzontali" (Dardanello, in Torino 1675-1699, p. 48). Tecnicamente questo effetto è ottenuto grazie alla perfetta sagomatura degli elementi di marmo bigio di Frabosa, eseguita a piè d'opera, e alla levigatura superficiale che ne accentua il distacco dallo scintillio del marmo e dell'oro del registro basamentale. Alla morte del G. guidò il cantiere Antonio Bertola, che lo portò a compimento nel 1694. Danneggiata da un incendio nel 1997, la cupola della Sindone è stata poi sottoposta a un delicato restauro.
Nel 1671, il G. tornò a Modena per una breve visita, con l'obbligo però di far ritorno a Torino, dove lasciò "in pegno" a un libraio il manoscritto dell'Euclides adauctus et methodicus mathematicaque universalis. La sua editio princeps data proprio al 1671, alla quale seguirà la ristampa del 1676; si tratta di un compendio di studi matematici e geometrici, con incursioni nella geometria proiettiva. L'atteggiamento ostile della Comunità modenese mutò solo nel 1672, quando Francesco II d'Este premette sul G. per indurlo a rientrare nella città natale. L'architetto, preso dai cantieri della Sindone e di S. Lorenzo, rifiutò; ebbe inizio così un lungo contenzioso tra Francesco II e i Savoia per assicurarsi l'opera del G., che proseguì nella conduzione dei cantieri ducali, attività alla quale affiancò, nel 1674, la pubblicazione de Il modo di misurare le fabriche, un manuale destinato a progettisti, costruttori e misuratori per agevolarne il calcolo delle superfici e dei volumi realizzati, preliminare a computi e stime economiche. Contemporaneamente, lavorò alla stesura del Coelestis mathematica, summa delle sue conoscenze astronomiche, pubblicato postumo. Tra il 1673 e il 1674, Carlo Emanuele II gli affidò il progetto della chiesa dell'Immacolata Concezione, per i missionari di S. Vincenzo de' Paoli stabilitisi a Torino nel 1658, la cui costruzione fu avviata nel 1675 (Tamburini, in G. G. e l'internazionalità del barocco, pp. 385-397). Nello stesso anno si aprì il cantiere della casa teatina di S. Vincenzo a Modena sulla base del disegno del G., contemporaneamente coinvolto nell'impresa editoriale del Theatrum Sabaudiae, in lavorazione nelle stamperie di Amsterdam. Per esso forse collaborò alla redazione dei testi allegati alle tavole che raffigurano la Regia Accademia, piazza Carolina e porta di Po, demolita nel 1813, e per la quale il G. elaborò un progetto con campata centrale convessa ornata da colonne tuscaniche (Meek, 1991, p. 176). Tra il 15 ottobre e il 17 nov. 1675 è certa la presenza del G. a Vicenza, dove aveva già soggiornato alla fine del dicembre 1672. Risalgono forse a questo primo periodo i progetti per la chiesa teatina di S. Gaetano e quella del convento delle clarisse dedicata a S. Maria d'Aracoeli, costruita tra il 1675 e il 1680 con la direzione di Carlo Borrella (Dardanello, in G. a Vicenza, p. 12).
L'irrealizzato progetto del G. per la chiesa dedicata ai santi protettori di Vicenza, Vincenzo e Gaetano da Thiene, fu sollecitato dagli stessi teatini che lo sottoposero all'approvazione dei deputati della città alla fine di ottobre 1675. Esso comportò una serie di problemi legati alla elezione del sito, che rese necessari vari espropri. Proprio la consistenza economica di tale intervento e l'inserimento in un contesto architettonico informato da architetture di matrice tardogotica, palladiana e scamozziana, decretò nel 1685 l'abbandono del progetto guariniano. Un disegno autografo dell'Archivio generale dei teatini in Roma è stato riconosciuto come studio preparatorio del progetto definitivo allegato ai Dissegni (Roca de Amicis, 1993, pp. 109-114; Klaiber, 1994, pp. 501-505; G. a Vicenza, 2002, pp. 9-12).
L'impianto di S. Gaetano si articola in un involucro trapezoidale che inscrive una croce greca, generata dalla combinazione di ambienti ellittici e circolari. Tra questi, lo spazio della cupola maggiore è delimitato da quattro piloni ruotati di 45° verso il centro geometrico della costruzione. A esso si agganciano gli involucri ellittici dei bracci principali, intersecati da quattro ambienti circolari minori. Nel presbiterio, che con la sua curvatura accentuata richiama l'ovato del braccio adiacente, una serliana ad arco ricurvo e terminazioni semicircolari allude a uno sviluppo anulare. La complessità formale dell'impianto è replicata in alzato dalla potente cornice del primo ordine; pilastri e murature portanti, affiancati da colonne libere, sostengono un chiaro intreccio di cupolette e volte nervate, che, agganciandosi alla doppia calotta della cupola centrale, ne ammortizzano la spinta scaricandone a terra il peso. Il tema della pianta centrale sarà rielaborato e perfezionato dal G. nei progetti per la chiesa di S. Filippo Neri a Casale Monferrato, per il santuario di Oropa e per la chiesa di S. Gaetano a Nizza, redatti tra il 1679 e il 1680.
Durante uno dei suoi viaggi in Veneto, il G. fu incaricato anche del progetto per l'altare maggiore della chiesa teatina di S. Niccolò a Verona, incluso nelle tavole dei Dissegni, la cui cronologia rimane a tutt'oggi problematica.
Nel 1676 fu avviato il cantiere di ristrutturazione del castello feudale di Emanuele Filiberto di Savoia Carignano a Racconigi, per il cui progetto, esteso anche al giardino e al borgo nell'intento di trasformare una fortezza medievale in palazzo e giardino di delizie alla francese, il G. fu retribuito l'anno seguente (Meek, 1991, p. 101). Prima prova del G. come progettista di palazzi, il castello Racconigi rivela il pieno controllo dell'architetto anche sulla tipologia residenziale su vasta scala, per la cui elaborazione si rifà esplicitamente ai modelli francesi.
L'impianto è strutturato in un blocco principale, perforato da un profondo atrio, affiancato da quattro padiglioni angolari che dilatano gli originali torrioni medievali. Fiancheggiano l'accesso all'atrio sul fronte settentrionale due scale a pianta ovale, che trasferiscono all'interno dell'edificio, regolarizzandolo, il motivo a losanga incurvata dello scalone di accesso. A esso fa eco, sul fronte opposto del giardino, una scala con doppia rampa a collo d'oca, che racchiude il perimetro irregolare di una grande fontana. Il vestibolo di accesso è preannunciato da una loggia aperta, unica fonte di luce, mentre all'interno volte a fasce di vario disegno, alcune forse ribassate, coprono diverse sale del palazzo. Al piano superiore, la sala centrale si apre improvvisamente in una grande volta sorretta da colonne corinzie da cui si dipartono pennacchi che incorniciano "volte acute svuotate in settori circolari alterni, così da permettere l'afflusso della luce dalle finestre del padiglione sporgente sul tetto della costruzione centrale" (Meek, 1991, p. 102). Esternamente, una cortina di laterizi rossi piemontesi scandisce ritmicamente i prospetti con lesene a fascia, che tramutandosi talvolta in piatte bugne angolari, inquadrano finestre impreziosite al piano nobile da timpani spezzati e mistilinei. Nulla di quanto progettato dal G. per la sistemazione della gigantesca corte, racchiusa da un portico semicircolare, venne realizzato: alla sua morte gli subentrò nella direzione del cantiere G.F. Baroncelli, mentre la scala a collo d'oca venne costruita ai primi del Settecento da Michelangelo Garove.
I molteplici settori di indagine teorica portarono il G. a occuparsi anche di fortificazioni. La dedica del Trattato di fortificazione che hora si usa in Fiandra, Francia et Italia, edito in sei libri nell'aprile 1677, al principe Ludovico Giulio di Savoia, nipote di Emanuele Filiberto di Carignano, esplicita l'intento didattico dello scritto del G., pur pervaso da un "pronunciato tecnicismo specialistico, contrappunto con rigore da una scrittura scarna e concisa" (Sciolla, in G. G. e l'internazionalità del barocco, I, p. 514). Nuovi contrasti con il padre teatino Carlo Emanuele Romagnano di Virle, priore dei teatini torinesi, anticiparono il sospirato rientro del G. a Modena, dove giunse nell'aprile 1677. La corte sabauda, per voce di madama reale, la reggente Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours vedova di Carlo Emanuele II, reclamò il completamento delle opere da lui avviate a Torino, temendo insormontabili difficoltà esecutive. Al contempo la corte torinese ordì una sottile trama diplomatica, che portò all'allontanamento di padre Vierle e al ritorno a Torino del G. il 14 febbr. 1678. Nello stesso anno il G. compì un nuovo breve viaggio di lavoro a Modena, dove era in corso la costruzione della casa di S. Vincenzo diretta dal teatino Giovanni Fontana, ma dove contava di ritornare al più presto. Una quanto mai opportuna nomina a preposito della casa teatina di Torino il 20 maggio 1679, voluta da madama reale, legò il G. alla città sabauda con una posizione di privilegio all'interno della comunità religiosa e con il moltiplicarsi degli incarichi professionali. Risale invece all'anno precedente il progetto per la chiesa della Consolata, che sostituisce la preesistente chiesa romanica di S. Andrea e per la quale il G. disegnò un impianto ovale dilatato da cappelle e da un importante presbiterio esagonale, con cupola a spicchi su sei pennacchi, modificato da F. Juvarra nel 1729, che vi aggiunse un profondo coro.
Il 1679 fu un anno di profondo fermento artistico per il G., impegnato, tra gli altri, nella redazione dei progetti per i palazzi Carignano e Madama, per la chiesa di S. Filippo Neri a Torino e per il collegio gesuitico dei nobili in piazza S. Carlo, con impianto a C allineato con il fronte stradale, che ne consente una percezione sostanzialmente bidimensionale, accentuata dal trattamento della facciata in laterizio con ordini sovrapposti di lesene e nel ritmo imperioso delle aperture con timpani spezzati e finestrati (Dardanello, in Torino 1675-1699, pp. 175-252).
Il palazzo di Carignano stigmatizza l'elaborazione tipologica guariniana della residenza regale, qui finalmente libera di esprimersi senza il vincolo di preesistenti impianti murari (Piccoli, in Sperimentare l'architettura, p. 42). Il progetto del G. interessa dapprima l'intero corpo, distribuito intorno a un grande cortile centrale chiuso da quattro ali, per concentrarsi poi nell'elaborazione del corpo principale, prospiciente l'omonima piazza. Tra i tanti spunti elaborati dal G. emerge la ricercata conformazione dell'ala centrale, con l'accesso dalla città, realizzata solo nella facciata nord e nel salone. Essa si articola nella simmetrica disposizione di ambienti ai lati di un importante atrio di ingresso, dapprima a tre navate poi ovato. Nel quarto progetto redatto dal G. per il corpo centrale, l'accesso dalla piazza è filtrato da un vestibolo esagonale che introduce nell'atrio, scandito dal ritmo di otto coppie di colonne ioniche e coperto da una grande volta piana su pennacchi. La facciata verso il cortile esplicita tale disegno con l'accentuata convessità del prospetto finestrato, scandito dall'opera laterizia a fasce e impreziosito dalla reiterazione del motivo stellare a otto punte. L'accesso agli ambienti del palazzo, non in asse con l'ingresso dalla piazza, è garantito dalla geniale soluzione di una monumentale scala ovale, summa della ricerca condotta dai maestri del barocco italiano (la scala di Borromini in palazzo Carpegna a Roma ne costituisce solo un esempio) e preludio alle successive elaborazioni del Settecento europeo (Meek, 1991, p. 127). Il prospetto è plasmato nei toni caldi di una perfetta cortina laterizia dalla misurata curvatura. Il registro centrale, con sequenza concavo-convessa, è serrato tra due padiglioni rettilinei, scanditi da pilastri e lesene corinzie giganti disposti con ritmo analogo al progetto berniniano per il Louvre (Battisti, in G. G. e l'internazionalità del barocco, II, p. 150). Al piano nobile, un grande salone ellittico, articolato da pilastri corinzi di ordine gigante, balconate e finestre quadre, è illuminato da una doppia volta interrotta da un ampio oculo ovale attraverso il quale filtra la luce riflessa dalle finestre circolari del lucernario, ma pesantemente modificato nelle epoche successive. Avviato nell'agosto 1679, alla morte del G. il cantiere era giunto alla quota della volta del salone, per la cui realizzazione si stavano approvvigionando i materiali (Piccoli, in Sperimentare l'architettura, pp. 41-47; Verzone, in G. G. e l'internazionalità del barocco, I, pp. 401-407). Nel 1685 i lavori si interruppero per l'esilio del principe di Carignano, che si insedierà nel palazzo solo nel 1693.
Tra il 1679 e il 1680, il G. sviluppò il tema della residenza privata, ove reintrodusse a vario titolo il motivo dell'opera a fasce piane orizzontali e verticali che inquadrano le aperture, mutuato da modelli emiliani, nei progetti per il palazzo di Marc'Antonio Graneri abate d'Entremont a Torino, ultimato a Govone nel 1699 con la direzione di Baroncelli, del castello per il conte Francesco Ottavio Solaro, primo scudiero di madama reale e governatore del principe Amedeo di Carignano, e nella villa nelle campagne di Grugliasco per Valeriano Napione, maggiordomo di Emanuele Filiberto di Carignano.
Il progetto per la chiesa di S. Filippo Neri (1679) si colloca invece ad apice ideale della ricerca guariniana sul tema dello spazio sacro a pianta longitudinale, che passa attraverso la combinazione di moduli circolari nel coevo progetto per la chiesa della Confraternita di S. Caterina a Ceva, fino a quello più articolato per la chiesa teatina di S. Maria Ettinga a Praga, datato al 1679, con tutta probabilità redatto a Torino e spedito in Boemia senza che il G. vi si fosse mai recato (Lange, in G. G. e l'internazionalità del barocco, I, p. 115; Meek, 1991, p. 149). Nel S. Filippo Neri, obbligato al rispetto delle fondazioni realizzate su progetto di Antonio Bettino a partire dal 1675, il G. articola lo spazio in tre campate ottagonali, solo apparentemente autonome, coperte da volte a padiglione su archi trasversali piegati a gomito e sorretti da pilastri ribattuti dalle colonne, che si incuneano nella navata, generando una sequenza di pause spaziali cariche di tensione (De Bernardi Ferrero, in G. G. e l'internazionalità del barocco, I, p. 417). Alle tre campate si saldano i volumi identici del vestibolo e del presbiterio, che generano un'imprevista simmetria trasversale, ribattuta dalle sei cappelle rettangolari con terminazioni absidate. La chiesa, realizzata dopo la morte del G. su altro progetto, forse del ticinese M. Garove, crollò nel 1714. Fu ricostruita qualche decennio più tardi da Juvarra.
Il 9 giugno 1680 Emanuele Filiberto nominò il G. teologo della sua casa, carica prestigiosa con una cospicua retribuzione di 400 lire annue: riconoscimento ufficiale della decennale attività guariniana e della straordinaria abilità mostrata nel "disegno della Capella della Sindone" e in altre opere di architettura. Datano a questo periodo i disegni redatti dal G. su commissione dell'ordine per diverse città europee e allegati alle tavole dell'Architettura civile: essi riguardano, tra gli altri, la chiesa di S. Maria della Divina Provvidenza a Lisbona (Klaiber, 1993, pp. 319-443).
Le numerose affinità con elementi architettonici arabo-ispanici sembrano ricondurre questo progetto allo studio di disegni di architettura spagnola, avuti forse tramite padre Antonio Ardizzone guida spirituale dei teatini portoghesi, al quale è dedicato. Il progetto, a croce latina con navata e cappelle laterali, è rinnovato dalla sinuosità delle morbide ondulazioni perimetrali. L'impianto è generato dall'intersezione dei vani circolari delle due campate con cupola costolonata a sesto rialzato e lanterna, del presbiterio cupolato e del transetto, che si allunga in due vani ellittici. Nella monumentale cupola del transetto la lanterna ottagonale e numerose finestre irradiano di luce gli interni (De Bernardi Ferrero, in G. G. e l'internazionalità del barocco, I, p. 418). Il movimento ondeggiante delle chiusure verticali trapassa anche negli elementi dell'ordine architettonico, definito dal G. "corinto supremo" (Architettura civile, trattato III, cap. VIII, pp. 175-180, tavv. 17 s.), nella dichiarata ricerca di una perfetta "fusione spaziale". Il corinzio ondeggiante, "non conosciuto da' Greci e Romani", ma esemplificato dalle colonne tortili della cappella della Pietà nella basilica di S. Pietro a Roma, che la leggenda ascrive al mitico tempio di Salomone, è rielaborato e codificato dal G. in alternativa a quello già illustrato da Jacopo Barozzi da Vignola (1507-73) nelle Regole delli cinque ordini d'architettura nel 1562.
La chiesa guariniana della Divina Provvidenza, che doveva sostituire quella lignea costruita provvisoriamente dai teatini nel 1653, con tutta probabilità non fu mai eseguita. Il definitivo consenso all'edificazione della chiesa, distrutta dal terremoto del 1775, data infatti al 1681, mentre risale al 1698 l'avvio effettivo dei lavori (Meek, 1991, p. 23).
Per tutto il 1681 un fitto carteggio tra il duca di Modena e madama reale documenta il prolungarsi del contenzioso tra Modena e Torino per assicurarsi la presenza del Guarini. Nell'aprile dello stesso anno una lettera indirizzata al duca di Modena, attesta la presenza del G. a Milano (Carboneri, 1968, p. XVII). Un pagamento datato all'aprile dell'anno successivo, relativo ai lavori per l'altare maggiore di S. Lorenzo, riferisce sul rientro del G. a Torino. Al volgere del febbraio 1683, il G. si recò nuovamente a Milano per seguire la lavorazione del volume Coelestis mathematicae pars prima et secunda, strutturato su due precedenti studi astronomici, il Compendio della sfera celeste (1675) e la Leges temporum et planetarum (1678), codedicato a Francesco II d'Este e a Emanuele Filiberto di Carignano, ma pubblicato postumo. Rimase invece inedita l'Architettura civile, della quale venne pubblicata nel 1686 una prima raccolta di 44 tavole, edita a Torino, dal titolo Dissegni d'architettura civile et ecclesiastica inventati, e delineati dal padre d. Guarino Guarini modonese de chierici regolari theatini matematico dell'Altezza Reale di Savoia (Carboneri, 1968, p. XVIII). L'editio princeps dell'Architettura civile… Opera postuma dedicata a sua Sacra Reale Maestà, data invece al 1737.
Corredato da altre 35 tavole, alle quali fu aggiunta l'Annunziata di Messina, dedicato a Carlo Emanuele III e stampato a Torino per incarico dei chierici regolari di S. Lorenzo, il testo è curato da Bernardo Antonio Vittone, che riordinò dati, appunti e manoscritti del G. apportandovi integrazioni facilmente individuabili per il lessico ridondante e retorico (Cavallari Murat, in G. G. e l'internazionalità del barocco, I, pp. 451-477; Carboneri, 1968, pp. I-XLVII).
L'Architettura civile informata dall'asciuttezza e dal rigore propri del carattere e della formazione del G., che concepisce l'architettura come mera branca della matematica, si articola nei cinque "trattati" dei principî di architettura generale, icnografia, ortografia elevata, ortografia gettata e geodesia, a loro volta suddivisi in capitoli e osservazioni. Nella concezione guariniana, pur non prescindendo dall'insegnamento di Vitruvio e dei teorici rinascimentali, l'architettura deve necessariamente guardare ai presupposti razionalistici del pensiero filosofico e alla giovane ricerca sperimentale. Il rinnovamento proposto dal G. investe proporzioni e simmetria, fondamenti sintattici del lessico architettonico, "cui è lecito derogare in favore di una misurata illusione ottica, parzialmente mutuata dal linguaggio gotico" (Carboneri, 1968, p. XXIII). I dogmi della trattatistica rinascimentale costituiscono sostegno inappellabile nella definizione delle tipologie architettoniche e dell'ordine architettonico, ma non sfuggono all'acuta critica guariniana che si traduce nella personalissima interpretazione di svariati modelli, tra cui quelli forniti dagli scritti di Philibert de l'Orme. La validità del metodo guariniano è silenziosamente asseverata dalla straordinaria sequenza di incisioni delle opere, clamorosamente poste a chiusura del trattato.
Il G. morì a Milano il 6 marzo 1683.
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