GUCCIO di Mannaia
Orafo attivo a Siena, ove risulta documentato dal 1291 al 1318, soprattutto come incisore di sigilli.Il nome di G. ricorre, quale unica attestazione esecutiva provatamente riferibile all'artista, su un calice di argento dorato e smalti donato da papa Nicolò IV (1288-1292) alla basilica di S. Francesco ad Assisi (Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco), opera fondamentale nella storia dell'oreficeria senese, la cui eccezionalità - ribadita in modo unanime dalla critica (Toesca, 1927; Hueck, 1969; Gauthier, 1972a) - si lega alla comparsa, cronologicamente precoce e tuttavia già matura sotto il profilo tecnico e stilistico, dello smalto traslucido su bassorilievo.Esigui i dati utili ai fini della ricostruzione della biografia di G., nato forse all'inizio della seconda metà del Duecento e formatosi, verosimilmente, in ambito locale, e dunque nella temperie artistica di marca oltremontana della Siena degli anni 1270-1280. Fratello di Gheri e Pino di Mannaia (Hueck, 1969) - orafo anche quest'ultimo -, menzionati entrambi più volte fra il 1311 e il 1312 in documenti cittadini daziali (Siena, Arch. di Stato, Libro della Lira, 7, c. 148r; 10, cc. 19r, 101r), G. fu padre di tre figli (Montigiano, Mannaia e Giacomo), ricordati come "aurifices senenses de populo Sancti Iohannis" in un contratto di vendita del 1329 (Siena, Arch. di Stato, Gabella Contratti 47, c. 322r; Cioni Liserani, 1979), a testimonianza della cui produzione tuttavia nulla è pervenuto (Machetti, 1929).Compreso solo nel 1311 fra gli iscritti alla Corporazione degli orefici della città (Siena, Bibl. Com. degli Intronati, B I 13; Machetti, 1929), G. risulta, tuttavia, già in precedenza più volte citato: nel gennaio 1291 "per la puliza da sugelare le pulize de la cabella" (Siena, Arch. di Stato, Gabella Generale 12, c. 262r) e nel marzo dello stesso anno, insieme a Sozo Montechi orafo, per l'affitto del mulino da Serravalle (c. 134v). Il nome di G. compare quindi nei registri di Biccherna per pagamenti corrispostigli a fronte dell'esecuzione di vari sigilli: nel 1292 "pro camerario pro sigillandis apodixiis" (Siena, Arch. di Stato, Biccherna 108, c. 134v), nel 1294 "pro pulitiis" (Biccherna 110, c. 98r), in seguito "pro dominis novem" (Biccherna 114, c. 159v), quindi, nel 1318, "pro uno sigillo camerarii cum quo sigillandis apodisse" (Biccherna 135, c. 69r) e ancora per un altro "el quale sugella el cam(arlengo) di biccherna le policie" (Biccherna 136, c. 77r; Cioni Liserani, 1979).La perdita di una simile produzione, cui nel caso specifico del sigillo ufficiale inciso per i Nove parrebbe fornire un attendibile, sia pur indiretto, modello iconografico quello dipinto da Simone Martini nella Maestà (1315) del Palazzo Pubblico di Siena (Hueck, 1969), mentre apre la questione del problema attributivo legato alla identificazione di un possibile catalogo delle matrici incise dall'artista e, più latamente, alla definizione delle coordinate evolutive della sua parabola stilistica, lascia, per contro, ancor più isolato, in termini di compiutezza formale e sperimentazione tecnica, il lavoro assisiate.Descritto già dal 1298 nel più antico inventario della basilica come "calix argenteus et inauratus pretiosus" (Inventario d'Assisi, XVII, n. 51), cui in occasione del donativo papale venne peraltro legata un'indulgenza di quaranta giorni (Kleinschmidt, 1915-1928, I), il calice di Assisi (altezza cm. 22) si configura come un lavoro in argento, fuso a cera persa, cesellato, inciso e dorato, costituito da un'ampia base troncoconica terminante in un piede profilato da sedici lobi, su cui insiste, diviso in due segmenti da un nodo sferico lievemente depresso alla circonferenza, un fusto a otto lati, al di sopra del quale poggia una coppa ellissoidale, liscia, lavorata a imbutitura (diametro cm. 10 ca.). Una ornamentazione fogliacea, entro la quale si snoda un motivo nastriforme, decora gli spazi di risulta fra i novantasei smalti posti a formare - in dodici serie suddivise ciascuna in otto placchette - un programma iconografico complesso, al cui interno, il miracolo eucaristico della transustanziazione del sangue di Cristo, implicito nella simbologia stessa del vaso liturgico, viene a essere sotteso - più in particolare - al tema del ruolo salvifico della Crocifissione, nella versione d'umiltà datane dalla mistica francescana (Gauthier, 1972a). Ne deriva un serrato schema compositivo delle singole parti figurate, articolate sia in senso radiale sia secondo una scansione progressiva, ascendente e segnatamente gerarchica dei soggetti: alla base del calice, in quattro ordini sovrapposti di elementi polilobati, circolari e scudiformi, figurano infatti, su assi simmetrici, i temi dell'Incarnazione e della Redenzione affiancati, rispettivamente, dalle figure di S. Bonaventura, di un papa - forse lo stesso committente -, nonché di S. Francesco e S. Chiara in atto di ricevere le stimmate; accanto, in reciproca alternanza, risultano inseriti i simboli dei quattro evangelisti insieme a figure di cervi e leoni pacificati in prefigurazione dell'armonia universale; al di sopra, una serie di aquile, sormontate a loro volta da figure angeliche, allude verosimilmente, nella interpretazione del Physiologus, alla ricerca della luce.Sullo stelo, cinto inferiormente da placchette rettangolari contenenti l'iscrizione GUCCIUS MANAIE DE SENIS FECIT. NICCHO(L)AUS PAPE QUARTUS, si impostano quindi le due calotte emisferiche del nodo, sottolineate, all'equatore, da una sequenza di piccoli medaglioni con le immagini di Cristo circondato da un ridotto consesso di sette apostoli, cui fanno da coronamento, inferiore e superiore, due ordini di elementi a scudo con rappresentazioni di uccelli in volo simboleggianti - analogamente a quelli campiti sul collarino superiore dello stelo, entro archi trilobi - tanto il miracolo della predicazione di s. Francesco, quanto le anime redente dal sacrificio della Croce (Gauthier, 1972a). Otto angeli adoranti, entro placchette dal profilo mistilineo, sormontano infine, in corrispondenza della corolla della coppa e a conclusione ideale della stesura iconografica, l'intero gruppo degli smalti. Al loro interno, attestano una fase di applicazione ancora sperimentale del nuovo mezzo la parziale conformità al procedimento bizantineggiante di scavo della lamina nei fondi - peraltro bulinati con un fitto tratteggio a incrocio a nascondere le imperfezioni delle parti incise -, le zone in rosso opaco, la relativa tenuità cromatica del blu di cobalto, nonché l'uso di una tecnica ancora arcaicizzante, a parti 'risparmiate' nella resa dei volti e delle capigliature: a fronte di ciò 'nascono', viceversa, nella elaborazione dell'artista l'impiego dell'argento come mezzo in grado di riflettere la luce, l'integrazione, su un unico piano, di disegno, colore e spazio, la messa a punto di un bassorilievo molto graduato per le figure, la trasparenza della pellicola vitrea applicata in strati sottili, la varietà, infine, della tavolozza cromatica, cui ai neri, blu, gialli-arancio e ai bruni si aggiungono il verde, l'ambra, il granato, il malva e il violetto, questi ultimi dovuti probabilmente al recupero del manganese (Gauthier, 1972a).Sostanzialmente di ordine tecnico, sebbene in grado di tradursi anche in veicolo di aggiornamento stilistico nell'accezione guccesca, tesa a rendere in termini di acuto linearismo il portato 'francesante' reinterpretandolo alla luce della lezione cimabuesca, l'adozione del traslucido - a fronte del quale permangono, peraltro, nel calice numerosi indizi di una configurazione strutturale ancora duecentesca - emerge come fattore essenziale nella valutazione dell'opera, non solo ai fini della comparsa isolata e anticipatrice della nuova tecnica quanto, soprattutto, nell'ottica della definizione dei suoi possibili precedenti e della sua ripresa nel corso della produzione dell'artista nonché dell'andamento successivo delle sue scelte.Acquisizione critica relativamente recente, il progressivo avviamento di un catalogo delle opere attribuibili a G. ha permesso di articolare le linee di indagine oltreché in base alle evidenze oggettive e documentarie - un lavoro firmato e una produzione sfragistica nota - anche sulla definizione del suo ruolo quale probabile imprenditore di bottega, sulle dinamiche e sui modi della trasmissione del sapere e della suddivisione dei compiti all'interno di questa, sul concetto e sull'estensione di cerchia, nonché sulla fisionomia della produzione affine e contemporanea a G. stesso (Leone de Castris, 1984).Così ampliati, i termini del problema risultano attestarsi, in primo luogo, nell'enucleazione delle linee di indirizzo del contesto della produzione suntuaria senese fra l'ultimo quarto del Duecento e gli inizi del secolo successivo. In questo quadro, ancora troppo frammentario, è possibile inscrivere fino a oggi - fra eredità bizantina e importi tecnico-figurativi d'Oltralpe mediati attraverso la versione offertane dal movimento svevo prima e dalla lezione dei Pisano poi (Bologna, 1982) - da un lato il nome di due orafi come Pace di Valentino e Toro da Siena, attivi sullo scorcio del secolo per la committenza papale romana, ancorché non collegabili direttamente a opere pervenute né a un precoce, verosimile, impiego del traslucido, dall'altro pochi manufatti di tipo ora marcatamente eterogeneo (cofanetto in rame dorato e smalti: opachi ad alveoli su oro, secc. 11°-12°; esalobi a fioretti su oro, ultimo terzo del sec. 13°; traslucidi su argento, prima metà del sec. 14° e metà del sec. 14°; Siena, Ospedale di S. Maria della Scala), ora più semplicemente imitativo nei confronti dei prodotti renano-mosani o limosini (placche in rame dorato con figure a sbalzo, smalti champlevés opachi e risparmiati, 1290-1300; Cleveland, Mus. of Art), trasmessi nel caso specifico di un'opera come il reliquiario della testa di S. Galgano (1290-1300; Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana) attraverso il canale cistercense, autonomamente produttivo quando non addirittura mezzo funzionale di passaggio dalla Francia in Italia di prodotti di oreficeria (Leone de Castris, 1979).Coerente con tali presupposti, un esordio di G. come autore di smalti su rame, peraltro già ipotizzato in sede critica e tuttavia difficile da conglobare, per difetto dello stato di conservazione, in una placchetta a champlevé risparmiato su rame inciso e dorato con santo vescovo in trono (Parigi, Louvre), recentemente avvicinatagli (Leone de Castris, 1984), appare, oggi, per mancanza di confronti, poco definibile, specie considerando come ormai sufficientemente acquisita l'esclusione dal legame con l'artista delle due placchette circolari con S. Elisabetta d'Ungheria (Parigi, Louvre) e S. Antonio (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kunstgewerbemus.) e di quella rettangolare (Firenze, Mus. Naz. del Bargello) con la Madonna in trono tra i ss. Pietro e Paolo (1310; Hueck, 1969), tutte su rame a figure risparmiate, affini sotto il profilo stilistico e quasi coeve (Cioni Liserani, 1979), dubitativamente assegnate a G. stesso o alla sua bottega (Gauthier, 1972a; 1973) per poi essere ascritte a una personalità vicina all'artista nonché partecipe della sua cultura (Hueck, 1969) - forse Duccio di Donato (Cioni Liserani, 1979; 1982; 1987) -, ovvero ai modi iniziali - verso il 1315 - di un orafo come Tondino di Guerrino, di una generazione successiva (Leone de Castris, 1984).Non ancora oggetto di una definitiva selezione di manufatti, né di una loro sequenziale sistemazione, l'attuale teorico corpus della produzione guccesca si fonda, di conseguenza, su una serie di ipotesi attributive più o meno ricorrenti, formulate in base a parametri stilistici ancora distinti e dunque subordinate, per quanto attiene alla loro plausibiltà, a criteri quantitativi e probabilistici.In tale dinamica rientra, in primo luogo, in una data immediatamente successiva al 1295, anno di fondazione della Società dei raccomandati al Santissimo Crocifisso di Siena - cui risultano, peraltro, iscritti i due fratelli di G. -, un sigillo inciso per tale istituzione: entro il campo ogivale della matrice in bronzo dorato (Roma, Mus. del Palazzo di Venezia, Coll. Corvisieri Italiana, inv. nr. 177) figura infatti Gesù crocifisso fra la Vergine e s. Giovanni dolenti, le cui affinità stilistiche sia con le impronte dei sigilli dei cardinali Matteo d'Acquasparta (Roma, Arch. Segreto Vaticano, AA. Arm. I-XVIII), del 1291 ca., e Teodorico da Orvieto (Parigi, Arch. nat., DD 6173), del 1299 ca. (Gardner, 1975), sia con l'analogo soggetto assisiate hanno consentito l'assegnazione dell'intero gruppo all'artista (Cioni Liserani, 1979; Previtali, 1982; Leone de Castris, 1984). Si tratta di una linea produttiva ipotetica utile per saldare - sia pur limitatamente - l'ultimo decennio del secolo con gli inizi del successivo, cui si legano tanto una croce astile con placchette a traslucido databile intorno al 1305 (Firenze, Mus. Naz. del Bargello; Leone de Castris, 1979), quanto una Crocifissione su marmo di Carrara degli anni 1310-1315 (Siena, S. Pellegrino alla Sapienza; Hueck, 1969).L'assegnazione a G. della croce, ottenuta grazie al riconoscimento di un'identità di caratteristiche con gli smalti del calice - sebbene resi nella fattispecie alla luce della rielaborazione della pittura cimabuesca di Duccio di Buoninsegna e del primo Memmo di Filippuccio -, appare opporsi, in termini evolutivi, alla possibilità di accogliere contestualmente nel suo catalogo la lastra di Siena - da taluni peraltro negata alla mano dell'artista (Gauthier, 1972a; Leone de Castris, 1979) -, ove alla resa più ampia e posata delle figure parrebbe in realtà corrispondere una conoscenza, e dunque uno sviluppo dell'orafo in tal senso, dei modi di Giotto nella Crocifissione della chiesa inferiore della basilica di S. Francesco ad Assisi, o piuttosto di Pietro Lorenzetti (Cioni Liserani, 1979). L'espunzione viceversa dell'opera del Bargello dalla produzione di G. - cui finirebbe, peraltro, per far seguito anche una croce in lamina (Londra, Vict. and Alb. Mus.) databile intorno agli anni 1330-1340 (Campbell, 1988) e postale in linea di discendenza (Leone de Castris, 1984) - basata, secondo certa critica (Cioni Liserani, 1982; Ericani, 1984), sulla probabilità di una doppia esecuzione delle parti scultoree e a smalto e sul maggiore calligrafismo di queste - ben inquadrabili viceversa nei termini di una produzione vicina all'orafo stesso, a lui coeva, quando non addirittura dipendente al suo entourage, come quella cui potrebbero appartenere la croce del vescovo Ildebrandino dei Conti (Padova, cattedrale), del 1339, e quella di S. Maria in S. Pietro a Porto Legnago (prov. Verona) -, apre indirettamente sia il problema della qualificazione della bottega dell'artista, mancante a tutt'oggi di emergenze fattuali e non necessariamente attestata su un'unica produzione di livello eccezionale (Leone de Castris, 1984), sia più estensivamente i concetti di cerchia e di comprimarietà esecutiva sulla scena senese del primo ventennio del Trecento: a questi, nella ricostruzione del contesto locale, si agganciano, in termini di derivazione culturale, gli orafi della generazione successiva - Tondino di Guerrino, Andrea Riguardi, Guidino di Guido, e prima ancora Duccio di Donato -, a dimostrare la capacità di G. a orientare il destino delle due generazioni successive (Gauthier, 1972a).
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